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    Con i giovani: una compagnia da riscoprire e valorizzare


    Claudio Belfiore

    (NPG 2014-06-24)


    Nel percorso di studio e approfondimento che hanno fatto i Salesiani nel corso di questi anni in preparazione al Bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco, ma anche nel cammino che la Chiesa italiana si è data per l’attuale decennio con gli orientamenti sull’educazione, il potersi soffermare su questo aspetto della pastorale giovanile è del tutto provvidenziale. La seguente riflessione prende avvio dal tema lanciato per accompagnare il Bicentenario del santo educatore dei giovani, il cui carisma risponde alle dinamiche dei doni che vengono dal Signore: sono per qualcuno in particolare, ma per il bene e ad edificazione di tutta la Chiesa.
    L’espressione scelta per condensare il tema, Missione di Don Bosco con i giovani e per i giovani, non suona propriamente come uno slogan e non ne ha la forza comunicativa. Eppure cela in sé un che di affascinante e rivelativo, aspetti cui merita dedicare attenzione e sviluppo. Spontaneamente l’accento cade sulle due preposizioni: “con” e “per” i giovani. Nulla di nuovo, verrebbe da dire. È risaputo che il santo educatore torinese ha dedicato tutta la sua vita ai giovani e che per loro ha fondato opere e istituzioni, ha coinvolto ecclesiastici e laici, ha raccolto benefattori e collaboratori. Così come, sempre per il bene dei giovani, si è attirato inimicizie e avversità ed ha consumato la sua vita fino a morirne.
    Come spesso capita con le parole o le frasi troppo comuni, anche per una certa consuetudine, la loro profondità e la pienezza del loro significato emerge quando si ha la pazienza di scavare e di andare al di là del primo impatto: oltre l’etichetta, dentro la sostanza. E nel tentare di cogliere la novità del tema lanciato per il Bicentenario l’attenzione di questo articolo verterà soprattutto sul tema dell’agire pastorale con i giovani, ritenendo questo aspetto qualificante e a ben vedere elemento di rigenerazione della stessa pastorale giovanile.
    Quali sono le intuizioni pedagogiche e pastorali che si nascondono nell’indicazione di agire “con” i giovani? Si riferisce alla necessità educativa di intessere relazioni con l’educando? È un’indicazione di metodo per rendere più efficace l’agire pedagogico? Nasconde forse una velata forma di captatio benevolentiae per fare in modo che l’educatore sia ben accolto? Oppure suggerisce un’astuta e funzionale concessione al bisogno di esprimersi e di apparire dei giovani? Potrebbe essere una sollecitazione ad anticipare e realizzare in forma di laboratorio quanto i giovani, una volta che non saranno più tali, vivranno e sperimenteranno come adulti nella comunità civile ed ecclesiale?
    Nel toccare questo tema pericolo assolutamente da evitare è quello di allineare in forma consecutiva le argomentazioni di seguito presentate, quasi costituissero delle tappe successive di un cammino ben scandito. Come in un cocktail tali elementi devono essere compresenti, con le opportune o doverose aggiunte correttive e integrative. L’arte dell’educatore sta nel dosaggio e nell’amalgama. Troppo spesso ci si è accostati all’educazione e alla pastorale analizzando e scomponendo, distinguendo le parti e concentrandosi su un particolare, dimenticandosi che la parte va sempre riportata al tutto e che la vita umana e spirituale è l’intreccio di tutti gli elementi nel loro insieme.

