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    «Dopo Riccardo»: panoramica della pastorale giovanile


    José Luis Moral

    (NPG 2014-07-62)


    La storia di qualsiasi attività umana sempre contempla il riferimento a certe personalità che «obbligano» a confrontarsi con loro. Nella pastorale giovanile un confronto con Riccardo Tonelli sembra altrettanto «doveroso». [1]

    Chi scrive ha avuto la fortuna di vivere e lavorare accanto a Riccardo nell’ultimo decennio della sua vita. Un anno fa ci lasciava e adesso mi sento nel dovere di ricordare una parte della sua preziosa eredità, cercando di delimitare alcuni tratti essenziali che permettano una visione panoramica dell’identità e prospettive della pastorale giovanile. [2]

    Una premessa da non trascurare

    Siamo nell’ambito della teologia pastorale o pratica. Di conseguenza, la pastorale giovanile non entra a considerare - inizialmente - (ma le dà per scontate) le conclusioni fondate dal resto della teologia, specialmente la «fondamentale» e la «sistematica». Se infatti la teologia in genere si preoccupa della correlazione fra l’esperienza cristiana – quella originaria, in primis, e la sua manifestazione odierna – e l’esperienza di fede contemporanea, lo specifico della pastorale consiste nel fare della prassi il punto di partenza: nel nostro caso, la vita delle comunità cristiane e il loro rapporto con i giovani è il «luogo teologico» per eccellenza ove ascoltare e comprendere sia la parola di Dio che la risposta ecclesiale ad essa più appropriata.
    Non entro nel merito di questo tema ormai acquisito. [3] Nel caso della pastorale giovanile, poi, questo è ancora più vero: non si tratta in effetti di indicare dottrine da trasmettere; anzi, si potrebbe dire quasi il contrario: è dal contatto diretto con i giovani, con il bagaglio delle loro speranze e frustrazioni, dei loro aneliti e contraddizioni… che la comunità deve ripensare la stessa Scrittura e Tradizione, insieme al modo corrispondente di annunciare loro la salvezza, il «vangelo» e le buone notizie che vengono da Dio.
    Tuttavia, il vissuto ecclesiale relativo alla pastorale giovanile, come quello sociale, è segnato dal pluralismo: sono molti e diversi i modelli, gli orientamenti e gli interventi proposti per rispondere ad un’unica preoccupazione, l’impegno cioè di annunciare ai giovani il Vangelo; [4] d’altro canto, la questione determinante al riguardo risiede nel prendere sul serio la prassi.
    Il termine prassi corre il rischio di essere equivocato e ridotto (o equiparato) a situazione, confondendo dunque l'insieme e organicità di fatti con i quali si esprimono i soggetti, con un insieme di dati che trovano la ragion d’essere al di fuori di loro stessi. In questo modo, nell’epistemologia e nel metodo pastorale, fatti e prassi perdono la loro rilevanza determinante finendo con l'essere considerati semplicemente alla luce di postulati interpretativi derivanti dalle strutture di pensiero che ne stanno a monte.
    Ma intesa in questo modo la prassi non permette di interpretare il vissuto della comunità cristiana, e non sarà neppure realmente presente nella riflessione pastorale come "riferimento costituente" ma soltanto come una prassi a priori carente di senso in se stessa.
    Non intendo affatto affermare che la prassi sia la panacea della pastorale o che in essa non esistano contraddizioni. Tuttavia ritengo che dobbiamo sempre anzitutto considerare l’esperienza per se stessa, per andare dopo a rivedere le formulazioni e le interpretazioni della fede.
    Solo rispettando questo punto di partenza è possibile confermare davvero la meta della pastorale giovanile, cioè, l’incontro con Gesù Cristo e l’adesione alla comunità ecclesiale. È la prassi a permetterci di riconoscere i fatti – il modo di sentire, desiderare, riflettere e agire sia della comunità cristiana che dei giovani – per (ri)pensare e proporre l’annuncio del Vangelo: gli atti della prassi rimandano, prima di qualsiasi altra considerazione, ad azioni la cui radice risiede nel modo umano di essere nel mondo. Inoltre, attività ed azioni sono lì davanti a noi come espressione spontanea della libertà storica dell’essere umano.

