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    L’amore fra affetti e legami (Dossier "La verità, vi prego, sull'amore" /2)



    Roberto Carelli

    (NPG 2014-08-29)


    Il sentimento d’amore e le sue forme

    Abbiamo visto che l’amore, quando c’è, è semplice e concreto, e il suo regime è quello del paradosso; al contrario, le dissociazioni e le astrazioni lo corrompono, e il regime di univocità gli è estraneo. Ora, fenomeni culturali moderni come la retorica dell’amore puro, la riduzione dell’amore a sentimento e l’idealizzazione dello stato di innamoramento, unitamente alle forme postmoderne del loro disincanto, ci consegnano l’eredità di uno scarto fra l’assolutezza dell’idea di amore e la relatività delle sue forme. Più semplicemente, scissione fra affetti e legami, fra momento psicologico e momento etico dell’amore, che esaltato in linea di principio, viene mortificato all’atto pratico [1].
    La scissione affetti-legami è osservabile da più parti, ma l’indicazione è sempre convergente: l’esperimento di proteggere il tutto dell’amore, e quindi il suo incanto, la sua spiritualità e infinità, dalla particolarità delle sue forme, e quindi la loro quotidianità, la loro materialità e finitezza, è distruttivo. U. Beck, studiando le variazioni dei legami familiari, ha individuato il nodo attuale dell’amore nello scarto fra sentimento e costume, fra l’incondizionato dell’amore e le sue condizioni effettive. Accade che il sentimento amoroso mantenga intatta la sua purezza ideale, ma le forme che da sempre lo hanno incarnato precipitano in una condizione di caos che tende a normalizzarsi e a globalizzarsi: «nel modello occidentale radicalmente diffuso sin dall’inizio del 21º secolo, all’amore spetta un posto assoluto, mentre i contrasti tra individualizzazione, felicità e amore sono la condicio sine qua non di tutto il resto: relazione di coppia, matrimonio, procreazione, convivenza, comunione dei beni, ma anche separazioni, divorzi» [2].
    In realtà, nessun tipo di amore si regge in regime di dissociazione fra ideale e realtà, fra le aspettative che si nutrono nei suoi confronti e l’impegno che è necessario per realizzarle. Anche X. Lacroix, nel suo bel libro sui “miraggi” dell’amore, tenendo presente la reazione della “famiglia affettiva” contemporanea alla “famiglia istituzionale” del passato, insiste molto sulla tesi che l’amore è essenziale, ma non esiste solo l’essenziale: «ma può essere l’amore il solo fondamento della coppia e della famiglia?… Dobbiamo avere il coraggio di dirlo, amare non è sufficiente. L’amore, per forte che sia, non sopprime le difficoltà a comunicare, a esprimere i propri desideri o le proprie pene, a saper dire serenamente no, non più della paura di essere inghiottiti nella relazione, del risorgere dell’immagine parentale, della mancanza di immaginazione per tener viva quella lunga conversazione che ha una vita di coppia. Si può amarsi ed essere incapaci di vivere insieme, incapaci psichicamente di sopportare la vicinanza quotidiana, di controllare i propri affetti, di vincere gli ostacoli che forse non sono insormontabili, ma che non si sanno eliminare. Occorre anche un saper fare e saper essere per vivere in coppia. L’amore non elimina magicamente l’incapacità» [3].
    Davvero non basta amare: l’amore ha le sue forme e le sue leggi, e il fatto che l’amore vero sia “incondizionato” non significa che vi sia amore “a qualunque condizione”: c’è la libertà e la sua maturazione, ci sono le decisioni e le alleanze, l’unione dei cuori e il rispetto delle regole, la società intima e la società pubblica. L’amore vero è sempre insieme sentimento e decisione, passione e azione, forza e forma. Giustamente De Rougemont, osservando la corrispondenza fra la riduzione sentimentale dell’amore e l’indebolimento dei legami matrimoniali, scriveva: «essere innamorati è uno stato; amare è un atto. Si subisce uno stato, ma un atto si decide» [4].
    Anche C.S. Lewis, l’autore di un saggio fra i più suggestivi in tema di amore, non ha alcun dubbio: l’amore è totalizzante, ma non autosufficiente, e perché ci sia amore ci vuole altro dall’amore: «l’affetto produce felicità se e soltanto se c’è buon senso, “scambio reciproco”, “educazione”. In altre parole, soltanto se vi aggiungiamo qualcosa di diverso dall’affetto. Il puro sentimento non basta; c’è bisogno di “scambio reciproco”, vale a dire di giustizia che continuamente stimoli l’affetto quando esso si affievolisce, e lo controlli quando esso dimentica o sfida le regole che fanno dell’amore un’arte. C’è bisogno di “educazione”. È inutile volerci nascondere che questo significa bontà, pazienza, abnegazione, umiltà e l’intervento continuo di un tipo di amore ben più alto di quello che l’affetto, da solo, potrebbe mai arrivare a essere. Questo è il punto. Se cerchiamo di vivere soltanto d’affetto, l’affetto si rivolterà contro di noi» [5].
    Anche F. Alberoni, studiando il fenomeno dell’innamoramento, da una parte ne coglie l’originalità, d’altra parte neanche si sogna di isolarlo dalla vicenda complessiva dell’amore. Particolarmente significativo è il richiamo alle implicazione morali del fenomeno amoroso: «nessuno ha mai messo in evidenza le profonde implicanze morali dell’innamoramento: il bisogno di verità, di sincerità, di pulizia interiore… Non c’è prima la bufera neurologica e poi l’attaccamento stabile. No, i legami amorosi e i processi di fusione, di storicizzazione, i conflitti e gli aggiustamenti reciproci, avvengono proprio all’interno di ciò che essi registrano come bufera neurologica… Ma oggi il processo che va dallo stato nascente fino alla creazione di un’istituzione stabile molto spesso si interrompe nelle prime fasi. Grazie alla libertà sessuale, quando due persone si piacciono o provano attrazione improvvisa e intensa che chiamano colpo di fulmine, si gettano subito l’uno nelle braccia dell’altro, hanno frenetici rapporti sessuali. Con questa esperienza di erotismo straordinario hanno l’impressione di aver realizzato la fusione. È in parte questo, ma solo in parte, perché, tutti presi dalla loro esperienza meravigliosa, non vogliono avere rapporti con la vita quotidiana, con i suoi problemi. Quello che conta è il presente, il qui ed ora, il resto è nulla. L’innamoramento appare loro come una nuova vita a sé stante, a cui abbandonarsi senza pensieri, senza domande. Non vogliamo pensare al passato, non vogliamo sapere nulla l’uno dell’altro, se potessero non si direbbe nemmeno il nome. Tantomeno vogliamo pensare al futuro, costruire una coppia o una famiglia. Si collocano interamente nell’ambito dell’erotico, riducendo lo stato nascente all’erotico. In questo modo però, non mettono in moto il processo di conoscenza reciproca, che può avvenire quando ciascuno vuole vedere il mondo con gli occhi dell’altro. Non mettono in moto il processo di confronto, che consente di abbandonare le parti di sé incompatibili con l’altro. Non fanno nulla per dare consistenza reale al processo di fusione» [6].
