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    Antropologia. Una proposta a partire dalla donazione


     

    Voci PG /3

    Rossano Sala

    (2015-05-65)


    «L’uomo, il quale in terra è la sola creatura
    che Dio abbia voluto per se stessa,

    non può ritrovarsi pienamente
    se non attraverso un dono sincero di sé»

    (Gaudium et spes, n. 24)

    Quadro: il contesto ecclesiale e culturale

    Siamo in un tempo di transizione. La stagione moderna si sta concludendo, e questo nostro tempo sembra raccoglierne tutte le bellezze e le tragedie, e nessuno sa con esattezza che cosa ci aspetterà. Unendoci a Romano Guardini – uomo dal cuore profondo, vero esperto in umanità e autentico amico di Dio – siamo “in ansia per l’uomo” [1]: un po’ tutti ci sentiamo attraversati «da un’ansia, avvertita sempre più fortemente, per l’uomo, che non fu mai minacciato più direttamente di oggi» [2].
    Appare quanto mai significativo che la Conferenza Episcopale Italiana, esattamente al centro del decennio 2010-2020 dedicato ad “Educare alla vita buona del Vangelo”, senta la necessità di indire un Convegno Ecclesiale Nazionale (“In Gesù Cristo il nuovo umanesimo”, Firenze 9-13 novembre 2015) che va al cuore stesso dell’educazione, ovvero al discernimento e alla discussione circa l’antropologia di riferimento per una corretta prassi educativa ed evangelizzatrice. L’immagine dell’alfabeto appare quanto mai adatta per comprendere la posta in gioco, perché

    per guardare a un futuro migliore, è necessaria anche una sorta di bonifica culturale al fine di discernere le categorie concettuali e morali che descrivono o deformano l’alfabeto dell’umano, con i suoi fondamentali come la persona, la vita e l’amore, la coppia e la famiglia, il matrimonio e la libertà educativa, la giustizia. È da questa attenzione di tipo antropologico che dipende la possibilità di una società umana o, al contrario, di un coacervo che sarà disumano e spietato [3].

    Fare pastorale giovanile in un mondo in cui la classica affermazione contenuta in Gaudium et spes al n. 22 – «in realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» – è sostituita dalla presunta e nuova “rivelazione” secondo la quale “in realtà solamente nel mistero del funzionamento di un iPad trova vera luce il mistero dell’uomo” non è molto facile. Perché questo in sintesi mi sembra l’esito della martellante “narrazione scientifica” che si sta imponendo in un mondo che comincia a venir chiamato post-umano. Un mondo dove l’uomo non pare altro che un algoritmo molto complesso di cui non siamo ancora venuti a capo, ma che in fondo non ha alcuna sostanziale differenza con i classici, semplici e utilissimi “girarrosti”[4]!

    Ottica: la donazione come chiave di comprensione dell’umano

    Se è vero che la proposta di pastorale giovanile dipende dall’orientamento antropologico/teologico che poniamo all’inizio del nostro percorso, proponiamo la donazione come principio irrinunciabile da cui ripensare l’alfabeto dell’umano, che è visibile prima di tutto nell’umanità di Gesù, la cui vita è all’insegna della dedizione che si compie nella sua donazione. Egli, vero Dio e vero uomo, ci orienta a comprendere il Dio unitrino che è in se stesso Agape, ovvero comunione d’amore, e l’uomo come intrinsecamente progettato ad immagine del Figlio, quindi in una logica profondamente eucaristica, ovvero di ricezione-donazione.
    Bisogna cogliere con decisione il senso dell’articolazione concreta dell’esistenza di Gesù, caratterizzata dal suo riceversi continuamente dal Padre e dalla sua dedizione incondizionata agli uomini. La prospettiva della “donazione” del Figlio è quella centrale, da cui si propagano i raggi di illuminazione in ogni direzione: verso la verticalità, per comprendere la figura di Dio a partire dalla donazione del Cristo, unigenito figlio del Padre; verso l’orizzontalità, per comprendere la figura dell’uomo alla luce della donazione di Gesù, primogenito di una moltitudine di fratelli. Entrambi questi punti di vista sono possibili attraverso il riferimento alla concretissima “storia di Gesù”, che è la vicenda della sua amorevole e radicale donazione. La realtà e il mistero dell’eucaristia del Figlio sta al centro di tutto, come fonte e culmine per la comprensione di questo cammino e in vista dell’inserimento in questa possibilità.

