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    L’amore fra essere e conoscere (Dossier "La verità, vi prego, sull'amore" /1)



    Roberto Carelli 

    (NPG 2014-08-11)


    L’amore passepartout

    Non è facile parlare d’amore senza tradirlo o contraddirlo. La sua disperante polisemia non aiuta. Succede a tutte le realtà più semplici e profonde: sembrano intuitive – ed effettivamente ne abbiamo una certa intuizione – ma proprio per questo celano la loro complessità e le nostre complicazioni. Accade soprattutto per l’amore: la stessa evocazione del termine promette una facile intesa, che raramente tuttavia si realizza. Lo esprime bene Michela Marzano nel suo recente saggio sull’amore: «il problema dell’amore è sempre lo stesso. Quando lo si idealizza, lo si tradisce. Quando si è dentro, ci si impantana» [1].
    Si tratta, come ha insegnato R. Guardini, di una legge generale dello spirito: più le realtà sono elevate, più rischiano di essere dimenticate, e più sono destinate a riuscire, più sono storicamente vulnerabili. Ciò vale massimamente per i gesti e le opere dell’amore:
    «con quanta maggior purezza le cose provengono dall’amore, tanto più forte è il loro spirito e tanto più potente il loro senso; al tempo stesso, però, tanto più delicata è la loro costituzione, e tanto più è incerta nel mondo» [2].
    A dispetto della sua apparente univocità e universalità, la parola “amore” è facilmente esposta a un uso retorico e ideologico: funge da pretesto e dipende dai contesti, serve a dire tutto e a parlare d’altro, può favorire il dialogo o chiudere in partenza ogni discussione, appella al concreto ma svapora nell’ideale. Ironiche e pertinenti le parole di M. Hadjadj:
    «il fatto è che l’amore spesso funge da jolly. Negli ambienti cattolici viene utilizzato come un argomento che non ammette repliche, un vero permesso di non pensare. Avete “problemi di coppia”? Dovete imparare ad amarvi. Si tratta di autorizzare il “matrimonio omossessuale”? Evidentemente, perché si amano… Una parola tappabuchi. Una scusa universale» [3].
    Occorre riconoscere che la semplicità dell’amore è complessa, e lo è perché sua caratteristica costitutiva è il paradosso, la capacità di tenere insieme cose che sembrano incompatibili: l’amore unisce e differenzia, è spirituale e carnale, attivo e passivo, volontario e involontario; esso ferisce e guarisce, fa gioire e soffrire, è volere e dovere, gratuità e giustizia [4]. Come X. Lacroix ha osservato, l’ampiezza semantica del termine “amore” è sorgente di tanti equivoci:
    «come può essere che una stessa parola designi realtà così diverse, addirittura opposte? Un termine identico per la dedizione e per la lussuria, per il godimento e per lo slancio verso Dio, per il desiderio e per l’attaccamento, per l’affetto materno e per il piacere carnale, per la passione divorante e per l’amore coniugale, per la cioccolata e per un quadro di Vermeer… E non è uno dei minori paradossi dell’amore quello di avere un doppio ancoraggio, corporeo e mentale; un piede nel reale, un altro nell’immaginario» [5].
    Va da sé che non è questione nominale, ma esistenziale: «nessuna cultura ha mai valorizzato tanto l’amore quanto la nostra, eppure mai il numero dei singles è stato così grande. Mai si è basato tanto sull’amore, ma mai il legame coniugale è stato così precario... Troppe aspettative nei confronti dell’amore uccidono l’amore o, quanto meno, ne accentuano la fragilità» [6].
    L’univocità dell’amore si spezza in equivoco anche nei discorsi più elevati. M. Schoepflin, illustrando le interpretazioni filosofiche dell’amore lungo i secoli, ha evidenziato tre tensioni generali. La prima questione con cui si sono cimentati i più grandi pensatori è se l’amore sia possibile o impossibile: di fatto, rispunta continuamente il sospetto che l’amore non sia altro che egoismo mascherato. La questione successiva è se l’amore, in quanto comporta l’esperienza del patire, sia un valore umano o primariamente divino: si sa come l’idea di un Dio Amore non abbia alcuna ovvietà filosofica e religiosa. La terza questione, laddove si riconosca l’amore di Dio e si percepisca l’abisso fra la sua perfezione e la nostra imperfezione, è se vi sia compatibilità o incompatibilità fra eros e agape, se cioè l’amore sia fenomeno di natura o emergenza dello spirito: anche qui sappiamo come sia oggi dominante la tendenza, specie in campo scientifico, a naturalizzare il fenomeno amoroso[7].
