A cura di Anselmo Palini
(NPG 2014-08-66)
Il Concilio Vaticano II e la Conferenza di Medellin, la teologia della liberazione e le comunità di base, la scelta dei poveri e la denuncia delle ingiustizie strutturali, la testimonianza evangelica e la persecuzione: tutto questo troviamo nella vicenda del bresciano don Pierluigi Murgioni.
Ordinato sacerdote nel 1966 da Paolo VI, dopo un anno di servizio pastorale a Villaputzu, in Sardegna, la terra d’origine della sua famiglia, si recò per un anno in Spagna, a Madrid, sia per imparare la lingua, sia per frequentare dei corsi di preparazione in vista della missione in Uruguay, Paese cui era stato destinato.
Agli inizi di settembre del 1968 arriva in Uruguay, proprio mentre i vescovi latinoamericani nella loro Conferenza di Medellin facevano la scelta dei poveri: in una realtà che vedeva la presenza di Paesi retti da dittature militari e con una situazione sociale caratterizzata da radicali squilibri e ingiustizie sociali, la Chiesa latinoamericana, sull’onda del Concilio, si schierava così dalla parte dei deboli e degli oppressi.
L’America latina che don Pierluigi trova al suo arrivo è una realtà passata in campo economico dalla sfera d’influenza inglese a quella statunitense. E’ una realtà caratterizzata dall’avvento di dittature militari sia nei piccoli Paesi, come l’Uruguay, sia nelle grande nazioni come il Brasile, e di lì a poco anche in Cile e in Argentina.
L’Uruguay, da Svizzera d’America quale era considerato ancora alla metà del Novecento, era in breve sprofondato in una grave crisi economica e politica, con i militari sempre più padroni della situazione. Nel giugno 1968 il governo del presidente Pacheco proclama lo stato d’emergenza, annullando tutte le garanzie costituzionali e di fatto dando il via alla creazione di uno stato dittatoriale.
Il 10 settembre 1968 don Murgioni giunge in Uruguay e inizia a svolgere il proprio servizio nella diocesi di Melo. Murgioni chiede di poter risiedere in un quartiere povero, il barrio santa Cruz, in una piccola casa presa in affitto; poi l’anno successivo accetta la proposta del vescovo di Melo, mons. Caceres, di trasferirsi a Treinta y Tres, la seconda città della diocesi, sprovvista di servizio pastorale.
Con l’attività di evangelizzazione e promozione umana si pone di fatto in contrasto con la politica totalitaria e dittatoriale del governo. Ben presto don Pierluigi si coinvolge direttamente con le forze di opposizione, aiutando a procurare documenti falsi per permettere agli oppositori ricercati di sfuggire alla cattura e riparare all’estero.
Nel 1971 il vescovo di Brescia, mons. Morstabilini, si reca in Brasile per incontrare i sacerdoti bresciani presenti in America latina. Don Murgioni in tale occasione ha un lungo colloquio con il suo vescovo e gli esprime apertamente il proprio punto di vista e gli illustra quanto sta facendo. Il vescovo, mons. Morstabilini, pur non comprendendo tutte le scelte e le posizioni di don Murgioni, non gli fa mancare il proprio appoggio e lo invita a compiere le scelte che, alla luce del vangelo, ritiene giuste nella realtà in cui vive.
Nel dicembre 1971 don Pierluigi torna in Italia per un periodo di vacanza, vi resterà fino al mese di marzo. La situazione in Uruguay peggiora sensibilmente, l’abitazione di don Pierluigi viene perquisita dai militari, diversi suoi collaboratori pastorali vengono fermati o arrestati. Quando è sulla via del ritorno, i suoi compagni in Uruguay gli fanno sapere di non scendere con la nave a Montevideo, ma di proseguire per l’Argentina, consiglio che il sacerdote bresciano non segue: non ritiene corretto mettersi in salvo quando diversi suoi collaboratori sono finiti in carcere. Così l’8 maggio 1972 anche don Pierluigi viene arrestato a Treinta y Tres, con l’accusa di far parte del movimento rivoluzionario dei Tupamaros
Arrestato e sottoposto a inaudite torture, viene rinchiuso in carcere per oltre cinque anni per la sola colpa di avere proposto con la parola e con l’esempio il messaggio evangelico di pace e di giustizia.
Per un certo periodo nel carcere di Punta Carretas è detenuto nello spesso piano in cui vi era l’attuale Presidente dell’Uruguay, José Mujica. Viene poi trasferito nel carcere di massima sicurezza di Libertad, un penitenziario costruito sopra alte colonne in modo da rendere impossibile qualsiasi tentativo di fuga.
Nei lunghi anni trascorsi in carcere don Pierluigi è un punto di riferimento per gli altri detenuti: tutti ammirano la sua coerenza, la sua forza nel resistere ai soprusi, la sua dignità.
