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    «Avere mani» e servire la vita


    Orizzonte giovani /15

    Domenico Cravero

    (NPG 2014-08-4)


    Abbiamo appena vissuto la forte esperienza ecclesiale dell’assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi sulle sfide pastorali della famiglia, nel contesto dell’evangelizzazione. Questi lavori sono stati preparati da un ampio ascolto della vita ecclesiale e dei traguardi più importanti che la attendono. Mettersi in ascolto è la prima condizione dell’evangelizzazione perché la chiesa non esiste per se stessa ma per il mondo, cui è debitrice dell’annuncio liberatore del Vangelo. La preoccupazione della Chiesa è una sola: che la famiglia sia una “scuola di umanità più completa e più ricca” (GS 52).
    Lo sforzo di essere credibile e convincente, di raggiungere le persone nelle loro situazioni per accompagnarle e aiutarle, s’intreccia, nella consapevolezza ecclesiale, con l’insistenza sulla misericordia di Dio e la tenerezza nei confronti delle persone, soprattutto quelle ferite nei loro affetti.
    La famiglia è la base del "diventare persone", luogo dove la vita biologica diventa vita umana. Il riconoscimento per opera dell’amore è il modello per eccellenza dell’incontro con l’Altro e del riconoscimento sociale (nel diritto e nella solidarietà), dato che ciascuno di noi progredisce solo se riesce a trasformare il non-familiare in familiare.
    Le condizioni concrete di vita, sia nella crisi economica e sociale, sia sul fronte interno delle fragilità psicologiche e affettive, tendono a indebolire l’istituzione familiare.
    La pastorale giovanile può dare il suo contributo operativo per la promozione della famiglia, tanto nell’ambito civile quanto nella comunità ecclesiale. Lo fa rimanendo fedele al mandato dell’evangelizzazione.
    Parlare di Dio, confessarlo, lodarlo avvia, in effetti, un processo storico reale, dove la maturazione della persona rigenera la collettività. La catechesi, la preghiera e la vita trasformata dalla Grazia aprono i giovani alla rivelazione del mistero della loro esistenza e della loro vocazione. I giovani introdotti nella vita teologale, sono riportati alle sorgenti della loro esistenza: la certezza di una fiducia mai smentita, la speranza di futuro, la coscienza di essere amati in assoluto. Nella vita interiore si pongono le domande e si cercano le risposte che danno senso e significato all’esistenza: “Da dove vengo?”; “Dove sono diretto?”; “Chi sono?”; “Che cosa voglio?”. Questo dispiegamento di uno spazio interiore è la prima condizione per diventare soggetti e protagonisti della propria vita.
    Il movimento verticale che cerca profondità, interiorità e motivazione è però indisgiungibile dal movimento orizzontale dell’azione e dell’apertura al mondo.
    Si tratta di osare “avere mani” e dare una dimensione corporale e temporale alla ricerca interiore. L’appartenenza a una tradizione di fede, chiede di mettere in opera proposte e azioni per servire concretamente gli altri. Il modello è la vita di Gesù che: “unto di Spirito Santo e di potenza (…) è andato dappertutto facendo del bene e guarendo tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui” (At 10,38). I suoi miracoli non erano tanto fenomeni di ordine apologetico ma azioni pratiche (“fare del bene”). Non erano solo la prova del suo essere messia, ma indicavano concretamente come egli lo era. Esprimevano la dimensione corporale e temporale del Regno, che riguarda “tutto l’uomo e ogni uomo”, come insegna oggi il magistero.
    Avere mani non significa fare tutto e essere tutto (nessun sogno nostalgico di cristianità!). Dopo il successo dell’azione, Gesù ritorna solo, a pregare (Gv. 6,15). Il maestro manda i discepoli, come gli apostoli istituiranno il diaconato. Avere mani è assumersi il rischio dell’ambivalenza delle cose della terra, come quando l’urgenza impone di mobilitarsi con i propri mezzi limitati, nell’educazione e nella solidarietà.
    La fede può essere annunciata solo se è percepita come una via di umanizzazione, una forza creativa che spinge ad affrontare i problemi, anche quelli della famiglia, con la crisi attuale della nuzialità, della coniugalità, della genitorialità. Siamo in un tempo di confusione e di sperimentazione, dove occorre dispiegare le ricchezze della tradizione cristiana in una situazione nuova, di rottura culturale. Osare avere mani e servire la vita significa anche avventurarsi in una pastorale che non si accontenti di accogliere i giovani che vengono (disposizione che conserva tutto il suo valore), ma accetti di stabilire legami e di fare proposte anche insieme a quelli che non vengono, in una chiesa che nasce sempre «in uscita», come continua a ricordarci papa Francesco. Una “pastorale della proposta” tenta di istituire cammini di vita cristiana in condizione missionaria. La pastorale giovanile ha un’opportunità. La domanda sacramentale degli italiani è molto strana: battesimo e prima comunione continuano a essere richiesti da una maggioranza di italiani. La Cresima può essere considerata una buona occasione di “pastorale della proposta” perché non è più oggetto di domanda di massa e richiede un percorso di iniziazione alla fede. La pastorale giovanile può svilupparsi così come mistagogia del sacramento della confermazione, pensandosi «in uscita» dall’illusione della religione civile e attrezzandosi come percorso catecumenale e mistagogico.
    “Avere mani” esige concretezza, metodo e precisione. Siamo più abituati a confrontarci sui grandi orientamenti di principio che a pensare proposte su obiettivi precisi, in funzione di possibilità reali, sottoposte a verifiche periodiche. Gli stimoli e le provocazioni del sinodo sull’evangelizzazione della famiglia sono un incentivo anche per sperimentare forme coraggiose di pastorale giovanile in condizione missionaria e valutarle per i loro risultati effettivi.


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