    Ad ostacolare un’idea integra dell’amore sono in particolare gli approcci scientifici, che di loro natura sono “riduttivi” e dunque inadatti a rendere conto del paradosso di unificazione e differenziazione che caratterizza l’amore come tale. J.L. Marion, nel suo saggio sul “fenomeno erotico”, mette seriamente in guardia dal pregiudicare l’amore con approcci parziali o settoriali, invece che sforzarsi di coglierne l’integrità e l’irriducibilità. Occorre fare ogni sforzo, prima di ogni successiva distinzione, per «mantenere intatta il più a lungo possibile l’unica tunica dell’amore»: «primariamente si indebolisce e si compromette ogni concetto di amore non appena ci si sente autorizzati a distinguerne delle accezioni divergenti, se non inconciliabili; ad esempio, opponendo subito, come un’ovvietà indiscutibile, l’amore e la carità, il desiderio, che si presume possessivo, e la benevolenza, che si presume gratuita, l’amore razionale e la passione irrazionale. Un concetto serio dell’amore si distingue in primo luogo per la propria unità» [8].
    Nel suo celebre saggio sull’amore umano, J. Guitton aggiunge che non solo lo sguardo specialistico nuoce all’integrità dell’oggetto, ma danneggia anche la sensibilità dei soggetti, la loro stessa capacità di conoscere e riconoscere l’amore: «la decomposizione dell’essenza dell’amore, come la praticano i moderni, trasforma subito la maniera di amare, di modo che, di scomposizione mentale in dissociazione reale, si rischia di annullare non solo l’amore, ma la facoltà stessa di conoscere l’amore. Quando l’analisi di società si rivolge all’essenza umana, rischia di provocare una natura falsa ma non irreale, i cui elementi separati, benché incapaci di riunirsi, si distruggono a vicenda» [9].

    L’amore e la vita

    Parlare d’amore senza fargli torto è difficile, soprattutto perché non si può presumere di comprendere senza praticarlo: uno sguardo imparziale, che in altri casi è garanzia di sapere rigoroso, nel caso dell’amore deve cedere il passo a una viva partecipazione personale. L’amore traffica oggetti ma non è un oggetto, ha a che fare con le cose ma le trasfigura in doni, prende corpo in azioni ma ha il suo cuore nelle relazioni. L’amore è meno oggetto di conoscenza che di esperienza, e se si offre all’intelligenza lo fa attraverso il canale della testimonianza. Esso, senza essere irrazionale, sfugge alla presa razionale, poiché è insieme presenza e mistero, è sempre concreto e universale, eccede tutte le sue forme ma non si dà senza forma: la sua universalità coincide con la sua attualità, e la sua razionalità coincide con la sua gratuità. L’ordine dell’amore è insomma originale, gli si addice – ricorda Guitton [10] – il carattere di “eccesso”, ed è impossibile ridurlo ai dati di fatto o alle conclusioni logiche. Per una epistemologia dell’amore vale quanto prospetta A. Cozzi:
    «l’amore deve essere agito, più che pensato. In esso emerge il carattere sovra-logico e sovra-essenziale dell’essere, che squalifica i tentativi di logicizzazione (idealismo) ed essenzializzazione (concettualismo)» [11].
    Similmente Marion: «non appena lo si demoltiplica in accezioni sottili e differenziate fino all’equivoco, non lo si analizza meglio: lo si dissolve e lo si manca completamente» [12].
    Meglio ancora Balthasar, nel suo noto testo sulla credibilità dell’amore: «l’amore che mi è donato posso intenderlo sempre e solo come un miracolo… L’amore non può essere misurato su nient’altro che su se stesso… Nella sua realtà intrinseca, l’amore viene conosciuto soltanto dall’amore… Il punto da cui l’amore può essere osservato e testimoniato non può essere collocato al di fuori dell’amore; esso può trovarsi solo in re, cioè nel dramma della vita stessa» [13].
    Di più – spiega Hadjadj – pensare l’amore senza viverlo non solo è illusorio, è anche demoniaco. Citando Beda il Venerabile egli ricorda che
    «i demoni possono credere che Dio è, credere che ciò che egli dice è vero. Ma soltanto coloro che amano Dio riescono a credere in Dio (cit. PL XCIII, 22)»,
    e spiega che «la suprema falsità non è nella conoscenza, bensì nelle azioni. Essa consiste nel difendere la verità senza amore, diciamo pure la verità senza la verità, illusione tra le più temibili di tutte, perché l’errore vi si trova senza errore… La peggiore delle menzogne non è non dire la verità, ma ripeterla incessantemente per non viverla» [14].