    Anche in area antropologica, la scissione fra affetti e legami è più che segnalata. In una vasta ricerca interdisciplinare su affetti e legami, C. Vigna afferma che solo la congiunzione dell’affettivo e dell’etico assicura all’amore i due caratteri altrettanto desiderabili della tenerezza e della stabilità, mentre la loro dissociazione produce sempre grande sofferenza: «gli affetti senza legami sono fonte inesauribile di lutti dolorosi, perché tramontano rapidamente; i legami senza affetti sono fonte inesauribile di conflitti dolorosi, perché diventano facile preda della scienza del sospetto… L’affettività dà al legame la tenerezza della vita buona, mentre il legame dà all’affettività la forza della stabilità» [7].
    Con Vigna concorda Botturi, il quale si chiede come mai gli affetti sembrano oggi incapaci di generare legami, mentre i legami tendono a diventare insopportabili. E la risposta è ancora una volta che l’amore si regge sulla reciprocità di sentimento e opera, sull’incessante e vicendevole rinvio della dimensione passiva dell’affetto alla costruzione attiva del legame. Non esiste solo il “dono” dell’amore, esiste anche un “lavoro” dell’amore [8]. La fissazione sull’innamoramento è in questo senso degenerativa: «amare significa voler amare, cioè assumere liberamente l’intenzionalità affettiva che l’innamoramento offre spontaneamente. Tale libera assunzione opera una trasformazione dell’affetto, un suo cambiamento di forma, che consiste nel passare dal regime della spontaneità passiva, ripetitiva e infruttuosa a quello dell’iniziativa, innovativa e produttiva… L’innamoramento è uno stato inaugurale ed una condizione aurorale, che, lasciato a se stesso, non può conservarsi se non degenerando in due modi tipici: quello della sua indefinita iterazione, attraverso cui l’innamoramento cerca di perpetuarsi riproducendo continuamente la felice situazione di statu nascenti; oppure quello della sua consumazione, quale compimento immediato dell’innamoramento stesso, quasi a volersi convincere che il punto di partenza è già subito anche il punto d’arrivo e quindi è sufficiente se stesso» [9].
    Infine, in area teologica, l’analisi delle vicende culturali intorno al tema dell’amore e del dono tende a denunciare gli esiti contraddittori della pretesa che esistano allo stato puro. La verità è che la gratuità del dono e l’autenticità dell’amore non si preservano immunizzandole da tutto ciò che è scambio e contraccambio, desiderio di reciprocità e attesa di corrispondenza. Al contrario: fuori dalla concretezza e dalla giustizia dei legami, il dono d’amore alla fine scompare, perché prima diventa un ideale e poi perde realtà. Da questo punto di vista la verifica di Angelini sulle apologie postmoderne dell’amore è interessante fin dalla tesi generale: «la celebrazione dell’amore è la risposta incongrua del pensiero teorico alla crisi del costume» [10].
    L’amore, esaltato in quella purezza ideale che evoca spontaneità e godimento, viene oggi sistematicamente “difeso” dalla presunta impurità del costume, che è invece proprio ciò che dà corpo all’amore. Significativamente ignorate sono le forme della prossimità più ovvie, quelle che costituiscono il normale apprendistato affettivo: l’amore uomo-donna, l’affetto genitori-figli, l’amore di amicizia. Ora, una critica alle filosofie dell’identità (Lévinas) e alle etiche del sacrificio (Girard) andava pur fatta, ma non è possibile negare ogni giustizia in nome della gratuità, né sottovalutare ogni giusta determinazione dei rapporti appellandosi al mistero dell’alterità[11]. Spiace che anche la teologia non di rado si sia fatta complice di questa tendenza deprecabile, che negando i sacrifici dell’amore, abbandona le persone ai sacrifici che l’amore poi richiede[12]. In realtà, dietro l’apologia dell’altro sta sempre il dogma moderno dei diritti dell’io e l’imperativo postmoderno del godimento. Qui D. Albarello nota giustamente che «il gioco perverso consiste nel fatto che una apparente permissione illimitata maschera in realtà una proibizione incondizionata, che suona appunto: “non puoi non godere” [13].
    Il punto è nodale, e riguarda tanto la teologia della carità quanto l’antropologia del dono. Vistosa è la tendenza a identificare il dono d’amore con la pura gratuità, con l’altruismo unilaterale, con l’assenza di contropartita, con l’estraneità alla logica dello scambio, come se l’attesa di corrispondenza e di reciprocità inquinasse irrimediabilmente la logica del dono. Ma, si chiede P.A. Sequeri, «che cos’è un dono d’amore senza speranza di corrispondenza, senza la sofferenza del rifiuto, senza l’attaccamento alla qualità del legame, senza la dignità dello scambio e della reciprocità, senza la disponibilità a mettere in gioco i propri convincimenti a riguardo della verità, della giustizia, della credibilità in cui si decide di noi e dei nostri affetti più cari? È pensabile un dono d’amore la cui purezza tende all’inesistenza dello scambio e all’irrilevanza del legame» [14]?
    Occorre piuttosto riconoscere che il “puro dono”, come il “puro scambio”, sono due astrazioni. Il semplice disinteresse oblativo del dono e l’inevitabile interesse egoistico dello scambio sono forme di massimalismo concettuale irrispettose della realtà. Non esistono solo gli estremi del dono a perdere e dello scambio orientato al profitto[15]. Vi è dono anche nello scambio e vi è scambio anche nel dono. L’amore vero è cioè rintracciabile nello spazio di una bontà giusta e di una giustizia buona, mentre il buonismo e il giustizialismo rappresentano, nel dono come nello scambio, modalità unilaterali e degeneri. In effetti il vero dono d’amore aspira così tanto alla sua libera corrispondenza da esporsi anche all’eventualità contraria. Valgono allora le due cose: «il puro dono mira in verità al più alto profilo dello scambio della corrispondenza… ma benché tenga sopra ogni altra cosa alla reciprocità e all’apprezzamento, si espone deliberatamente all’azzardo del rifiuto e dell’indifferenza: creandone persino le condizioni, per essere sicuro della libertà» [16].