    Riposizionare l’antropologia in ordine all’idea di donazione è un’impresa in pieno svolgimento: le migliori energie in campo – siano esse filosofiche, teologiche o culturali – sono orientate al raggiungimento di questo obiettivo, che in sostanza si può sintetizzare nel tentativo di ricomprendere l’umano e la sua struttura a partire dall’ampio e articolato tema della donazione. Soprattutto in ambito filosofico e teologico, ma non solo, si hanno promettenti tentativi che vanno in questa direzione.

    Contesa: il dono di sé contro la dittatura globale del narcisismo

    La logica del dono ricevuto e offerto è la fonte e il culmine dell’umano: va quindi riconquistata un’antropologia della donazione, capace di rendere conto della configurazione eucaristica dell’esistenza umana: questo va obiettivamente riconosciuto, profondamente apprezzato e adeguatamente sviluppato in tutte le sue articolazioni. La questione antropologica e la sua emergenza sta tutta nel fatto obiettivo di aver perso radicalmente questo orizzonte come punto di riferimento per un adeguato ripensamento dell’antropologia. Proprio questa perdita segna la grave emergenza antropologica in cui tutti ci sentiamo profondamente immersi.
    Sembra ormai chiaro che la legione degli “idoli postmoderni” – tra cui si distinguono per la loro potenza di fascinazione «la fissazione della giovinezza, l’ossessione della crescita, il totalitarismo della comunicazione, l’irreligione della secolarizzazione» [5] – è accomunata da un punto di vista oramai identificato e con cui è necessario intraprendere una battaglia culturale: «La testa del parassita, però, che ha piegato irresistibilmente verso l’idolatria il moderno umanesimo razionalistico della coscienza, ha una precisa identità. Lo indico come principio di autorealizzazione» [6].
    L’uomo invece avviene a se stesso e al suo compimento proprio solo attraverso una dinamica profondamente eucaristica e quindi primariamente responsoriale: il duplice riconoscimento – di essere donati a se stessi e il conseguente compito della donazione ad altri – appaiono la struttura fondante dell’umano. L’uomo è quell’essere che deve «diventare se stesso tramite il ricevere se stesso» [7]. Il retto principio che sta dunque alla base del divino e dell’umano è attestato una volta per tutte da Gesù attraverso la sua esistenza donata, la quale afferma che solo ciò che è donato è salvato e solo ciò che tenuto per sé è davvero perduto:

    Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? [8].

    Romano Guardini ci restituisce una riflessione su questo testo che conviene risentire interamente, per porci nella corretta prospettiva sia antropologica che pedagogica:

    Nel Nuovo Testamento è riportato un detto di Gesù, che ci colpisce in maniera insolita. Suona così: “Chi vuol salvare la propria vita, la perderà; (ma) chi la perde per amor mio, la troverà” (Mt 16,25). L’espressione sta in primo luogo in un contesto immediatamente religioso, e si riferisce al modo in cui un uomo entra in rapporto con Cristo, oppure a partire di lì affronta una situazione di pericolo. Quanto più a lungo ci si misura con essa, però, tanto più si riconosce che è una parola-chiave per la comprensione essenziale dell’esistenza umana. Il vocabolo che in greco dice “vita” (psychè) può significare anche “anima”. Il suo significato si muove attorno a questi due poli; così non andiamo di certo errati se lo traduciamo con “il proprio io vivente”. Allora, la parola di Cristo dice: chi si tien stretto il proprio io vivente, lo perderà; ma chi se ne priva, lo troverà. Apparentemente, un paradosso; in verità, la perfetta espressione di un atteggiamento fondamentale nell’esistenza umana [9].

    Azione: per una pastorale giovanile della corresponsabilità apostolica e delle beatitudini