    In principio la relazione

    Innanzi tutto l’espressione “con i giovani” evidenzia il dovere/bisogno di stare con. Può sembrare un’affermazione scontata e banale, quasi una tautologia, ma non lo è affatto. Riprendendo la metafora del cocktail, esso si compone di diversi elementi compresenti. Uno di questi è il principale, è la base che caratterizza il tipo di cocktail, con termine tecnico si dice che ne costituisce la struttura. Lo stare con è paragonabile a questo prodotto base, che qualifica e specifica, differenziandolo da qualsiasi altro tipo di cocktail e permettendone la riconoscibilità. Alcune considerazioni su cosa si intende e sulle implicanze dello stare con ce ne daranno le adeguate ragioni.
    L’agire pastorale con i giovani, che è sempre e in ogni luogo anche un agire educativo, ha come condizione base la presenza di una relazione, al di fuori della quale si sperimenta un rapporto di estraneità. Quale educazione è possibile in assenza di relazione? Si può parlare di informazione, forse anche di trasmissione di contenuti e competenze, ma se l’intento è quello educativo, specialmente quando esso abbia di mira l’accompagnamento della persona nelle sue dinamiche più profonde, condizione necessaria e decisiva è la cura della relazione. Essa può avere caratteristiche e accentuazioni molto diversificate, a seconda dei contesti educativi o dei percorsi che si desidera offrire, ma è innegabile che debba essere messa a tema, prima e più ancora che non la metodologia progettuale.
    Oltre che seriamente fondata su una chiara intenzionalità educativa, la relazione educativa con le nuove generazioni, specialmente in contesto ecclesiale e salesiano, si caratterizza per il fatto di essere sostenuta da una profonda simpatia nei confronti dei giovani. A suo modo Don Bosco aveva espresso questo atteggiamento di fondo nella frase, probabilmente una delle più conosciute e citate, “basta che siate giovani perché io vi ami assai”. Un’attenzione privilegiata, quasi una predilezione, che è facilmente comprensibile quando si tratta di prendersi a cuore i bambini, ma che non perde la sua forza motivante e coinvolgente anche con le fasce di età più avanzate e spesso anche più problematiche: quella dei preadolescenti, degli adolescenti e dei giovani. A motivo di questa predilezione l’educatore è là dove sono i giovani, nei suoi contesti vitali, nei suoi spazi e nei suoi tempi, in qualche modo sempre online, nel digital o in presenza.
    È una simpatia, una vicinanza, colorata di empatia, di particolare risonanza affettiva, che mette quasi naturalmente in sintonia con le nuove generazioni, e che sono ulteriormente espressione di quanto evocato nell’espressione “con i giovani”: è piacevole stare con loro, è profondamente motivante la scelta del dedicarsi alla loro crescita e maturazione. Non si agisce solo per i giovani, pensando, pregando e attivando nuove proposte e iniziative a loro favore, ma lo si costruisce e realizza insieme, con quello stare insieme che non asseconda la gratificazione vicendevole, ma è fucina di nuovi traguardi e stimolanti obiettivi.
    Effetto del tutto auspicabile di questo stare insieme, della frequentazione interessata e appassionata dei giovani, è che tale relazione si offre all’educatore come via privilegiata per conoscere i giovani. Una conoscenza diretta ed esperienziale, non per sentito dire o mediata solamente dagli studi più o meno accademici. In genere quale conoscenza hanno gli adulti del mondo giovanile? Ognuno concentrato sul proprio mondo, si corre il pericolo di conoscersi attraverso le chiacchierata da mercato oppure dai media, attraverso il filtro del come ne parlano i giornali e le tv, o da quello che risalta nei commenti sui social e sul web. La conoscenza dell’educatore è animata e filtrata dall’amore per i giovani, dalla simpatia nei loro confronti, dall’empatia verso i loro bisogni e le loro attese. Ma soprattutto è una conoscenza diretta, per esperienza. Certo non si conosceranno tutti i giovani, di tutte le fasce di età, ma è legittimo chiedersi: chi li conosce veramente? Dagli studi e dalle ricerche l’educatore certamente può ricavare le categorie interpretative e le intuizioni da verificare nelle singole situazioni, ma sempre con la sapiente accortezza di non farle diventare delle griglie restrittive e delle gabbie che mortificano il giovane e i giovani.
    Non è infine da trascurare il fatto che lo stesso educatore, grazie a questa compresenza prolungata nel tempo e nello spazio e profonda e coinvolgente nell’intensità, si rende conoscibile dai giovani. A costoro egli apre il libro della propria vita, perché ne leggano le ragioni e i criteri di pensiero e di scelta e ne riconoscano i valori che lo animano. L’intenzionalità, l’autenticità e il buon agire dell’educatore sono le caratteristiche che lo rendono credibile, pur nella fragilità che caratterizza ogni persona. Sono questi gli aspetti che rafforzano e danno autorevolezza ai percorsi e agli obiettivi che egli propone e di cui si fa compagno di viaggio, perché riportano l’agire educativo nell’alveo più connaturale: consegna della visione globale sulla propria vita e sul mondo, compreso l’orizzonte della trascendenza, da persona a persona.