    QUESTIONE EPISTEMOLOGICA

    Bastano le righe precedenti per capire che l’epistemologia è il primo argomento in discussione... ma la questione tocca anche la problematica della trasformazione radicale del paradigma culturale, al cui riguardo cito solo due autorevoli riferimenti.
    - I vescovi francesi: “È in atto un cambiamento del mondo e della società. Un mondo scompare e ne sta emergendo un altro, senza che, per la sua costruzione, vi sia un modello prestabilito […]. Particolarmente in Europa, la Chiesa si trova abbastanza profondamente legata agli antichi equilibri e con l’immagine del mondo che si dilegua. Essa vi era non solo ben inserita, ma aveva contribuito alla sua formazione, mentre l’immagine del mondo che si tratta di costruire ci sfugge”. [5]
    - J. Habermas: la trasformazione o cambio di paradigma è legato ad una variazione definitiva nella relazione tra storia e normatività o, meglio alla rottura con i suggerimenti normativi antichi; viviamo un’epoca dove il problema storico centrale è delineato dal distacco da epoche esemplari del passato e dalla necessità di attingere da noi stessi tutto ciò che è (che vogliamo che sia) normativo. [6]
    Sulla «questione epistemologica» accenno solo a due aspetti concreti.

    Teologia dogmatica e teologia pastorale

    La controversia circa le relazioni fra la teologia dogmatica o sistematica e quella pastorale o pratica viene da lontano. Con un eccesso di semplificazione, è possibile riepilogare la storia in tre forme diverse di rapporto: divergenza o disparità; equivalenza o convergenza; mutua implicazione.
    La divergenza voleva mettere in chiaro che la sovranità di Dio si situa al di sopra di tutto, perciò il mistero di cui si occupa la dogmatica è radicalmente diverso dall’esperienza pastorale; in una tale disparità, solo la teologia dogmatica può fare da guida, mentre la pastorale deve lasciarsi condurre seguendo (applicando) le direttrici dogmatiche. Al di là dell’esagerazione, questo è stato il tipo di vincolo predominante fino al Vaticano II.
    Indubbiamente, dopo il Concilio, ci fu il rischio di cadere nell’estremo opposto, ovvero, nella semplice equivalenza. La sproporzione, allora, consisteva nell’uguagliare il contenuto della fede a prassi o, in altri termini, considerare che è la convergenza della dogmatica con l’esperienza pastorale quella che delimita l’identità cristiana in ogni congiuntura storica.
    Esiste una terza alternativa: la mutua implicazione. Il concilio Vaticano II, come in tanti altri casi, segnò la via nuova. Invero, il suo «carattere pastorale» voleva trasformare l’abituale «modo di pensare-fare», configurare cioè una sensibilità dogmatica inedita per costruire una nuova teologia. [7]
    Tutto sta a indicare la strada di una nuova teologia che esprima la correlazione tra il «pratico–pastorale» e il «dogmatico–sacramentale» in termini di mutua implicazione: le forme e figure pastorali devono rendere visibili l’ordine e le strutture sacramentali invisibili; ed è così che queste ultime danno fondamento alle prime, in un modo tale che il carattere pastorale senza il sacramentale si svuota, allo stesso modo che il carattere sacramentale senza il pastorale si perverte. Per cui, se il destino sacramentale della Chiesa risiede nella salvezza, esso non potrà realizzarsi autenticamente se non attraverso una prassi in grado di avvicinare tale salvezza (ossia, renderla comprensibile nelle formulazioni e visibile nelle strutture e nell’azione) agli uomini e donne – ai giovani! – nel qui ed ora di ogni momento storico. La mutua implicazione, è bene ripeterlo, segnala l’«unità sacramentale» come chiave di volta che regge i rapporti fra la teologia pastorale e la teologia dogmatica. [8]
    Mi sembra fuor di dubbio, in quest’ottica, che oggi la «matrice disciplinare» o il paradigma scientifico di base della teologia deve essere l’ermeneutica: una «teologia ermeneutica» quindi, che si sposta dall’intendersi come «sapere costituito» al riconoscersi piuttosto come interpretazione. Anche se lungo la storia non sono mancati oscillazioni e sbandamenti, per sua essenza «il cristianesimo è una hermeneia»: [9] “A partire dalla lunga tradizione testuale del cristianesimo, [adesso] il teologo cercherà di ritrovare l’esperienza fondamentale di una salvezza offerta da Dio in Gesù di Nazaret, e il suo compito sarà quello di restituire questa esperienza fondamentale testimoniata dai testi del cristianesimo primitivo dissociandoli dalle rappresentazioni e dalle interpretazioni che appartengono ad un mondo di esperienza ormai passata […]. Non si dà dunque trasmissione della fede senza reinterpretazione dell’evento Gesù Cristo”. [10]

