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    «A te che importa? Tu seguimi»



    Interpellati da Gesù /10

    Rossano Sala

    (NPG 2014-01-68)

    In coerenza con il fatto che siamo partiti in questa rubrica con la prima domanda di Gesù nel vangelo di Giovanni, concludiamo logicamente con l’ultima domanda presente.
    Siamo consapevoli della relatività del nostro percorso annuale, che ha analizzato pochissime domande rispetto a quante ne sono contenute nella sola narrazione giovannea (abbiamo preso in considerazione solo una decina di domande di Gesù su circa una cinquantina presenti nel testo). Così diventa chiaro che una “rubrica” dovrebbe essere un piccolo assaggio, che ha il compito/pretesa di far nascere il desiderio di continuare la ricerca delle domande che interpellano tutti e ciascuno in tutti i tempi: si può attingere agli altri vangeli, alle lettere paoline, alle narrazioni dell’Antico Testamento e così via. È importante poi, come educatori, acquisire l’arte di Gesù, quella di fare le domande giuste al momento giusto. Soprattutto una rubrica è utile perché dovrebbe offrire un metodo intelligente: in questo caso un punto di vista fecondo per poter avvicinarsi al testo sacro dal punto di vista educativo, facendolo parlare in maniera sempre nuova, e mostrando così che la scrittura è davvero un pozzo inesauribile da cui estrarre sempre cose sempre antiche e sempre nuove per edificare la Chiesa. Sentite come lo dice bene un padre della Chiesa, sant’Efrem diacono, che ci aiuta a rendere grazie per il dono della Sacra Scrittura:

    Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? È molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla. La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l’apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (cfr. 1 Cor 10, 2).
    Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la immensità di essa. Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. È meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l’impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un po’ alla volta» (dai «Commenti dal Diatessaron»).

    Ma concludiamo il nostro itinerario risentendo l’ultimo brano che contiene una domanda ripetuta due volte, che nasce da una possibile rivalità tra Giovanni, il discepolo amato, e Pietro, primo tra gli apostoli. Risentiamo dunque la narrazione:

    20Pietro si voltò e vide che li seguiva quel discepolo che Gesù amava, colui che nella cena si era chinato sul suo petto e gli aveva domandato: «Signore, chi è che ti tradisce?». 21Pietro dunque, come lo vide, disse a Gesù: «Signore, che cosa sarà di lui?». 22Gesù gli rispose: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi». 23Si diffuse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non sarebbe morto. Gesù però non gli aveva detto che non sarebbe morto, ma: «Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa?».
    24Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. 25Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere.

    Leggendo questo testo è la tentazione di interpretare il legame con il Signore in forma non solo preferenziale, ma a volte ristretta e addirittura chiusa. Nella forma di una predilezione esclusiva e non inclusiva, per cui se il Signore vuole bene a me, non può insieme voler bene anche ad altri. È oltremodo facile vivere la relazione con il Signore all’interno della Chiesa in forma monopolizzante ed escludente, senza riconoscere la ricchezza degli apporti di tutti e di ciascuno all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa.
    La rivalità e la gelosia, la concorrenza e la competizione, l’antagonismo e il protagonismo a volte sono dei mali anche all’interno della Chiesa. Mali da riconoscere e da combattere, che sempre si insinuano da ogni parte. La “filosofia dell’inferno”, per la quale non è possibile nemmeno immaginare che Dio sia capace di amare tutti e ciascuno di un amore unico, personale e inclusivo, è ben spiegata da un bellissimo testo che sarebbe certamente da leggere. Si tratta delle Lettere di Berlicche, di C.S. Lewis, il quale narra la tentazione dal punto di vista del demonio e del male. Esso ad un certo punto dice:

    Tutta la filosofia dell’inferno consiste nel riconoscimento dell’assioma che una cosa non è un’altra, e specialmente che un io non è un altro io. Il mio bene è mio bene, e il tuo è tuo. Ciò che uno guadagna un altro perde. Perfino un oggetto inanimato è ciò che è, perché esclude dallo spazio che occupa tutti gli altri oggetti; se si espande, lo fa spingendo da parte gli altri oggetti, oppure assorbendoli. E l’io fa la stessa cosa. Con le bestie l’assorbimento prende forma del cibarsi; per noi significa assorbire la volontà e la libertà da un io più debole in uno più forte. “Essere” significa “essere in competizione” .