    Giovani con i giovani

    Un’altra intuizione si può cogliere dal tema che ci siamo proposti di approfondire. Il seguente è un aspetto che Papa Francesco ha evidenziato a Rio de Janeiro con la semplicità e profondità che lo caratterizza: «il miglior strumento per evangelizzare i giovani sono altri giovani».
    Il tema del Bicentenario vuole evidenziare questa specificità metodologica, che è parte della tradizione educativa di Don Bosco. L’intervento di Don Motto ne ha fornito ampia documentazione, mostrando come a tutte le età sia possibile sollecitare il ragazzo e il giovane a svolgere una funzione educativa con i propri coetanei, seppur parziale e proporzionata alle età. Tutto sommato si tratta di una pratica che in alcuni contesti ha assunto valore pedagogico di metodo scientifico a livello civile: si parla di peer education. Essa si fonda sulla vicinanza culturale e sulla similarità percepita: linguaggio, sensibilità, genere sessuale e vicinanza psicologica, affinità di interessi e di situazioni di vita, complicità e sintonia, sono alcuni degli elementi che facilitano la relazione tra pari, tra coetanei, e che possono essere valorizzati per promuovere comportamenti e conoscenze di maggiore responsabilità e consapevolezza nella propria crescita.
    Evidentemente non si tratta di affidare e meno ancora di “scaricare” ai ragazzi e ai giovani le responsabilità che competono alle figure adulte di riferimento, in primis i genitori. Quanto piuttosto di attivare e valorizzare una risorsa complementare all’azione degli educatori, colmando in questo modo il gap culturale e di approccio che si è venuto a creare tra gli adulti e le nuove generazioni. Va mantenuto anche in questo contesto la regola del con: non gli adulti da soli, non i giovani da soli, ma insieme, in quella sinergica comunione di intenti da cui si coglie che si agisce all’interno della stessa missione, pur con ruoli e compiti diversi.
    Non è poi da sottovalutare il fatto che il coinvolgimento dei giovani nella missione educativa diventa motivo e occasione di educazione per le stesse figure adulte coinvolte, a motivo della dinamica della reciprocità: si attiva in tal modo un rapporto promuovente tra adulto (educatore) e giovane. Entrambi i soggetti maturano come persone, senza nulla togliere all’asimmetria educativa esistente tra di loro, disposti come sono a lasciarsi “contagiare” dall’altro e dalla vita dell’altro. Con i dovuti distinguo e senza confondere i ruoli, anche l’educatore ha cose da imparare, ha un saper vivere da riattualizzare e da incarnare nell’oggi, ha domande nuove a cui rispondere e risposte antiche da ripensare.