    Infatti l’azione del maligno si fa più insidiosa non tanto quando nega la verità, ma quando ci induce a non amarla e a non viverla, quando ci spinge a oggettivarla e strumentalizzarla, quando la rende «un appiglio piuttosto che un abbraccio, un oggetto di conoscenza piuttosto che un soggetto di riconoscimento» [15].
    Per lo stesso motivo, il maligno non agisce da misantropo ma da filantropo, sottrae la verità all’amore e l’amore alla verità, non solo induce al vizio ma manipola la virtù:
    «i vizi dilagano e danneggiano. Ma anche le virtù, lasciate in balia di se stesse, si diffondono più selvaggiamente e fanno anche terribili danni. “Così alcuni scienziati coltivano la verità, ed è una verità senza pietà; così alcuni umanitari coltivano la pietà e la loro pietà, mi dispiace dirlo, è spesso nemica della verità” (Chesterton)… La giustizia senza misericordia vira nella crudeltà, a fronte di una misericordia senza giustizia che vira al lassismo; l’umiltà senza magnanimità vira alla pigra eliminazione, a fronte della magnanimità senza umiltà che vira all’attivismo vanitoso. Infine, la verità senza amore, che è la fede dei demoni, a fronte dell’amore senza la verità, che è la filantropia del diavolo»[16].
    Soprattutto, in concreto, il tentatore cercherà sempre di separare l’amore di Dio dall’amore del prossimo, non importa se in forma religiosa o irreligiosa: «il principe di questo mondo è il portabandiera nei due campi: coloro che pretendono di amare Dio senza però amare il proprio fratello, e coloro che pretendono di amare il loro fratello senza amare Dio. Da un lato la teocrazia disumana; dall’altro l’umanesimo ateo» [17].

    Il sapere dell’amore

    Il punto capitale è che l’amore, prima di essere oggetto della conoscenza, ne è la sorgente. Esso è l’originaria via di accesso alla realtà e ciò che la rende visibile, a tal punto che una teoria della conoscenza cristianamente ispirata non ha difficoltà ad affermare la fondamentale priorità dell’amore sulla conoscenza. Fra i massimi pensatori che hanno mostrato come l’amore risvegli e acutizzi tutto ciò che è umano, vi è senz’altro M. Scheler, il quale, studiando i rapporti dell’amore con la conoscenza, afferma che «l’amore è sempre ciò che risveglia la conoscenza della volontà, e addirittura è la madre dello spirito e della ragione… L’uomo, ancor prima di essere un ens cogitans o un ens volens, è un ens amans… Anche i beni reali e le cose pratiche sono penetrati ed esaminati dal peculiare meccanismo selettivo dell’ordo amoris… Allo stesso modo anche la destinazione individuale di un soggetto spirituale singolare o collettivo è qualcosa di non meno oggettivo, benché sia al contempo ciò che per il suo particolare contenuto di valore mira a questo soggetto e solo a questo soggetto» [18].
    L’ordine dell’amore non è dunque esterno o estraneo all’ordine della ragione. Si potrebbe dire, con V. Jankélévitch, che «l’amore ha sempre ragione»[19], nel duplice senso che è dotato di ragione e che è il contenuto radicale della ragione: come infatti la ragione ricerca il principio di unità del reale, così l’amore è ciò che la realizza in concreto. In altri termini, c’è stretta parentela fra ragione e relazione, come fra “comprendere” e “abbracciare”, poiché l’intenzionalità è la medesima, ossia la ricerca dell’unità (lògos-lègein). Molto lucido è P. Barcellona nel parlare di “conoscenza affettiva”: «pensare è sempre un evento relazionale; il pensiero nasce nello spazio dell’incontro della presenza dell’altro, a partire dalla domanda: chi è la persona che mi trovo di fronte?... Ma noi abbiamo perduto il senso della vita perché abbiamo confuso, forse intenzionalmente il pensiero con la ragione e la comprensione con la conoscenza. La ragione ha distrutto il pensiero e la cognizione ha soppresso l’intesa affettiva» [20].