    Questa “filosofia” è abbastanza diffusa nel nostro mondo. Ecco allora le ultime parole di Gesù, che sono segnate da una domanda che invita a lasciar fare a lui, a mettere da parte ogni nostro progetto e ogni nostro desiderio personale, lasciandoci portare dove Egli vuole, obbedendo a Lui. Siamo sicuri che Gesù non ha mai abbracciato la “filosofia dell’inferno”: propriamente invece ha abbracciato la croce, che è esattamente il contrario rispetto alla logica della concorrenza e della rivalità, che prendono avvio dal demonio, che fin dalle origini viene presentato come colui che vuole uccidere Dio per prenderne il posto.
    Il testo segna, al termine della domanda, un chiaro invito all’obbedienza nella sua forma più pura: Pietro sarà portato dove non vorrà e in fondo la cosa non lo deve interessare. Nemmeno lo deve interessare che fine faranno gli altri, Giovanni in particolare: «a te che importa?». Questa è una domanda contro la ‘curiositas’, contro la mormorazione, contro le parole e i pensieri inutili e dannosi per la nostra vita. Contro la ricerca di altro rispetto ai doni che già abbiamo e che troppe volte non valorizziamo e di cui non siamo nemmeno consapevoli. Ognuno ha i suoi doni da Dio, e la grande tentazione è quella di guardare ai doni che Dio ha dato ad altri dimenticando quei doni che Egli ha fatto a noi.
    Sembra che Gesù voglia dire a Pietro: “hai già il tuo compito, la tua missione, ricevuta dalle mie mani e dal mio cuore, perché vai cercando altro rispetto a questo? Perché sogni altro rispetto ai doni che io ti ho fatto e che continuo a farti?”. A volte ci sono persone che vivono di questo: vorrebbero fare altro, essere altro, e così vivono di invidia e gelosia. Si può vivere pieni di doni del Signore e non essere mai contenti. Potrebbe capitare così anche a noi, se non teniamo presente l’invito alla sequela: «Tu Seguimi». Sembra un po’ paradossale, se vogliamo, ma il nostro itinerario di domande si conclude con un imperativo!
    Seguire il Signore, mettersi dietro di Lui in umiltà e sincerità, non chiedere altro rispetto a quello che il Signore ci dà, ma essergli grati per la Sua predilezione nei nostri confronti, per la sua amicizia personale, per la sua presenza continua nella nostra vita.
    Che altro ci manca? Non possiamo che essere le persone più felici di questo mondo, perché abbiamo Lui, che sarà con noi fino alla fine del mondo. Che motivi abbiamo per lamentarci?
    Don Bosco ai ragazzi che decidevano di seguirlo nella missione di essere segno e portatore dell’amore di Dio ai giovani era solito dare una triplice garanzia: “ti prometto pane, lavoro e paradiso”, diceva. Si tratta, a mio parere, della traduzione interessante di questo dialogo tra Gesù e Pietro. Di solito si dice che il pane e il lavoro non ci mancano, e che il paradiso lo stiamo aspettando. A me piace invece vedere queste tre promesse insieme: lavorare per il regno garantisce davvero il pane, il lavoro e il paradiso. Lavorare per il regno con retta intenzione – ovvero essere in comunione di vita e di azione con il Signore Gesù, vivendo “per Cristo, con Cristo e in Cristo” la nostra vita cristiana, fatta di gioie e speranze, fatiche e sofferenze, luci e oscurità – è già una vera e propria anticipazione del paradiso. Una volta che siamo e viviamo in presenza di questo, il resto non è davvero così importante come sembra.


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    p a g i n A


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