    Pastorale giovanile e interdisciplinarità

    Lo ripeto: la teologia pratica non si occupa della ricerca nel deposito della fede e della tradizione per poi intervenire nella realtà quotidiana; procede piuttosto all’inverso, cioè, a partire da una situazione di fatto, a partire dalla vita, considera come proporre oggi quella fede e tradizione che vengono da lontano. La pastorale giovanile poi – come, per altro, la stessa educazione – si gioca nel confronto fra un quadro teorico di riferimento – mediato e immediato, quest’ultimo offerto dalla teologia pastorale – e una realtà vitale specifica.
    Da questo punto di vista, la teologia pastorale si fa di continuo, anziché insegnarla o impararla una volta fatta: ogni comunità cristiana deve sempre chiedersi come vive ed incarna la fede o la relazione con Dio nella storia attuale, quali fattori di essa la aiutano oppure la intralciano, condizionando così la sua missione.
    È necessario poi aggiungere un’ulteriore precisazione: articoliamo la parola «pastorale» con due inflessioni diverse. Infatti, parliamo di «teologia pastorale» e di «pastorale giovanile»: nella prima espressione il sostantivo o il soggetto è la teologia; nella seconda, invece, è la pastorale ad essere sostantivo o soggetto centrale della riflessione. La differenza è sostanziale: nel caso della teologia pastorale, indichiamo che la chiave della sua identità ricade nelle esigenze della teologia; trattandosi della pastorale giovanile, invece, il perno di tutto si sposta sulla prassi concreta, con lo scopo di “riconoscere e risolvere problemi, utilizzando tutte le risorse di cui la comunità ecclesiale dispone. Sul piano della pastorale, l’urgenza dei problemi e la preoccupazione della loro soluzione possono far passare in un secondo piano, almeno cronologico, quelle dimensione che invece sono qualificanti per la teologia, anche per quella pastorale. […] Non pochi equivoci nascono dal confondere una ricerca pastorale con una ricerca di teologia pastorale”. [11]
    A ragione, dunque, la pastorale giovanile non può essere semplicisticamente identificata come «educazione alla fede» (tanto meno quale generica catechesi giovanile), perché tante volte – secondo il tipo di problemi – sarà piuttosto «educazione alla carità» oppure «educazione alla speranza». Ad ogni modo (in Occidente), la problematica di base ci insegna che, di fronte a quelli che tutto assoggettano a Dio (il dato è niente!) o a coloro per i quali esiste soltanto quanto si può vedere e toccare (il dato è tutto!), la pastorale giovanile deve scegliere la via educativa che cerca di perforare la realtà per scoprire i simboli che si nascondono sotto le cose della vita (il dato è sacramento… dell’Altro!).
    Non entro infine nel legame, che ritengo ormai sufficientemente acquisito, che unisce la pratica alle scienze che si occupano di progettare e programmare gli interventi in grado di trasformare una determinata prassi; così come nemmeno mi soffermo a mettere in risalto l’interdisciplinarietà richiesta.

    QUESTIONE TEOLOGICA

    Se dovessimo possedere una password per accedere al cristianesimo, questa sarebbe senz’altro «incarnazione». L’Incarnazione è il contrassegno che distingue la religione cattolica: in questo mistero palpita la novità incredibile e addirittura scandalosa del cristianesimo. Grazie all’Incarnazione, la storia dell’umanità si trasforma nel più bel racconto dell’amore di Dio. Piuttosto che volere un essere umano degno di Lui, Dio si fa autenticamente degno dell’uomo: l’Incarnazione ci manifesta la totale solidarietà di Dio con l’essere umano.