    La conseguenza più affascinante, a nostro avviso, sarebbe quella di ripensare l’esercizio stesso del pensiero in senso comunionale: se l’amore ha in sé il proprio principio critico, allora occorre pensare insieme, non da soli! Anche perché, in ottica cristiana, non c’è niente che non debba essere trinitario. Qui va detto che il pensiero contemporaneo, pur con vicende alterne e non senza contraddizioni, risulta globalmente impegnato a superare ogni estrinsecismo fra conoscenza e amore. Esso tuttavia si ripresenta in nuove edizioni, oggi nella scissione fra razionalità e affettività che è fattore determinante della cosiddetta “emergenza educativa”. Nel suo ampio studio sui rapporti fra logos e pathos, P. Gomarasca, la cui tesi è la genesi affettiva dell’intenzionalità, si esprime così: «scientismo ed emozionalismo finiscono per delineare un circolo vizioso: l’impresa scientifica moderna nasce come operazione di ritaglio, presa di distanza dal dominio ambiguo dell’emotivo; dal canto suo, l’emotivo, cioè il non razionale, diviene oggetto di culto… La scissione fra razionalità calcolante e consumo emotivo è diventata oggigiorno una delle verità sull’esperienza quotidiana degli individui» [21].
    In realtà conoscenza e amore, senz’altro distinti, non si possono separare, perché, come ha richiamato Benedetto XVI con bella formula, si appartengono: «non c’è l’intelligenza e poi l’amore: ci sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena di amore»[22]. L’inclusione della conoscenza nell’assoluto affettivo è peraltro intimissima. Citando ancora Balthasar, bisogna dire che non è la conoscenza che spiega l’amore, ma è l’amore che dispiega la conoscenza: «la conoscenza è spiegabile unicamente mediante l’amore e per l’amore… L’aspetto distintivo è solo questo, che l’amore è l’eterno più di quanto già si sa… L’amore è lo stesso movimento della verità… la verità è la misura dell’essere, ma l’amore è la misura della verità» [23].
    In ogni caso, l’amore determina la conoscenza soprattutto quando si tratta di conoscenza personale, quando riguarda gli individui, i loro affetti e i loro valori. Già Scheler aveva messo in luce la superiorità del sapere affettivo in quanto sapere eticamente orientato: spiegava che i modi dell’ordo amoris – come il percepire, il preferire e posporre, l’amare e l’odiare – non danno necessariamente luogo a un sapere relativistico, ma aprono sull’universale[24]. Lo sfondo affettivo della conoscenza personale è stato di recente approfondito dalle ricerche fenomenologiche di R. De Monticelli: «i sentimenti costituiscono lo strato del sentire propriamente diretto sulla realtà personale… L’amore è la via d’accesso privilegiata alla retta e soprattutto piena percezione dello stile di trascendenza che ci è proprio, quello delle individualità essenziali» [25].
    Se questo è vero, allora occorre «articolare la tesi filosofica che rivendica al sentire un posto non soltanto centrale, ma costitutivo della nostra vita di persone. E non come residuo animale ma come parte essenziale del nostro pensiero dovunque sia questione di valori, e quindi di scelte e decisioni, conflitti e confronti esterni ed interiori, gusti e convinzioni profonde, abiti di vita e scoperte esistenziali, consuetudini e innovazioni, incontri e crescite» [26].
    Non è dunque vero, come si suol dire, che “l’amore è cieco”: quando c’è, è oculato[27]. Esso ha le proprie vedute, al cui servizio devono porsi la vista del corpo e le visioni della mente, che ne restano a loro volta potenziate: «l’amore – diceva S. Weil – vede ciò che è invisibile»[28]. Il rischio che gli occhi, la mente e il cuore procedano parallelamente è sempre in agguato, ma tutti intuiscono che vede e comprende bene solo chi ama di vero amore. Come intuiva Scheler rifacendosi a Goethe, il sapere e l’amare crescono insieme in proporzione all’elevatezza dell’oggetto che li suscita: «non si acquista conoscenza se non di ciò che si ama, e quanto più profonda e completa la conoscenza ha da essere, tanto più intenso, forte e vivo deve essere l’amore, anzi la passione» [29].