    Concludiamo con un bel passaggio di Michela Marzano, che vede la fatica di amarsi proprio nel fuoco della tensione del legame d’amore fra oblatività ed equità, e di conseguenza nell’incapacità di reggere la vulnerabilità dell’amore, che non è solo quella di sapersi sacrificare per amore dell’altro, ma anche quella di sapersi abbandonare all’amore dell’altro, cioè non solo nel fare doni, ma anche nel saperli accogliere: «perché nella vita tutto è sempre tanto difficile? Perché non c’è mai niente che accada facilmente, così, senza troppi sforzi? Perché anche in amore si deve fare una fatica immensa per essere ascoltati e capiti e accettati? Perché nonostante la fatica prima o poi ci si rende conto che l’altra persona non ci ascolta, oppure se ci ascolta non ci capisce, oppure se ci capisce non ci accetta?... Nell’usa e getta che denuncia Bauman c’è sicuramente l’incapacità di costruire relazioni durature e di sacrificarsi per l’altro, passando da un’avventura alla successiva non appena una persona ci delude. Ma c’è anche e soprattutto la paura di abbandonarsi all’altro. Perché ci può tradire e lasciare soli. Può utilizzare le nostre fragilità e farci soffrire. Può prometterci tante cose e poi non darci niente» [17].

    L’amore naturalizzato e divinizzato

    Dietro la scissione fra la spontaneità degli affetti e la responsabilità dei legami c’è una lunga storia, i cui esordi si collocano nel tardo medioevo, quando l’attrazione cristiana dell’eros in agape cedette il passo prima alla sua secolarizzazione e sacralizzazione nell’“amore cortese”, successivamente nell’“amore romantico” e infine nella “relazione pura”[18]. Qui l’amore celebra se stesso, determinando quella dominanza del sentimento amoroso che estenua inesorabilmente il suo riferimento al Logos e ai legami. Perdendo il suo referente matrimoniale e il suo fondamento teologale, l’amore finisce al di sotto e al di sopra di se stesso: da una parte perde Dio, dall’altra si sostituisce a Dio. Un po’ come la donna nell’amore cortese, che una volta angelicata smette di essere la donna reale, senza per questo diventare Dio[19]. Dice bene Angelini: «l’eros umano per sua natura rimanda a una verità trascendente; quando il rimando è di fatto negato, accade che l’eros è per così dire divinizzato: esso diventa per se stesso la religione, la quale sortisce esiti disumanizzanti» [20].
    La sottrazione dell’eros al logos e la sua consegna al pathos sortisce effetti perfino diabolici. Famosa è la sentenza di De Rougemont ripresa da Lewis, per la quale l’amore, «nel momento in cui comincia a essere un dio comincia a essere un demone». Non si tratta di un’esagerazione, perché effettivamente la vicenda dell’amore in epoca moderna si riassume nella sovversione dell’affermazione biblica “Dio è Amore” nel culto secolaristico per cui “l’amore è dio”. L’indicazione di Lewis è quella di non usurpare l’amore di Dio né avvilendo né adorando l’amore umano, il quale viene da Dio, tende a Dio, ma non è identico a Dio: «la verità che Dio è amore potrà capovolgersi nella formulazione opposta, che l’amore è il nostro Dio. Qualsiasi affetto umano, al suo apice, tende a rivendicare a sé un’autorità divina, e la sua voce viene da noi facilmente scambiata per la volontà stessa di Dio… Tale amore, se innalzato al culto, finisce col diventare un dio e, dunque, un demonio, e sappiamo bene che i demoni non mantengono mai le promesse… Da quanto detto sarà apparsa chiara la necessità di non associarsi né agli adoratori né ai detrattori dell’amore umano. Gli affetti umani possono essere gloriose immagini dell’amore divino; niente di meno, ma anche niente di più» [21].
    Similmente si esprime Sequeri, a sottolineare come separarsi da Dio o sostituirsi a Lui sono imprese sostanzialmente impossibili ma realmente distruttive: «la mortificazione e la colpa si incontrano proprio là dove gli affetti cedono alla tentazione di essere come Dio, di cercarsi come si cerca Dio, di viversi come vive Dio, di farsi seguire come si segue Dio… Gli umani affetti si accendono alla luce della rivelazione di Dio, tanto quanto si spengono all’ombra della prevaricazione che li sostituisce a Dio» [22].
    Tanto è vero che – documenta De Rougemont sulla scorta delle analisi hegeliane sulla “coscienza infelice” – la storia dell’amore in occidente è la storia dell’“amore infelice”, ed è infelice perché è un amore in fondo senza umanità e senza divinità, troppo timido nell’aderire alla verità dei sensi e troppo indocile all’azione dello Spirito. È la storia del conflitto fra lo slancio dell’amore passionale e la fedeltà dell’amore matrimoniale, e dunque la storia di un amore sempre desiderato e sempre sfuggente, e per questo struggente[23]. Il punto è che amare l’amore, ideale supremo dell’amor cortese, è la premessa di ogni angoscia ateistica e narcisistica, perché è amore senza oggetti e senza soggetti:
    Tristano e Isotta non si amano. Ciò che essi amano, è l’amore, è il fatto stesso d’amare... Tristano ama di sentirsi amato, ben più che non ami Isotta. E Isotta non fa nulla per trattenere Tristano presso di sé: le basta un sogno appassionato. Hanno bisogno l’uno dell’altro per bruciare, ma non dell’altro come è in realtà; e non della presenza dell’altro, ma piuttosto della sua assenza… Si amano, ma uno ama l’altro partendo da se stesso non dall’altro… un duplice narcisismo[24].