    Un protagonismo responsabile e responsabilizzante

    A questo punto il cocktail dell’educazione con i giovani sembra pronto: ha il suo elemento base, sono stati aggiunti anche l’aromatizzante e il colorante. Non manca nulla. E tuttavia qui entra in gioco l’arte di chi lo prepara, che dopo aver dosato i diversi elementi si applica con agili movimenti per raggiungere il suo scopo e soddisfare il cliente. Nel farci compagni di viaggio dei giovani dove vogliamo arrivare? Molto bene curare la relazione ed essere empatici, accostare i giovani con simpatia e stima e valorizzare le loro capacità e la connaturale sintonia con i coetanei, ma con quale intento? Quali finalità implica la missione pastorale ed educativa con i giovani? Nel dare risposta a tali domande si coglie il favorevole e costruttivo impatto che ha una pastorale giovanile che opera con i giovani, a partire da tutte le implicanze che abbiamo finora evidenziato, e non solo per i giovani. Ma è proprio a partire dalla sua finalità di fondo che possiamo trarre le considerazioni che più avvalorano questo tipo di approccio e questa particolare sottolineatura.
    Con tutta la fantasia e la creatività che le è propria, la pastorale giovanile mira a formare “buoni cristiani e onesti cittadini”, direbbe don Bosco, cioè adulti consapevoli e responsabili del proprio compito all’interno della comunità ecclesiale e civile. Entrando nel merito dell’azione educativa, delle modalità e dei soggetti coinvolti, si sente spesso dire che i giovani non sono semplicemente destinatari dell’azione della Chiesa e degli educatori in genere, ma devono diventare essi stessi protagonisti nella propria maturazione e crescita. Purtroppo in alcune situazioni si è declinato in forma minimale, e a volte addirittura distorta, il tema del protagonismo giovanile, quasi fosse sufficiente metterli al centro dell’attenzione e consegnare loro il microfono della vita. Quale rilettura possiamo fare attraverso l’espressione con i giovani? Essa ci colloca al centro di due distorsioni educative e pastorali, in equilibrio sulla corda sospesa in aria: da una parte un agire che li rappresenta solo come destinatari passivi, fruitori di un servizio e di un “pacchetto” che gli viene consegnato e che loro sono sollecitati a far proprio ed assimilare; dall’altra un agire che li abbandona in un protagonismo solitario, rinunciando in questo modo a quell’asimmetria educativa che qualifica il rapporto giovane-adulto e affidando loro compiti e responsabilità di notevole portata, senza preparazione ma ancor peggio senza accompagnamento.
    Nell’affermare che la pastorale giovanile ha bisogno di operare con i giovani, riconosciamo un principio assolutamente efficace e coerente con il percorso educativo e gli obiettivi che intende proporre ai giovani. La compartecipazione che a loro viene richiesta, già dalla tenera età in modo proporzionato e rispettoso delle loro capacità, si prefigura come un anticipo di quel che saranno e sono chiamati a diventare: uomini e donne adulti capaci e determinati nell’assumere responsabilmente i compiti che il loro stato e le circostanze della vita gli sottoporranno. Il raggiungimento di tale traguardo, oggi più che mai auspicabile e necessario, è possibile nella misura in cui il protagonismo dei giovani, sempre in rapporto alla loro età, sia applicato non solo al fare, che nasconde sempre il pericolo di un riduzionismo funzionale (ho alcuni gruppi e attività scoperte, devo cercare qualcuno che copra questi vuoti…). Ma sia un protagonismo di compartecipazione, reale ed efficace quando il confronto avviene anche a livello del pensare e del progettare gli obiettivi e le iniziative da proporre. In tal modo il giovane diventa consapevole e maggiormente corresponsabile del proprio cammino di maturazione e di crescita.
    C’è poi un ulteriore livello di sviluppo di questa corresponsabilità, allorché l’adolescente e il giovane – ma la storia dei santi sembra dirci che sia possibile anche con i bambini e i preadolescenti – in modo progressivamente sempre più consapevole, fa propria la missione educativa e pastorale nei confronti di coloro che sono più giovani e dei propri coetanei, e diventando così loro animatore ed educatore si pone nella condizione migliore per imparare e per formare se stesso. A conferma della validità e delle potenzialità di tale situazione si può fare riferimento a quelle metodologie didattiche che si ispirano al learning by doing, cioè all’imparare facendo, non dimenticando che ciò che è auspicabile che tutti imparino dall’esperienza educativa – e questo vale anche per gli adulti – sono l’arte e la saggezza del vivere, prima e più ancora delle abilità specifiche e organizzative. Esperienze come il Grest, l’Estate ragazzi, i campi estivi, il volontariato di vario genere, l’animazione in tutte le sue forme, il servizio dell’annuncio e della catechesi e quello della carità, e tutto quanto la fantasia e la creatività della pastorale giovanile sono in grado di mettere in campo, portano in sé questa incredibile potenzialità: essere esperienze che generano vita nuova, grembo da cui possono nascere uomini e donne rinnovati e capaci di rinnovamento. In tali contesti il giovane si allena nel praticare e accrescere le proprie competenze sociali: psicologiche, relazionali e comunicative, fondamentali nell’interazione sociale e nel ben-vivere con gli altri; allo stesso tempo sperimenta e assume in modo personale le competenze trasversali, che sono una dotazione fondamentale per ogni persona adulta: capacità di diagnosi, di relazione, di problem solving, di decisione, di comunicazione, di organizzazione del proprio lavoro, di gestione del tempo, di adattamento a diversi ambienti culturali, di gestione dello stress, attitudine al lavoro di gruppo, spirito di iniziativa, flessibilità, visione d’insieme.
    A conclusione di queste brevi riflessioni ci rendiamo conto di aver appena accennato ad alcuni temi e tratteggiato alcune linee di riflessione: ovviamente esigono di essere approfonditi e progressivamente declinati nelle varie situazioni. E tuttavia ci è parso di toccare un punto determinante e qualificante la prassi pastorale delle nostre comunità cristiane: pensare, progettare, realizzare e verificare con i giovani, cioè coinvolgendoli in modo responsabile e responsabilizzante, vuol dire concepire una pastorale che già attua in germe il traguardo e la finalità verso cui orienta tutto il suo agire e condividere: anticipa in forma esperienziale e vitale quello che dovrà essere. Per questo la pastorale giovanile pensata e agita con i giovani è previa ed esige maggior attenzione e sviluppo di quella pensata e agita per i giovani.


    T e r z a
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