    Al contrario, fuori dal campo dell’amore, la comprensione delle cose perde acutezza e diventa riduttiva, e la stessa percezione sensibile resta non di rado alterata e distorta. Su questo si trovano d’accordo tanto la ragione quanto la rivelazione; ne conviene la ragione, perché tutti ritengono più autorevole chi conosce non per sentito dire ma per esperienza personale: la miglior conoscenza avviene per connaturalità; e ne conviene la rivelazione, perché chi non ama non conosce Dio che è Amore (1Gv 4,8): Dio non offre infatti il suo amore in forma ideale o esemplare, ma come pane di vita (Gv 6,51-56).
    Comprensibile l’invito di Benedetto XVI a “dilatare gli spazi della ragione”, perché un modello razionalista non solo tradisce la realtà, ma corrompe anche la ragione stessa[30], sortendo effetti ideologici e dispotici nei confronti degli affetti, che alla fine vengono giudicati alternativi alla ragione o squalificati come irrazionali. Nel suo tentativo di ritrovare nel fenomeno erotico un orizzonte della ragione più radicale rispetto a quello che estremizza l’importanza dell’oggetto (metafisica classica) o il potere del soggetto (metafisica moderna), Marion dichiara: «l’amore non manca di ragione, né di logica: semplicemente non ne ammette altre se non le proprie e diviene leggibile solo a partire da queste. L’amore non si dice e non si fa che in un unico senso: il suo… Un concetto di amore deve poter restituire razionalità a tutto ciò che il pensiero non erotico qualifica spregiativamente come irrazionale e degrada a follia: il desiderio e il giuramento, l’abbandono e la promessa, il godimento e la sua sospensione, la gelosia e la menzogna, l’infanzia e la morte» [31].
    In ottica credente, la profonda compenetrazione di conoscenza e amore si sostiene a maggior ragione: poiché nel mistero dell’Incarnazione il Logos è il Filius, il pensiero cristiano ha buoni motivi per promuovere la sensibilizzazione della ragione e rivendicare la ragionevolezza degli affetti. Tanto è vero che in teologia si moltiplicano i tentativi di comprendere l’intero disegno di Dio in chiave di amore, quale punto di vista superiore per rileggere i rapporti fra Dio e uomo, creazione e rivelazione, Incarnazione e Redenzione, filosofia e teologia: si parla di “metafisica della carità”, di “teologia agapica”, di “ontologia trinitaria”, ma sono i diversi nomi di progetti sostanzialmente convergenti[32].
    Addirittura il progetto teologico di Balthasar trova la sua sponda filosofica nell’idea che “tutto l’essere è amore”, che essere e amore sono “coestensivi”, che l’amore non può essere subordinato a nessun apriori ontologico o antropologico, che anzi è l’amore a costituire il punto di convergenza insuperabile fra il fondamento trinitario della teologia e l’apriori dialogico della filosofia: «l’amore è l’apriori più ampio che ci sia, perché non presuppone altri che se stesso. Esso determina la verità, è superiore alla libertà… e conferisce anche all’essere il suo valore» [33].
    In tale progetto l’amore non è l’apice personale e affettivo di una realtà impersonale e anaffettiva, ma è “il trascendentale dei trascendentali”, il motivo per cui tutto l’essere e ogni essere si offre come uno, vero, buono e bello. Ciò significa che tutte le tensioni del reale che la filosofia ha di volta in volta messo in evidenza – quindi essere e divenire, uno e molteplice, sostanza e relazione, soggetto e oggetto, individuo e persona, identità e alterità, ecc. – non preesistono a monte dell’amore, ma sono determinate esattamente dal fatto che tutto l’essere partecipa della realtà di un Dio che è Amore. Ciò che è più promettente sul piano teorico, ma con evidenti ricadute pratiche, è che se il mistero dell’essere è inteso come amore, allora unità e distinzione sono cooriginari, allora il dare e il ricevere hanno identica dignità, e così le tensioni della vita e le polarità del pensiero, che nel corso della storia hanno preso una piega dialettica, possono ritrovare una dinamica dialogica: così, ad esempio, il classico privilegio accordato alla stabilità sostanziale e alla luce diurna, al primato dell’uomo maschio, dell’amore oblativo e del discorso affermativo verrebbero controbilanciati dal riscatto del momento relazionale e notturno dell’essere, delle forme del femminile, della passione d’amore e del discorso apofatico. E infatti – nota Balthasar – nell’amore vero non c’è alternativa fra ricchezza e povertà, fra umiltà e grandezza, fra libertà e appartenenza, fra possedersi e spossessarsi, perché ogni polarità esiste in grazia dell’altra:
    «nell’amore s’illumina il carattere dell’essere in sé, che non consiste in altro se non in un non vivere per sé» [34].