Ha scritto al riguardo un suo compagno di prigionia, Juan Baladan Gadea: «Quando don Pierluigi venne arrestato, anch’io venni riportato dal carcere alla caserma e messo a confronto con lui. Nonostante le torture, non pronunciò mai un’accusa contro di me. In carcere ricordo la sua fedeltà: non aveva atteggiamenti ambigui. Si poteva sempre contare su di lui. Era un compagno che condivideva le nostre angosce, uno dei pochi preti profondamente ecumenici. Era l’amico di tutti, cattolici, protestanti o atei. Ma era anche intransigente con i nostri aguzzini. Non riuscirono mai a piegarlo. Fu spesso costretto in cella d’isolamento. Una volta lo rinchiusero senza una ragione in cella con un prigioniero schizofrenico, che avrebbe potuto in ogni momento aggredirlo. Riuscii a farmi assegnare al servizio vivandieri per potergli parlare. Mi disse che gli avevano inflitto quella punizione ingiusta per spezzarlo, ma non si lamentò né chiese agli amici interventi per farla cessare».
Don Pierluigi - grazie al diretto interessamento di Paolo VI, del Governo Italiano e della Chiesa bresciana - viene rilasciato il 9 ottobre 1977 ed espulso dall’Uruguay:. Nonostante i terribili anni trascorsi in prigionia, don Murgioni tornò in Italia ancora più convinto del fatto che quella del Vangelo e della nonviolenza fosse l’unica strada da percorrere.
Vanda Bono, una uruguayana ora residente in Italia, ha raccolto per la propria tesi di laurea, sulla pratica della tortura in Uruguay al tempo della dittatura, una lunga intervista a don Pierluigi. Ha poi così sintetizzato il significato che per lei ha avuto incontrare e intervistare il sacerdote bresciano:
«Quando avevo incontrato don Murgioni, mi aveva colpito molto, dietro le evidenti fitte che portava nell’animo per quanto accaduto, la forza e la determinazione che lo caratterizzavano. Avevo esitato nel contattarlo. Sapevo, per averlo letto, che è difficile ritornare con la memoria a esperienze tanto traumatiche, che il tentativo era quello di lasciarsele dietro le spalle. E lo dissi a don Murgioni, ma lui mi rispose: «Non ti preoccupare. Lascia il foglio con le domande che hai preparato e io ti risponderò». Il risultato è quello che ho riportato nella tesi ed è una testimonianza preziosa, che non lascia nulla di non detto, nella convinzione che occorra far conoscere, che occorra non dimenticare poi. Mi sono sempre sentita debitrice nei suoi confronti. Durante l’anno, il quarto di università, in cui ho preparato il mio lavoro, lo facevo la sera, leggevo pagine che mi facevano star male per le atrocità che vi erano narrate. Invece attraverso don Murgioni avevo incontrato qualcuno che queste violenze e atrocità le aveva vissute e sembrava indicare, con la sua scelta di rispondere, il futuro, indicava dei valori di umanità e di condivisione che vincevano su quel dolore. Era per questo, soprattutto, per dirgli grazie, che ero tornata da lui a ottobre 1979 per portargli una copia del mio lavoro» .
Rientrato in Italia, don Murgioni riprende a svolgere il proprio servizio nella diocesi di Brescia. Negli ultimi mesi di vita si dedica alla traduzione in italiano del Diario di Oscar Romero.
Pierluigi Murgioni muore il 2 novembre 1993, a soli cinquantun anni, a causa probabilmente di una lenta degenerazione degli organi più martoriati dalle torture subite in carcere.
Ha scritto mons. Domenico Sigalini, compagno di studi di don Murgioni durante gli anni di seminario: «Don Pierluigi nella sua vita non è andato avanti a caso, non ha camminato senza meta, ma si è fatto missionario, cioè ha abbandonato le sicurezze, si è trovato compagni di viaggio, ha fissato lo sguardo su un obiettivo, ha scelto l’essenziale e ha rischiato. Un missionario destabilizza le certezze che lo tengono legato a ciò che è già sicuro e conquistato, ma comodo e inutile, e riesce a fare un percorso senza rete di protezione, una scalata in free climbing, perché non ha nessuna certezza se non nella provvidenza di Dio. Per lui ha senso avere coraggio, convivere con il rischio e l’incertezza, guardare più al futuro che al passato, affidare la riuscita nella vita più a una fionda che a un’armatura, come Davide contro Golia. Avere coraggio significa farsi conquistare dal discorso della montagna, con quella marcia in più che ti dà una fiducia assoluta in Dio. Avere coraggio è come portare dentro un fuoco che vorresti bruciasse tutte le incertezze che ti tarpano le ali. Avere il coraggio della fede comporta la consapevolezza di essere amati da Dio senza riserve e di avere la sua forza per affrontare l’esistenza. Avere coraggio significa essere felice di vivere per un ideale e trasmetterlo a tutti, farlo cantare nella propria vita perché diventi forza per gli altri. Ma proprio perché metti al centro Gesù Cristo, scateni le forze del male, sottrai la terra sotto i piedi alla cattiveria, sfidi le coscienze, destabilizzi le false sicurezze, sdogani quell’esigenza di un di più di amore che per spegnere l’odio chiede in cambio la vita. E in chi nella vita ha maturato una decisione nella preghiera, nell’ascolto della parola, nell’amore a Gesù Cristo, nasce la forza di accogliere, sopportare, credere e non mollare. Don Pierluigi ha vissuto questo».