    La deriva moderna di un amore sempre più autoreferenziale è dunque chiarita: dall’amore cortese, senza Dio, si è passati all’amore romantico, senza ragione, per approdare alla relazione pura postmoderna, senza natura[25]. La riduzione sentimentale dell’amore, un po’ come la riduzione della persona a individuo, si è cioè sviluppata come affrancamento da ogni tipo di vincolo: prima dai vincoli religiosi e civili, poi dai vincoli generativi, ora perfino dai vincoli di genere. Lo slittamento è chiaro: dall’amore-legame, all’amore-sentimento, all’amore-emozione. Denominatore comune: la liquidazione e liquefazione dei legami, quelli sacri e quelli profani, quelli personali e quelli sociali[26].
    Tale slittamento nasce da una contraddizione di fondo: la trasformazione della “passione d’amore” (che richiama il soffrire) in “amore-passione” (che richiama il godere). De Rougemont sintetizzava tale contraddizione nel confronto fra alleanza matrimoniale e apologia dell’amore libero, chiarendo che quando la passione pretende di fondare il matrimonio, in realtà lo distrugge: «bisogna ammettere che la passione distrugge l’idea stessa di matrimonio, in un’epoca in cui si punta a fondare il matrimonio proprio sui valori elaborati da un’etica della passione» [27].
    Anche V. Melchiorre, nel suo saggio sulla dialettica dell’eros, spiega che la contraddizione dell’amore romantico – i cui tratti, già presenti nella coppia classica di eros e thanatos, si ritrovano in Hegel, in Kierkegaard, ed ancora in Sartre passando per Freud – trae origine dal rifiuto della concretezza dell’amore e accarezza l’idea di amore come unità indifferenziata, «la malattia più antica dell’occidente», «che assolutizza l’unità rispetto alla molteplicità e alla differenza»[28]. L’esito è immancabilmente tragico, in quanto comporta il naufragio dell’identità nell’unità, o, in termini filosofici, la negazione del finito nel suo anelito all’infinito; e prende due forme, entrambe esiziali: o la fissazione dell’amore mediante il suicidio (Tristano e Isotta), o la sua perpetuazione nella ripetizione del gesto seduttivo (don Giovanni)[29]. Ad ogni modo, la tendenza ad equivocare l’amore con l’unità indifferenziata accompagna tutta la storia delle sue interpretazioni: il mito dell’androgino e le teorie del bisessualismo, l’ideale della fusione di cuori o dell’accordo perfetto, la ferita d’amore come malattia del desiderio o come anelito alla sua estinzione non sono che alcuni esempi[30].
    Con più disincanto, molti autori documentano come l’amore autoreferenziale, dopo il passaggio dall’amore romantico, ancora intriso di sentimento, all’amore erotico, in cui permane la dimensione del desiderio, giunge oggi all’amore narcisistico, che dà luogo alle pratiche attuali dell’amore senza sesso e del sesso senza amore, dove il desiderio è assente (perché destabilizza e fa soffrire) e dove prevale la ricerca del piacere immediato e dell’immediata conferma di sé. Eterogenesi dei fini: dall’amore fin troppo “spirituale”, “universale” e insofferente del limite dell’epoca romantica si è passati all’amore puramente “carnale”, schiavo del “particolare” e chiuso nel limite nel tempo del disincanto. Al punto che Bauman non teme di parlare della cosiddetta “rivoluzione sessuale” come di «un rivoluzione senza emancipazione»[31]. Egli osserva che in realtà un’emancipazione c’è stata, ma è stato il doppio svincolamento dell’eros dal sesso (la sua soglia inferiore) e dall’amore (la sua soglia superiore). Si tratta di un progetto fallimentare, perché gli affetti, senza i legami della carne e dello spirito, non sopravvivono[32]. Anche perché, contrariamente a quanto oggi comunemente si pensa, «il desiderio sessuale era e resta il più ovviamente, palesemente, incontestabilmente sociale. Esso si protende verso un altro essere umano; esige la presenza di un altro essere umano e si sforza di riforgiare tale presenza in un’unione. Anela all’aggregazione… perciò il sesso separato dall’amore diventa illusione d’amore» [33].
    Bauman riconosce che tale progetto è però coerente da una parte con la strategia culturale dell’epoca moderna, che prevede il «troncamento di ogni legame tra erotismo e sesso a favore di un legame tra erotismo e amore», e dall’altra con la strategia culturale postmoderna, nella quale l’erotismo reclama «una totale indipendenza», non più solo dai vincoli generativi, ma anche dai legami d’amore[34]. L’esito è espresso in maniera drammatica ma realistica: «l’erotismo emancipato dai suoi vincoli riproduttivi e amorosi si presta a un tempo di liquidità; è come se fosse fatto a misura delle identità multiple, flessibili, evanescenti dell’umanità postmoderna. Il sesso, liberato dalle conseguenze riproduttive dagli ostinati persistenti legami amorosi, può essere tranquillamente racchiuso nella cornice di un episodio» [35].
    Ad amplificare il doppio fenomeno del sesso senza amore e dell’amore senza sesso – come evidenzia lo studio di Beck – ci si mette anche la mutazione dello scenario sociale indotto dall’invadenza di internet e dalla possibilità/illusione dell’“amore a distanza”: «l’amore è stato ed è tuttora amore immaginato. Come ben sappiamo, si svolge essenzialmente nella testa. La particolarità dell’amore su Internet è che si svolge solamente nella testa… Nuovo non è solamente l’incremento all’infinito delle possibilità di incontrarsi. Con l’amore a distanza muta, al contempo, lo spazio del desiderio amoroso, il significato che esso ha per i soggetti desideranti, ciò che l’amore può e non può fare, il suo aspetto sensoriale, il rapporto tra amore, sesso e intimità, tra amore e vita quotidiana, tra amore e lavoro» [36].
    Ad interpretare il fenomeno della trasformazione del sentimento romantico, tipicamente disincarnato, in pratica erotica, materialmente carnale ma anch’essa in fondo disincarnata (perché ci sono i corpi ma non contano i sessi, c’è l’altro ma domina l’io) si è impegnato anche U. Galimberti, il quale osserva pertinentemente che «l’amore, assolutizzato e slegato, come mai prima d’ora, da ogni referente sociale, giuridico, religioso, si annuncia oggi come assoluta promessa di felicità o come guerra senza frontiere, combattuta con le armi acuminate dell’intimità perché così è quando a promuovere l’amore sono le esigenze di autorealizzazione fondate sulla cieca intensità del sentimento» [37].