    In una pastorale giovanile adulta – ovvero capace di orientare e accompagnare i giovani verso la «misura della pienezza di Cristo» [10] – al centro ci sono i verbi “donare-consegnare-trasmettere” e non “ricevere-tenere-prendere”. Se il bambino è per definizione colui che “riceve” e l’adulto colui che “dona”, il passaggio che deve propiziare un cammino di pastorale giovanile è proprio di questo tipo: mostrare al giovane che il principio che lo ha fatto essere è la ricezione di una donazione fatta da altri – ultimamente dal Dio creatore e redentore – e il principio della vita è proprio quello del dono. Il passaggio esistenziale dal primato del ricevere al primato del dare è il compito da attuare per diventare adulti nella vita e nella fede.
    Il cristianesimo, pur esprimendosi in forma dottrinale, non è mai riducibile a questo: è una pratica di vita orientata intimamente alla sequela e all’imitazione del Signore Gesù: la pastorale giovanile rischia di rimanere una teoria senza questo aspetto di coinvolgimento corresponsabile dei giovani nella fede testimoniale. Non è mai troppo lontano il rischio di ridursi a pensare e ad agire come se i giovani fossero solamente destinatari passivi da “formare”, “istruire”, “riempire”, “educare”, “salvare” senza la loro necessaria e intima partecipazione.
    La pastorale giovanile invece fa dei giovani a cui è mandata dei soggetti impegnati in presa diretta nell’esercizio della vita cristiana, e non degli inoperosi, disinteressati e indifferenti “destinatari”: l’idea che i giovani siano soggetti passivi della pastorale giovanile è assolutamente da respingere, perché – in primo luogo – tradisce il cuore della proposta cristiana, che è certamente ricezione dell’iniziativa di Dio a favore nostro, ma, nella sua piena maturità, è altrettanto un impegno esplicito di attestazione esistenziale di un certo modo di vivere che si pone al servizio degli altri. In secondo luogo tale prassi non è per nulla rispettosa dell’età della vita del giovane stesso: un’età che richiede l’energica presa in carico della propria vita, caratterizzata dall’esercizio in prima persona della libertà e della responsabilità, dalla capacità di iniziativa personale attraverso tentativi a volte fallimentari ma assolutamente necessari e improrogabili.
    Il coinvolgimento corresponsabile dei giovani in ordine alla missione della Chiesa – nel momento in cui è adeguatamente accompagnato ed è interpretato con intelligenza da adulti sapienti – porta con sé un vantaggio di grande attualità proprio nel tempo in cui viviamo: precisamente perché il servizio agli altri crea un naturale superamento dell’autoreferenzialità a cui è piegato l’uomo del nostro tempo: allontanano radicalmente il giovane da un’attenzione e da una concentrazione potenzialmente patologica verso la propria persona e lo costringono a confrontarsi e a misurarsi con l’altro da sé e a partire dall’altro da sé. Soprattutto lo mettono davanti all’altro povero e bisognoso, talvolta abbandonato, ma sempre portatore di una domanda di senso e da una richiesta di riconoscimento, non poche volte di compassione evangelica.
    Biblicamente parlando, tale impostazione ci porta alla considerazione delle beatitudini evangeliche come referente antropologico originario e originale per comprendere la natura e il compito di ogni uomo: qui si coglie la necessità e la concretezza di fare della propria vita un dono per gli altri. Le beatitudini evangeliche, oltre ad essere un vero e proprio autoritratto di Gesù, mettono in chiaro che la realizzazione della persona passa attraverso la purificazione della propria vita e il servizio generoso all’altro: le beatitudini decentrano il soggetto e lo misurano a partire dalla necessità di andare incontro all’altro.
    Insieme alle beatitudini, l’altro referente antropologico fondante è il racconto del giudizio finale riportato nel vangelo di Matteo al capitolo 25: le opere di misericordia, che rimangono un quadro attraente della qualità solidale dell’antropologia cristiana, del volontariato che sostiene e nutre di vera umanità la nostra società e della gioia che caratterizza tante persone che fanno generosamente dono di sé agli altri.
    I giovani, secondo le parole di papa Francesco a Rio de Janeiro, non dovrebbero avere bisogno di altro:

    Le Beatitudini. Che cosa dobbiamo fare, Padre? Guarda, leggi le Beatitudini che ti faranno bene. Se vuoi sapere che cosa devi fare concretamente leggi Matteo capitolo 25, che è il protocollo con il quale verremo giudicati. Con queste due cose avete il Piano d’azione: le Beatitudini e Matteo 25. Non avete bisogno di leggere altro [11].

    NOTE

    [1] R. Guardini, Ansia per l’uomo. I-II, Morcelliana, Brescia 1969-1970.
    [2] Ivi, I,7.
    [3] A. Bagnasco, Prolusione all’inizio della 65a Assemblea Generale della CEI, 20 maggio 2013, n. 13.
    [4] Cfr. M. Ferraris, Anima e iPad. E se l’automa fosse lo specchio dell’anima?, Guanda, Parma 2011, 28-29,130,138,141.
    [5] P. Sequeri, Contro gli idoli postmoderni, Lindau, Torino 2011, 7.
    [6] Ivi, 8.
    [7] F. Ulrich, L’uomo come bambino. Per un’antropologia filosofica dell’infanzia (Saggi e proposte 14), LAS, Roma 2013, 6.73.
    [8] Mt 16,24-26.
    [9] R. Guardini (a cura di C. Fedeli), Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica (Emmaus - Scritti di spiritualità e cultura religiosa), La Scuola, Brescia 1987, 41.
    [10] Ef 4,13.
    [11] Francesco, Incontro con i giovani argentini durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Rio de Janeiro, 25 luglio 2013.


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