    Il che è quanto la logica evangelica esprime nelle parole e nei gesti del Signore: l’amore è unità del perdersi e del ritrovarsi (Mc 8,35), sintesi drammatica del morire e del dare la vita (Gv 15,13), unità pasquale di croce e di gloria (Gv 8,28).
    In sintesi, con Pascal e oltre, si potrebbe dire: al cuore della ragione ci stanno le ragioni del cuore, poiché la ragione ultima delle cose non è la ragione stessa, ma appunto l’amore. Peccato che nonostante i più seri tentativi di rivendicare la reciproca inclusione del sapere e dell’amare, perdura da più parti l’inclinazione a dirottare l’ulteriorità della sfera affettiva nell’alogico e nell’irrazionale, perpetuando una visione alternativa dei rapporti fra razionalità e affettività, quasi che l’una fosse il regno del controllo e l’altra necessariamente del fuori controllo, o al contrario, come se la prima rendesse l’uomo inautentico e poco libero, mentre solo l’altra fosse all’altezza dell’umana dignità.
    Ora – osserva Gomarasca – «l’idea che il pathos sia una malattia del logos è antica», ma l’idea contemporanea di «sovvertire il dominio del logos per riportare la testa della verità sulle spalle dei sensi non è affatto risolutiva»[35]. Per riconciliare la storia degli affetti con la narrazione scientifica occorre superare il duplice pregiudizio che la ragione funzioni meglio senza passioni e che queste siano necessariamente senza logica o riconducibili a una logica evolutiva. Il punto è che quest’ultima ipotesi è quella dominante: anche gli affetti, come il pensiero, invece di testimoniare l’eccedenza spirituale dell’umano, vengono ricondotti al dato naturale di un essere superiore agli altri solo perché dotato della capacità di auto-organizzazione[36]. Si tratta senza dubbio di un impoverimento dell’umano, operato dall’azione congiunta di filosofie allineate alle scienze umane, a loro volta assoggettate alle scienze naturali: «purtroppo – lamenta la De Monticelli – man mano che cresce la nostra sapienza chimica, decresce la sapienza del cuore, e sempre più disimpariamo a identificare, a partire da come stiamo, ciò di cui abbiamo bisogno, o che ci manca per vivere» [37].
    Inutile dire quale mortificazione dell’umano e quali paralisi dell’educazione questo comporti. L’uomo di oggi andrebbe piuttosto rassicurato intorno allo sfondo affettivo del pensiero e alla qualità razionale degli affetti. Secondo Botturi andrebbe promosso «un intero antropologico costituito dall’intima sinergia di cognitivo e affettivo e quindi unità indivisibile d’intelligenza appetitiva e di appetizione intelligente, di ragione affettiva e di affezione ragionevole; più in generale, di un pensiero affettuoso e di un’affezione pensante» [38].
    Ciò sarebbe decisivo per correggere sia la tendenza ultramoderna al controllo razionale generalizzato, sia la spinta postmoderna al primato quasi sacro delle emozioni. Perché certo, la conoscenza senza amore si irrigidisce, ma l’amore senza la conoscenza si illanguidisce: come osserva R. Bodei, «conoscenza d’amore più che amore di conoscenza, volontà d’amore più che amore di volontà… ma quando non è rischiarato dall’intelligenza, innervato dalla volontà, riscoperto come memoria, l’amore rischia di diventare futile e impotente» [39].
    Similmente C. Vigna: «l’esperienza comune testimonia che, se il logos si assottiglia, l’emotività dilaga. Ma testimonia anche la situazione opposta: l’intellettualizzazione insistita impoverisce oltremodo il mondo emotivo» [40].
    A conclusione di questo primo ambito di riflessione, molti sarebbero gli spunti educativi che se ne potrebbero ricavare, ma uno ci sembra intercettare direttamente l’interesse e l’urgenza attuale, e riguarda l’educazione affettivo/sessuale dei giovani. Alla luce delle tre indicazioni che abbiamo raccolto – la necessità di offrire un’idea integrale di amore, l’inseparabilità dell’amore dalla sua pratica effettiva, l’opportunità di promuovere le ragioni dell’amore – il suggerimento convergente ci sembra quello di parlare proprio d’amore e non di altro. Questo suggerimento è valido in genere, ma quando si ha a che fare con il “mistero” dell’amore uomo-donna o dell’amore di Dio, in questo caso è d’obbligo. Altrimenti, come suggeriva Marcel, il mistero diventa un problema.