    Che l’emancipazione dell’erotismo da ogni vincolo non coincida con l’affrancamento dell’amore, ma con la consegna a forme di maggiore schiavitù, era prevedibile. Melchiorre, citando Marcuse, osserva che lo sganciamento dell’eros dai vincoli riproduttivi e dalle responsabilità affettive è stata una liberazione soltanto apparente: «la liberazione non è stata data alla forza totalizzante e trascendente di eros, ma alla “sessualità localizzata”, alle “zone erogene immediate”… Vale ancora l’avvertimento dello stesso Freud: la libertà sessuale, anche la più illimitata, non costituisce una vera alternativa alla repressione dell’eros ed anzi coincide con una ulteriore degradazione del suo valore psichico» [38].
    Il concetto viene ribadito anche da M. Recalcati, che rifacendosi alla lezione di Lacan, spiega bene perché il passaggio dal sentimento al desiderio e dal desiderio al piacere realizzi oggi un godimento che non è né erotico né sessuale, che non parla cioè né degli affetti né dei legami tra l’uomo e la donna. Il passaggio che riportiamo è molto bello e incisivo: «la sessualità era nutrita da un’attesa immaginaria che erotizzava l’incontro reale dei corpi. Attualmente, invece, la distanza tra i sessi appare ridotta. Non solo perché anche per le ragazze, come avviene per i ragazzi, separare la tenerezza e l’amore dal sesso e dal godimento pulsionale è una pratica diffusa, ma anche perché l’incontro con l’insistenza del rapporto sessuale anziché alimentare le fantasie di unificazione e di legame totalizzante dell’innamoramento tende piuttosto a produrre un vero e proprio esorcismo cinico nei confronti dell’amore, che viene ritratto come un inganno, un’illusione nella quale disfarsi, come una maschera da fare cadere il prima possibile. Il sesso viene da loro utilizzato come una droga, come un godimento legato a un oggetto parziale prelevato dal corpo dell’altro, come un puro anestetico per ridurre il dolore di esistere. Il corpo assume lo statuto di una merce fra le altre. Ragazzi che hanno rapporti sessuali come se fosse un esercizio muscolare, ragazze che vendono il loro corpo per una ricarica del cellulare» [39].
    L’effetto meno previsto e più indesiderato dell’assolutizzazione dell’amore intesa come recisione dell’amore dai suoi legami naturali e soprannaturali è oggi il cortocircuito di privatizzazione e giuridicizzazione dei legami[40]. Lo si capisce: all’isolamento degli affetti nella sfera intima corrisponde ben presto l’invadenza della sfera pubblica, perché il disordine dei legami indotto dall’arbitrio degli affetti presto o tardi provoca e invoca l’intervento e la regolamentazione pubblica. Cioè: la pura assenza di costrizioni rende alla fine necessaria la coercizione. È l’esito violento dell’ideale moderno dell’autonomia scaturito dall’illuminismo e dalla rivoluzione francese, come illustra molto bene P.C. Rivoltella: «la libertà intesa come assenza totale di costrizioni, e quindi come un essere sciolti da qualsiasi legame, nella misura in cui erige la volontà individuale a unico tribunale di giudizio dell’agire, si traduce in arbitrio, con il risultato di pretendere che la volontà altrui si pieghi a tale giudizio e di reintrodurre in questo modo i legami da cui teorizzava l’emancipazione. L’uguaglianza intesa come espulsione programmatica delle differenze – anche in tal senso si può parlare di un ideale affrancamento dei legami – si traduce in violenza culturale. Infine la fraternità, intesa come sacrificio delle volontà individuali in favore della volontà generale pone il problema della determinazione di tale volontà generale. Di chi è volontà la volontà generale? Di tutti, si potrebbe rispondere, ma anche di nessuno. E quindi di ciascuno. O meglio di chi si senta in grado di farsene interprete, con il risultato di rovesciarla nel suo contrario. Il Terrore rappresenta questo esito estremo e allo stesso tempo il volto vero della Rivoluzione: il trionfo dell’autonomia corrisponde all’imposizione dell’eteronomia» [41].
    Il risultato attuale si esprime nella radicalizzazione della tensione individuo-comunità, dovuta al fatto che nella società post-moderna operano simultaneamente due spinte difficilmente componibili: da una parte la morte e la persistenza del soggetto e del suo desiderio di realizzazione, dall’altra la perdita del legame sociale e il desiderio del suo ritrovamento. Già Tocqueville lo aveva comunque intuito: la promozione dell’individuo e dei suoi affetti, isolandolo, si ritorce contro l’individuo e i suoi legami, perché da un lato gli affetti si sbarazzano dalle istituzioni, ma proprio così, perdendo autorità, richiedono di nuovo il loro intervento. Lo spiega bene S. Semplici: «da una parte la deistituzionalizzazione della famiglia nucleare ha rotto la secolare interconnessione tra accoppiamento sessuale e matrimonio, matrimonio e vita in comune, vita in comune e generazione e educazione dei figli, con il risultato che dall’instabilità nascono nuove e insidiose forme di fragilità, conflitto, abbandono. Dall’altra proprio questa deistituzionalizzazione ha paradossalmente prodotto un risultato opposto a quello ipotizzato da Rawls, e cioè la sua crescente giuridicizzazione, inevitabile quando si spinge la famiglia nel privato e allo stesso tempo la si carica di responsabilità pubbliche» [42].
    Affetti e legami si infliggono dunque profonde torsioni e ritorsioni: gli individui respingono e invocano l’intervento della società, questa a sua volta scarica sugli individui compiti di cui dovrà poi farsi carico. M. Magatti spiega bene come il tentativo di promuovere le relazioni affettive facendo arretrare la loro dimensione istituzionale non sortisca effetti positivi: «la domanda di soggettività, di autenticità, di espressività si produce nell’era contemporanea in presenza di un rilevante indebolimento dei quadri istituzionali, che fanno più fatica a continuare a svolgere la loro tradizionale funzione normativa e regolativa… Il problema è che l’attenuarsi della capacità normativa e regolativa delle istituzioni sociali scarica sulle spalle del singolo tutto il peso della responsabilità…Ma se sottraiamo ad una relazione così delicata come quella di coppia un qualche sostegno esterno (istituzionale o religioso) e la affidiamo esclusivamente alla libera espressione individuale, non possiamo poi sorprenderci se ne consegue l’indebolimento della relazione» [43].
    Riassume tutto in maniera lucidissima il giudizio di J.L. Nancy: «se l’amore non si dà più come risorsa politica, la politica non può offrire uno spazio proprio per l’amore… l’intera nostra tradizione parla il linguaggio visibilmente doppio: da una parte si afferma che la vita comune deve avere per principio l’amore, d’altra parte si afferma anche che l’amore appartiene alla sfera privata e non può intervenire né come ingrediente né come modello nella sfera pubblica» [44].