    Il «principio Incarnazione»

    Per noi cristiani, quindi, il quid della teologia, vale a dire, della storia di Dio con l’uomo, risiede nel graduale approfondimento dell’Incarnazione, proprio perché l’essere divino ci si rivela nell’abbassamento dalla sua grandezza fino ad accreditarsi davanti a noi con una taglia umana. L’incredibile fede che l’Abbà – il Dio «Padre-Madre» – ha nell’essere umano si concretizza nell’Incarnazione del Figlio. “La creatura è ciò che il creatore è voluto diventare. Dio non è solo il creatore di un mondo diverso da Lui; Dio è, Egli stesso, creatura; la forma dell’esistenza definitiva del Dio rivelato in Cristo è l’incarnazione”. [12] Possiamo veramente parlare di un duplice contenuto del mistero: ci troviamo davanti alla divinizzazione dell’uomo e – quello che ci sembra più difficile da accettare fino in fondo – all’umanizzazione di Dio. “Più ancora, la divinizzazione dell’uomo è possibile perché c’è l’umanizzazione di Dio”. [13]
    È anche così che Gesù ci manifesta chi è l’uomo: il mistero dell’essere umano “trova vera luce nel mistero del Verbo incarnato […], [il quale] svela pienamente l’uomo a se stesso” (GS 22). In definitiva, e ce lo dicono sia le affermazioni del Credo che le formulazioni dei Concili, “oltre Gesù di Nazaret non vi sono ulteriori passi nella scoperta di Dio. Dio non sta dietro Gesù, sta in Gesù. Non vi è distanza da coprire tra Gesù e Dio. In Gesù siamo giunti al Padre”. [14]
    Sicuramente l’insistenza sul radicamento umano della rivelazione e della fede o, meglio, sull’identità umana della rivelazione e della risposta di fede, non esaurisce tutta l’esperienza cristiana. Se nella rivelazione e nella fede l’uomo è portato alla profondità di se stesso, a uguale diritto si deve affermare che egli si sente anche portato al di là o elevato sopra le sue possibilità: rivelazione e fede rimandano alla trascendenza e alla gratuità di Dio. Non si tratta perciò di aspetti separati né, tanto meno, contraddittori: rivelazione e fede si sperimentano come un dono divino gratuito, ma il regalo è vissuto come una vera e autentica pienezza umana.
    Non dobbiamo mai perdere di vista che ci troviamo davanti al «mistero dell’incarnazione», ma nemmeno dimenticare che si tratta di un «mistero per l’uomo». Allora, se in buona misura il principio-incarnazione costituisce uno dei supporti per ripensare il cristianesimo oltre gli schemi "essenzialistici" del passato, nella pastorale giovanile significa molto di più: la continuità fra l’esperienza umana e il mistero di Dio poggiano sulla vita e la prassi di un uomo, Gesù di Nazaret, che rivoluzionò il modo di comprendere e vivere la relazione dell’essere umano con il divino e degli uomini fra di loro.
    Il mistero dell’Incarnazione, quindi, è il mistero dell’umanizzazione di Dio: esso non solo dà forma alla meravigliosa fede che il Padre ha in noi e manifesta l’assunzione dell’umano da parte sua, ma addirittura dichiara che nell’umano e a partire dall’umano è possibile raggiungere il divino. Il dato più significativo e paradossale è che questo modo di arrivare a Dio non richiede di fuggire, uscire o elevarsi al di sopra dell’umano, tutto il contrario: conoscere Dio e raggiungerLo non suppone un’uscita dalla nostra realtà, ma piuttosto la realizzazione più profonda della propria umanità.
    Affiora così una conclusione straordinaria: l’incontro con Dio, reso possibile dal fatto che Egli per primo si è incontrato con l’essere umano, diventa l’umanizzazione dell’uomo. Salvezza ed umanizzazione piena si danno la mano, vengono ad essere la doppia faccia della stessa moneta che ci è stata distribuita gratuitamente.
    Questi rilievi sono fondamentali proprio perché la questione principale della teologia pastorale in genere, e della pastorale giovanile in particolare, si gioca nel considerare se e in che misura l’educazione della fede cristiana sia intimamente connessa alla maturazione umana, oppure se si tratta di due cose diverse, autonome, quando non addirittura contrapposte. Il problema è sempre esistito, anche se oggi assume tratti più decisi in quanto le posizioni appaiono più esasperate. Alcune infatti attestano una tendenza antropocentrica che, valutando praticamente coincidenti i due processi (crescita della fede e maturazione umana), trasforma la pastorale giovanile in un progetto di «educazione umana»; in altre, la persistenza di un teocentrismo unicamente attento al mistero assimila la pastorale giovanile a quanto viene definito «evangelizzazione esplicita». Le prime ritengono essere i dinamismi umani la chiave che, in definitiva, garantisce la crescita e la qualità della fede cristiana; mentre le seconde, considerando il mistero di Dio al di là di quei dinamismi, implicitamente affermano che la fede non ha a che fare direttamente con i valori dell’uomo.
    Entrambi gli orientamenti non riescono ad unire adeguatamente la fedeltà a Dio e la fedeltà all’uomo: la posizione antropocentrica finisce per assimilarle, arrivando a vanificare il mistero divino; mentre quella teocentrica rischia di svuotare l’identità e la libertà umane per tenere salda la trascendenza divina. Soltanto se l’Incarnazione si colloca quale criterio normativo saremo in grado di superare una tale antinomia. Essa, effettivamente, ci consente di capire la fedeltà a Dio nella fedeltà all’uomo.
    La strada fu coraggiosamente confermata dai vescovi italiani (Il rinnovamento della catechesi), nella direzione indicata dalla Dei verbum, affermando che “Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie umane. Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito di amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo. Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conoscere Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio” (RdC 122).