    Cerchiamo di spiegarci indicando due possibili ricadute pratiche. La prima è quella di evitare di parlare di “sessualità” e “affettività” prima di parlare d’amore: non si possono preferire le astrazioni alla realtà, né anteporre le parti alla totalità. L’amore è il tema, la sessualità e l’affettività sono le sue specificazioni. Il punto è che in genere, nei corsi scolastici di educazione sessuale, come nei corsi parrocchiali in preparazione al matrimonio, il percorso consueto permane “naturalistico”: parte dal biologico e, se va bene, arriva allo spirituale. La verità è però che l’amore non si aggiunge: ci precede e ci costituisce. Sferzante la denuncia di D. De Rougemont, a cui si deve uno dei saggi più fortunati sulla “storia” dell’amore in occidente: «siamo tutti più o meno materialisti, noi eredi del secolo decimonono. Non appena ci venga additato, nella natura o nell’istinto, il rudimentale embrione dei fatti spirituali, subito presumiamo di possedere una spiegazione di tali fatti. Il più basso è sempre più vero. È la superstizione del tempo, la mania di ricondurre il sublime all’infimo… Ma io non riesco a vedere il vantaggio di un affrancamento che consiste nello spiegare Dostoevskij con l’epilessia, e Nietzsche con la sifilide. Curioso modo di liberare lo spirito, negandolo» [41].
    La seconda ricaduta suggerisce di evitare ogni parola sull’amore troppo orizzontale o troppo verticale, troppo materiale o troppo spirituale, affinché l’idea di amore appaia sempre ad un tempo concreta e integrale, mai astratta e parziale: c’è in gioco l’affrancamento dagli “oggetti parziali”, la promozione della “purezza”, il riscatto della virtù di “castità”, il bene prezioso della “verginità”: tutti oggetti mediamente smarriti o seriamente minacciati, che soli, però, concorrono all’educazione dell’integrità e dell’intimità dell’amore. Ogni discorso sull’amore umano dovrà perciò tenersi altrettanto lontano da linguaggi spudorati e spiegazioni specialistiche, da parole crude e presentazioni asettiche, da divieti moralistici e allusioni licenziose, insomma, da tutto ciò che corrompe il carattere di grazia e di miracolo, di sorpresa e incanto, di delicatezza e tenerezza, di gioia e sacrificio che sono propri dell’esperienza amorosa. Pertinenti e incisive sono ancora una volta le parole di Hadjadj, che mostrano come al centro dell’educazione sentimentale vi debba essere l’introduzione al desiderio dell’altro (che implica l’esperienza della “mancanza”) e l’iniziazione al dono di sé (che implica l’esperienza dello “spossessamento”): «la nozione di educazione sessuale è problematica, perché la sessualità implica l’esperienza del desiderio e del suo eccesso. Il desiderio sessuale non si educa come si educa alla matematica: non è una semplice forma di istruzione. Si tratta di un desiderio che ci fa sentire non più padroni di noi stessi. Questa esperienza di spossessamento chiede di essere vissuta pienamente, e qui si innesta l’esigenza dell’educazione nel senso di un “accompagnamento” del desiderio… Di fronte a un tema del genere, come può la posizione dell’“esperto” non essere quella di uno che impone una riduzione tecnica?
 Bisogna accettare che nell’ambito della sessualità non esistono gli esperti. Altrimenti si finisce nel tecnicismo e nell’ingiunzione sociale. Gli “esperti” che entrano nelle scuole rendono impossibile agli adolescenti la sessualità come scoperta. Quello che predomina è un massiccio discorso entro il quale i gesti del desiderio sono ridotti a delle pratiche. E perciò a delle tecniche. E questo è veramente terribile, perché all’essere in un incontro si sostituisce l’induzione di comportamenti» [42].


    NOTE

    [1] L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore, Utet, Torino 2013, 28.
    [2] Antropologia cristiana, Morcelliana, Brescia 2013, 73.
    [3] Mistica della carne. La profondità dei sessi, Medusa, Napoli 2009, 78.
    [4] Cf. A. Fabris, I paradossi dell’amore fra grecità, ebraismo e cristianesimo, Morcelliana, Brescia 2001.
    [5] I miraggi dell’amore, Vita e Pensiero, Milano 2010, 67.17.
    [6] Ibi, 4.
    [7] Cf. L’amore secondo i filosofi, Città Nuova, Roma 1999, 5-6.