    I legami d’amore da Edipo a Narciso

    Il triste epilogo della scissione affetti-legami e della loro riduzione emotiva e funzionale al progetto di emancipazione dell’io da ogni forma di dipendenza e di debito è oggi il narcisismo: gli affetti che non si aprono ai legami dai quali sorgono e ai quali sono destinati si chiudono su se stessi. Perché è innegabile che il narcisismo è un amore in contraddizione con se stesso. È vero che la forma primordiale dell’amore parentale è psicologicamente funzionale alla costruzione del sé, ma lo è esattamente in forza delle cure di altri. L’amore resta fondamentalmente dedizione, dono di sé per amore dell’altro. Tutti i grandi pensatori lo sanno: «l’amore è gravitazione intorno all’amato», «è godimento del trascendente», «è una volontà di promozione», è gioire che l’altro esista e desiderio che non muoia e «dare all’altro non solo qualcosa, ma di comunicare nel dono se stessi»[45]. Quanto al dibattito culturale, chiare e franche le parole di Galimberti in merito: «quando l’intimità è cercata per sé e non per l’altro, l’individuo non esce dalla sua solitudine e tanto meno dalla sua impermeabilità, perché già nell’intenzione di reperire se stesso nell’amore egli ha bloccato ogni moto di trascendenza, di eccedenza, di ulteriorità… Una sorta di rottura di sé perché l’altro lo attraversi. Questo è l’amore… L’amore è l’essere trascinato del soggetto oltre la sua identità, è il suo concedersi a questo trascinamento, perché solo l’altro può liberarci dal peso di una soggettività che non sa che fare di se stessa… L’amore, quello vero, non protegge, espone» [46].
    Certo che se l’affetto viene preteso ed erogato senza l’equità e la responsabilità dei legami, allora il narcisismo, con la sua spinta al godimento e il suo rifiuto del sacrificio, tende a generalizzarsi, fino al punto da diventare il nome dell’amore e la radiazione di fondo di un’intera società. Come osserva Sequeri, «oggi nessuna identità è più certa, ma è certo che ci siamo abituati ad evitare la sofferenza: per ideologia, prima ancora che per convenienza. Lo stadio sfrenatamente consumistico di civiltà in cui viviamo è una riproduzione planetaria dei bisogni primari. Ma quel ricevere ripetutamente il seno, senza dover ricambiare, è indispensabile nella prima crescita: perché la creatura uomo, lo sappiamo, è l’unica che nasce non autonoma. Questo nostro voler subito ogni comodità e allontanare ogni dolore, da adolescenti e da adulti ci mantiene invece lattanti psichici: non iniziati a quell’alternarsi di dare e ricevere che è la condizione per diventare esseri morali» [47].
    Effettivamente – denuncia Lacroix – il narcisismo è sempre più rubricato come modo dell’amore piuttosto che come sua fase evolutiva o regressiva, e non è più oggetto di denuncia culturale, ma di semplice constatazione dei fatti quando non di implicita approvazione: «se il narcisismo ha avuto per lungo tempo connotazioni peggiorative (in quanto associato al ripiegamento su di sé), è sempre più consueto considerare che fa parte della costruzione di sé (bisogna innanzitutto amare se stessi prima di amare gli altri)… Così la nostra cultura favorisce e sviluppa il narcisismo. Secondo Lasch, il narcisismo è diventato “una struttura costitutiva della personalità postmoderna”» [48].
    Il narcisismo è il frutto amaro della ricerca di una “relazione pura”, che a sua volta nasce dalla paura dei legami e dei soggetti che li contraggono, quasi che sia impossibile non incarnare la figura di un io dominante e dispotico o di un tu invadente e ricattatorio[49]. L’importante è allora legarsi ma non troppo, poter entrare e uscire dai legami con la stessa facilità. La tesi di Bauman è nota: i legami sono insieme oggetto di desiderio ma anche di timore, e per questo ogni vincolo deve prevedere un’opzione liberatoria. Da qui l’epoca dell’“amore liquido” in una “società liquida”, nella quale si cerca più la scintilla dell’intesa che l’impegno necessario ad alimentarla: «una delle caratteristiche della relazione pura è che può essere troncata, più o meno a proprio piacimento e in qualsiasi momento, da ciascuno dei due partner. Perché una relazione abbia una chance di durare, è necessario l’impegno; ma chiunque si impegni senza riserve rischia di soffrire molto in futuro, qualora la relazione dovesse dissolversi… Investire sentimenti profondi nel rapporto e fare un giuramento di fedeltà significa correre un rischio enorme: ti rende dipendente dal tuo partner» [50].
    Che l’amore prenda la piega della ricerca, della conferma e della difesa di sé è certo un esito abnorme, e tuttavia è culturalmente comprensibile. Valorizzando la lezione della psicoanalisi, lo si può spiegare come una delle ricadute della transizione dal moderno al suo prolungamento/capovolgimento iper- e postmoderno. Recalcati osserva, infatti, che il cambiamento dell’assetto di civiltà modifica anche il cosiddetto “disagio di civiltà”: «oggi non è più la rottura del legame a far soffrire, è l’esistenza del legame che viene rifiutata come fonte di disagio» [51].
    Il punto nodale è il rapporto fra desiderio e legge che attraversa gli affetti e i legami. Ora, come l’amore romantico ha promosso tanto la “famiglia affettiva” quanto la “relazione pura” che è il suo contrario (amore libero, convivenze, superamento del paradigma eterosessuale, ecc…) [52], così le forme del disagio affettivo si sintetizzano nell’ormai noto passaggio “da Edipo a Narciso”, ossia dall’ossessione dei divieti all’ossessione del godimento[53]. Qui c’è da riflettere sul fatto che se nella famiglia normativa, con tutte le sue prescrizioni e proibizioni, l’impulso trasgressivo portava però all’affrancamento dai legami e all’affermazione di sé, nella famiglia affettiva, con tutta la sua offerta di permissioni e protezioni, la caduta delle barriere generazionali, morali e religiose rende labili i confini del sé e spinge a ricercarne ansiosamente conferma. In parole povere: mentre nel tempo della legge era relativamente più facile diventare liberi, nell’assenza di legge il rischio è di non diventarlo mai. Qualche autore esprime la trasformazione del disagio in termini freudiani, nel senso che il passaggio dall’eccesso normativo all’eccesso di godimento orienta oggi gli affetti non più dal principio del piacere al principio di realtà, ma dal principio di realtà a quello del piacere, deprivandoli della loro naturale gravitazione ai legami [54].