    Salvezza e stile di vita di Gesù

    Nel “precisare che l’evento dell’Incarnazione va considerato non come una dimensione alternativa alle altre dell’esistenza cristiana, ma come la prospettiva da cui considerarle tutte” [15], R. Tonelli riconosceva anche il dovere di “non dimenticare mai, nell’impianto teorico e nelle proposte pratiche, che la croce di Gesù rappresenta qualcosa che contesta inesorabilmente e radicalmente [la stessa preoccupazione di adeguare i processi di maturazione umana e i dinamismi della fede cristiana]”. [16]
    Sicuramente Riccardo, sia in questa che in altre affermazioni autocritiche, cercava di proporre una sintesi teologica in grado di manifestare con chiarezza la trama salvifica di «creazione-incarnazione-redenzione». Forse è arrivato il momento di pensare ad una nuova articolazione del «principio Incarnazione» nella pastorale giovanile, vincolandolo più strettamente al mistero della redenzione e, specialmente, al dinamismo «salvezza-liberazione». Il tutto potrebbe essere strutturato attorno alla categoria dello «stile di vita».
    La modernità – di fronte ai modelli di essere-vivere fondati sull’essenza, sulla dottrina o sul dogma – introdusse lo «stile di vita» come l’emblema di un modo di abitare il mondo. Possiamo, dunque, immaginare – e delimitare – «il cristianesimo come stile di vita». [17]
    Gesù non ha scritto nulla: come interpretare il passaggio da questa assenza di tracce scritte alla novità della scrittura neotestamentaria e alla costituzione delle comunità cristiane? La risposta, opina Ch. Theobald, si trova nel tipo di relazione che il Nazareno instaura con coloro che incontra, che si può definire in termini di ospitalità nel quotidiano. La chiave ha qui la sua radice, ossia nel guardare l’esistenza di Gesù il Cristo, e quello che visse lui e coloro che egli incontrò, come il loro modo particolare di abitare il mondo. E in tutta la vita di Gesù e degli apostoli scopriamo l’ospitalità come il cardine dello stile di vita sia del Nazareno sia dei primi che lo seguono.
    A ragione possiamo parlare di «ospitalità nel quotidiano». La fecondità della rete relazionale di Gesù si radica in primo luogo in un tipo di ospitalità assolutamente unico (spossessamento di sé; a vantaggio o in favore di…: essere per – servire – gli altri), una presenza per chiunque. Inoltre, la presenza del vocabolario biblico di «santità» svela in qualche modo il segreto di ciò che così avviene e ne mostra l’origine: il vincolo di appartenenza che lega Gesù al Dio Santo e le esigenze che ne derivano nell’esistenza quotidiana.