    [8] Il fenomeno erotico, Cantagalli, Siena 2007, 9.
    [9] Saggio sull’amore umano, Morcelliana, Brescia 1954, 236. Nelle citazioni, i corsivi sono nostri.
    [10] «Lo stato di eccesso deve essere considerato con attenzione in ogni campo, ma più particolarmente in quello che riguarda l’amore. Qui l’eccesso non è una cosa accidentale: è lo stadio desiderabile e normale, quello almeno che l’amore vorrebbe conoscere e che si sforza di raggiungere» (ibi, 36). Similmente si è espresso papa Benedetto: «il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l’eccedenza… La verità, che al pari della carità è dono, è più grande di noi, come insegna sant’Agostino. Anche la verità di noi stessi, della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto “data”. In ogni processo conoscitivo, in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta. Essa, come l’amore, non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si impone all’essere umano (Caritas in veritate, 34).
    [11] Il mistero del Figlio. Generazione di Dio, destinazione dell’uomo, in Aa.Vv., Di generazione in generazione. La trasmissione dell’umano nell’orizzonte della fede, Glossa, Milano 2012, 161-221, 184.
    [12] Il fenomeno erotico, 112.
    [13] Solo l’amore è credibile, 54.125.77.84.
    [14] La fede dei demoni, 150.
    [15] Ibi, 142.
    [16] Ibi, 144.
    [17] Ibi, 211.
    [18] Ordo amoris, Morcelliana, Brescia 2008, 70.71.53.58.
    [19] Trattato sulle virtù, Garzanti, Milano 1996, 131.
    [20] Il sapere affettivo, Diabasis, Reggio Emilia 2011, 91.98.
    [21] La ragione negli affetti. Radice comune di logos e pathos, Vita e Pensiero, Milano 2007, 53.
    [22] Caritas in veritate, 30.
    [23] Teo-logica 1. Verità del mondo, Jaca Book, Milano 1987, 114.125.175.
    [24] Cf. Ordo amoris, 21-22.
    [25] L’ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzanti, Milano 2008, 111.186.
    [26] Ibi, II-III.
    [27] «Il dono di agape non è per ciò stesso cieco, come gli sciocchi dicono che l’amore sia, e parlano allo stesso modo, infatti, della fede. L’ordine degli affetti non è un dominio separato e parallelo rispetto a quelli della ragione e dell'autodeterminazione… L'ordine degli affetti non è una conoscenza alternativa (le famose ragioni del cuore, in nome delle quali tanti delitti sono commessi). Non è neppure un'alternativa alla conoscenza (come l'ambigua deriva anche razionalistica, erotica e mistica vorrebbe farci ammettere)» (P.A. Sequeri, Dono verticale e orizzontale: fra teologia, filosofia e antropologia, in Aa.Vv., Il dono tra etica e scienze sociali, Lavoro, Roma, 1999, 107-155, 151).
    [28] Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1996, 112.
    [29] Amore e conoscenza, Morcelliana, Brescia 2009, 31.
    [30] M. Heidegger diceva che «il pensiero inizierà solo quando avremo esperito che la ragione, glorificata da secoli, è la più accanita avversaria del pensiero» (Sentieri erranti, Bompiani, Milano 2002, 315).
    [31] Il fenomeno erotico, 112.10.
    [32] Per lo scavo teologico-fondamentale sul tema, v. la ricostruzione del pensiero di Sequeri di D. Ricotta, Il Logos, in verità, è amore, Ancora, Milano 2007.
    [33] Teologica 1, 130.220.
    [34] Solo l’amore è credibile, 141.
    [35] La ragione negli affetti, 139.13.
    [36] Cf. le pagine vibranti di P. Barcellona, Il sapere affettivo, 9.14-27.
    [37] L’ordine del cuore, 100.
    [38] Etica degli affetti?, in Aa.Vv., Affetti e legami, Vita e Pensiero, Milano 2004, 37-64, 48.
    [39] Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Il Mulino, Bologna 2005, 107.129.
    [40] Affetti e legami, in Aa.Vv., Affetti e legami, Vita e Pensiero, Milano 2004, 3-22, 8.
    [41] L’amore e l’Occidente. Eros, morte, abbandono nella letteratura europea, Rizzoli, Milano 1977, 101.
    [42] Intervista pubblicata su https://www.documentazione.info/sesso-intervista-a-fabrice-hadjadj, 1° ottobre 2009.


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