    Dove il postmoderno e l’ipermoderno si saldano a vicenda in modo contraddittorio sta però nella circostanza per cui la richiesta e l’offerta affettiva, invece di orientarsi al rinforzo dei legami, è destinata alla ricerca e alla conferma di sé. Le relazioni d’amore sono allora nello stesso tempo il luogo dove conta l’individuo, ma anche dove si radicalizza l’individualismo, un vero e proprio cortocircuito fra la realizzazione di sé e la relazione con l’altro. Su questo punto, Galimberti è molto severo: «per effetto di questa strana combinazione, nella nostra epoca l’amore diventa indispensabile per la propria realizzazione come mai lo era stato prima, e al tempo stesso impossibile perché, nella relazione d’amore, ciò che si cerca non è l’altro, ma, attraverso l’altro, la realizzazione di sé… L’amore, più che una relazione all’altro, appare come un culto esasperato della soggettività» [55].
    L’amore narcisistico è in effetti – a detta di Pietropolli Charmet – l’ossimoro che fotografa tanti giovani d’oggi, non solo nel tempo del debutto amoroso, ma anche nel tempo successivo dell’amore di coppia: «la scelta amorosa sembra obbedire ai criteri del processo di soggettivazione… prevale la cura dell’interesse del sé e del suo sviluppo piuttosto che la sottomissione ai desideri e bisogni dell’altro… l’amore di coppia e la sessualità sono asserviti al progetto di realizzazione personale e di crescita nelle competenze sociali in vista del raggiungimento di livelli elevati di visibilità e autostima» [56].
    L’ottica narcisistica si allarga come a macchia d’olio anche alle relazioni parentali: è come se la sacralizzazione dell’innamoramento, in cui l’affetto non sa e non vuole esprimersi in progetti, fosse passata dagli sguardi degli amanti allo sguardo sui figli: «la nuova famiglia tende a rappresentare se stessa come luogo privilegiato di accudimento e protezione ed elegge a suo scopo principale l’obiettivo di fornire amore e sicurezza ai figli, soddisfacendone ogni bisogno affettivo, economico e sociale. Figli ipervalorizzati, con l’obiettivo di essere felici e con il mandato segreto di inorgoglire i propri genitori… Una generazione di piccoli Messia con il compito di testimoniare le loro qualità nel mondo, un ruolo di privilegio che li ha resi indiscutibilmente più fragili. Ciò che li affligge è l’eccesso di risorse e aspettative che si riversa su di loro. Essi diventano, infatti, il prolungamento del sogno idealizzato degli adulti, la loro estensione narcisistica. Non è il Super-io, la severità della coscienza morale, a perseguitare i ragazzi d’oggi, quanto piuttosto l’ideale dell’Io, che incarna un’immagine di sé idealizzata, spesso multipla e irraggiungibile» [57].
    Fra le molte possibili ricadute educative, la più immediata ci sembra essere quella di prendere coscienza che un amore in cui gli affetti non generano legami non esiste o cessa di esistere, e che la bontà degli affetti non si afferma tenendola al riparo, ma esponendola alla giustizia dei legami. L’amore è sempre passione e azione, godimento e impegno, gioia e lavoro. Perciò non si educa all’amore assicurando continue gratificazioni e protezioni, offrendo godimento e immunizzando dal dolore. Si educa piuttosto indicando ai giovani, con la vita e la parola, dove sta di casa la vera gioia e cosa comporta vivere una passione d’amore. Occorre interiorizzare che nell’amore vero la gioia è un frutto, non un oggetto, e i sacrifici sono la sua semina, non la sua estinzione. E che comunque la gioia non è il contrario dei sacrifici ma della tristezza, e i sacrifici non sono il contrario della gioia ma dell’egoismo[58]. Tutto ciò, beninteso, al di là di ogni edonismo o dolorismo: la felicità non è equivocabile con la facilità, né i sacrifici con l’infelicità. Su questo la Scrittura dice due cose: che «l’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono» (Sal 48,13), e che nel cammino dell’amore «nell’andare se ne va e piange portando la semente da gettare, ma nel tornare viene con giubilo, portando i suoi covoni» (Sal 125,6). Concludiamo questa seconda parte con un’altissima espressione di Lewis: «sono convinto che il più sregolato e smodato degli affetti contrasta meno la volontà di Dio di una mancanza d’amore volontariamente ricercata per autoproteggerci… Non è cercando di evitare le sofferenze inevitabili dell’amore che ci avvicineremo di più a Dio, ma accettandole e offrendole a lui: gettando lontano la cappa di protezione» [59].
    Già comprendere e far comprendere questi paradossi dell’amore sarebbe grande cosa. Ma l’uscita dalla palude narcisista richiede l’impegno di togliere l’amore dall’isolamento in cui è precipitato. È il compito assegnato alle due parti successive del dossier, che tenteranno di restituire le radici terresti e celesti dell’amore, nella consapevolezza che senza l’altro familiare e l’Altro divino l’io e i suoi affetti si ripiegano, illanguidiscono e implodono, invece che dispiegarsi, irrobustirsi e irradiarsi.


    NOTE

    [1] Cf. E. Scabini, Affetti, legami, generatività, in Aa.Vv., Affetti e legami, 123-131.
    [2] L’amore a distanza. Il caos globale degli affetti, Laterza, Bari 2011, 73. L’aspetto caotico si estremizza quando l’amore diventa merce: ad esempio, madri che a motivo del lavoro delegano la cura dei figli ad altre madri, che emigrando si allontanano dai propri figli per poterli mantenere (ibi, 13).
    [3] I miraggi dell’amore, Vita e Pensiero, Milano 2010, 17.62.
    [4] L’amore e l’occidente, 368.
    [5] I quattro amori. Affetto, Amicizia, Eros, Carità, Jaca Book, Milano 1980, 56.
    [6] Il mistero dell’innamoramento, Rizzoli, Milano 2003, 61.66.165. Dello stesso parere è anche Bauman, il quale asserisce che il trovarsi bene dell’innamoramento tende a trasformarsi nel volersi bene dell’amore: “l’affinità è un ponte che porta al paradiso sicuro della consanguineità» (Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, Bari 2006, 40).
    [7] Affetti e legami, 17.18.
    [8] Lavoro dell’amore che è anche amore del lavoro: «l’essenza dell’amore è lavorare per qualche cosa, fare crescere qualche cosa, perché amore e lavoro sono inseparabili. Si ama ciò per cui si lavora, e si lavora per ciò che si ama… È un’illusione credere che si possa scindere la vita in modo tale da essere produttivi nella sfera dell’amore e improduttivi in tutte le altre sfere. Se non si è produttivi nella altre sfere, non si può esserlo neppure in quella dell’amore» (E. Fromm, L’arte di amare, Mondadori, Milano 1996, 38.133).
    [9] Etica degli affetti, 51.53.
    [10] Apologie postmoderne dell’amore: l’esempio di Girard e Lévinas, «Teologia» 27 (2002) 94-138, 94.
    [11] Cf. la puntuale analisi di M. Gallotti, Il valore del legame educativo, in Aa.Vv., I legami. Vincoli che soffocano o risorse che sostengono?, Unicopli, Milano 2011, 107-160.
    [12] Cf. Apologie postmoderne, 95-96.
    [13] D. Albarello, Ritorni del padre nel pensiero post-moderno, in Aa.Vv., “Onora il padre e la madre”, L’autorità: la rimozione moderna e la verità cristiana, Glossa, Milano 2012, 45-73, 61.
    [14] Dono verticale e dono orizzontale, 114.
    [15] Cf. ibi, 135-137.
    [16] Ibi, 148.149.
    [17] L’amore è tutto, 119.116.
    [18] Cf. P.A. Sequeri, L’assoluto affettivo. Primato dell’amore di Dio e religione dei sentimenti, in Aa.Vv., Dilexit Ecclesiam, LAS, 1999, 299-317, 299-301.
    [19] Cf. A. Guiducci, Introduzione a D. De Rougemont, L’amore e l’occidente, 11-51.
    [20] Eros e Agape. Oltre l’alternativa, Glossa, Milano 2006, 20.
    [21] I quattro amori, 15.18. V. anche X. Lacroix, I miraggi dell’amore, 11.
    [22] L’assoluto affettivo, 314-316.
    [23] Cf. L’amore e l’occidente, 58-60.
    [24] Ibi, 86.97. Conferme anche nell’interpretazione di F. Alberoni, Il mistero dell’innamoramento, 86-100.
    [25] Cf., per la sociologia, A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 1995; per la filosofia F. Hadjadj, Mistica della carne. La profondità dei sessi, Medusa, Napoli 2009; e, di taglio teologico, J.J. Perez Soba, L’epopea moderna dell’amore romantico, in Aa.Vv., Maschio e femmina li creò, Glossa, Milano 2008, 233-261.
    [26] Segnaliamo su questo punto le lucide pagine di Z. Bauman, Amore liquido e di P.C. Rivoltella, Topica e drammatica del legame, in Aa.Vv., I legami, 27-62.
    [27] L’amore e l’occidente, 343.
    [28] Metacritica dell’eros, Vita e Pensiero, Milano 1977, 105.7.
    [29] Cf. P.C. Rivoltella, Topica e drammatica del legame, 56. V. anche, più in generale, la pregevole opera di U. Curi, Miti d’amore. Filosofia dell’eros, Bompiani, Milano 2009 e la presentazione più divulgativa di X. Lacroix, I miraggi dell’amore, 35-44.
    [30] Buona illustrazione delle forme fusionali dell’amore in X. Lacroix, I miraggi dell’amore, 22-29.
    [31] Gli usi postmoderni del sesso, Il Mulino, Bologna 2013, 9.
    [32] Cf. ibi, 12.22-26.
    [33] Amore liquido, 53.62.
    [34] Ibi, 28.32.
    [35] Ibi, 60.
    [36] L’amore a distanza, 54.55.
    [37] Le cose dell’amore, Feltrinelli, Milano 2007, 134.
    [38] Dialettica dell’eros, 117.
    [39] Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano 2013, 81.
    [40] Cf. F. Botturi - C. Vigna, Introduzione, in Affetti e legami, XIII e G. Ambrosio, La famiglia affettiva, in Aa.Vv., Genitori e figli nella famiglia affettiva, Glossa, Milano 2002, 57-77.
    [41] Topica e drammatica del legame, 39.
    [42] La famiglia: un legame privato di interesse pubblico, in Affetti e legami, 65-84, 81.
    [43] Eccesso e crisi delle relazioni: una lettura sociologica, in Affetti e legami, 110-122, 112.115.
    [44] Sull’amore, Boringhieri, Torino 2009, 23.24.
    [45] J. Ortega y Gasset, Sull’amore, Sugarco, Milano 1994, 15, E. Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1998, 262, M. Nédoncelle, Verso una filosofia dell’amore e della persona, Paoline, Roma 1959, 13, W. Kasper, Misericordia, Queriniana, Brescia 2013, 141.
    [46] Le cose dell’amore, 15.22.
    [47] L’iniziazione interminabile, in Genitori e figli, 79-96, 86.
    [48] I miraggi dell’amore, 30.
    [49] «In fondo l’amore narcisistico si fonda sul bisogno di indipendenza dall’oggetto d’amore per proteggere la realizzazione del sé da gravi traumi inflitti da persone diventate troppo importanti per non essere anche molto pericolose» (G. Pietropolli Charmet, Narciso innamorato, 94).
    [50] Amore liquido, 124.
    [51] Il complesso di Telemaco, 65.
    [52] Cf. A. Giddens, La trasformazione dell’intimità, 8, e Narciso innamorato, 14.
    [53] Cf. La trasformazione dell’intimità, 35 e M. Recalcati, Cosa resta del padre. La paternità nell’epoca ipermoderna, Cortina, Milano 2011, 104.
    [54] Cf. P. Gomarasca, La ragione negli affetti, 44.
    [55] Le cose dell’amore, 11.14.
    [56] Narciso innamorato, 108.117.
    [57] Ibi, 36.45.
    [58] «L’amore è un potere attivo dell’uomo: un potere che annulla le pareti che lo separano dai suoi simili, che gli fa superare il senso d’isolamento e di separazione, e tuttavia gli permette di essere se stesso e di conservare la propria integrità. Sembra un paradosso, ma nell’amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due» (ibi, 32).
    [59] I quattro amori, 110.


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