    QUESTIONE EDUCATIVA

    È nota la convinzione fondamentale sul versante educativo: ovvero l’intima connessione esistente fra l’evangelizzazione e l’educazione, così come tra la ricerca di senso e il dono della salvezza; entrambi i collegamenti derivano dall’«evento–Incarnazione»: è appunto la «ricerca del senso» il cammino più indicato per rendersi conto e accogliere il dono di Dio. In tale ricerca, le comunità cristiane e i giovani più che «in–segnare», mettere cioè in segni fissi quello che sanno, «si–educano» (e-ducono), ossia maturano e crescono ricreando i simboli della vita, della fede. All’insegnamento corrisponde l’istruzione: decifrare, catalogare e rinnovare segni già condivisi. All’educazione, invece, corrisponde l’iniziazione: quell’avvicinarsi tremante ai simboli per scoprire i fili dell’esistenza, i vincoli e le relazioni antiche e nuove che ci fanno essere persone. L’insegnamento porta ad imparare un linguaggio; l’educazione conduce ognuno a parlare di per sé stesso.

    Educazione e fede

    La pastorale giovanile, nel cercare di condurre i giovani a Cristo, non può avere altro programma che quello di accostarsi alla vita dei ragazzi, all’attualità del mondo, «alle gioie, alle tristezze e alle speranze delle nuove generazioni». Seguendo poi la stessa dinamica del rapporto tra la teologia sistematica e quella pratica, anche qui dobbiamo riferirci alla mutua implicazione di educazione e fede: maturare come persone e crescere come cristiani si implicano vicendevolmente, per cui il «fatto educativo» contiene la possibilità dell’esperienza cristiana, così come quest’ultima comporta la maturazione ottenuta attraverso l’educazione. In questo modo, le scienze dell’educazione e la saggezza della fede si fecondano vicendevolmente in un rapporto dialogico permanente. [18]
    La novità pedagogica più radicale – il passaggio dalla trasmissione di contenuti (educazione in linea di continuità con l’insegnamento e l’apprendimento) all’elaborazione di risposte alle sfide della vita – chiarisce che la costruzione della maturità umana, per superare il rischio di essere condotta con forme spontanee ed occulte, comporta un processo profondamente dinamico e relazionale con l’ambiente esterno, inserito a sua volta in un più ampio contesto socio-culturale.
    Trattandosi della mutua implicazione fra educazione e fede, quindi, si deve cercare un sano equilibrio tra il rispetto scrupoloso dell’identità e dell’autonomia scientifica della pedagogia e della teologia, e lo sforzo di plasmare una vera interdisciplinarità che non cada in facili riduzioni (ad esempio, restringendo il fatto educativo a preambolo della fede, o questa a semplice risposta umana).
    Per evitare fraintendimenti, bisognerà certamente rivedere a fondo i concetti di educazione e di istruzione, distinguerli e persino separarli con cura. Affermando, ovviamente, la loro complementarietà ma cercando tuttavia di smascherare la perniciosa confusione di racchiudere l’educazione nella stessa prospettiva dell’istruzione.
    Educare (educar–ci) è un compito collettivo dove tutti crescono insieme, per cui l’educazione non può essere ridotta ai semplici ruoli di «educatori» ed «educandi», benché debba mantenersi la logica asimmetria di ogni rapporto educativo. In quest’ottica, è necessario affrontare il rischio di entrare profondamente in dialogo con i giovani dei nostri giorni. Questa deve essere la prima capacità dell’evangelizzatore: inserirsi nelle conversazioni degli uomini del suo tempo, interessarsi di quanto li interessa, parlare di cose comuni e lasciarsi interrogare da tutto quello che attraversa la loro vita quotidiana. Non esiste evangelizzazione senza questo atteggiamento di dialogo su quanto ha a che fare con la vita stessa. Quante volte, proprio perché non abbiamo questa disposizione, concludiamo affermando che i giovani si mostrano sempre più indifferenti al discorso cristiano? Non saremmo forse noi gli indifferenti dinanzi alla loro vita? [19]

    Relazione educativa: cittadini nella Chiesa, cristiani nel mondo

    L’opzione educativa della pastorale giovanile è ormai inconvertibile. R. Tonelli ammetteva però la necessità di una costante revisione critica dei modelli di educazione. A mio parere, è arrivato il momento di precisare o completare la scelta dell’animazione come modello globale di educazione. Finora l’educazione si concentrava sulla trasmissione dei valori, ma – per tante ragioni – rischia di ridurre tale trasmissione a procedure per l’assunzione dei valori. Diventa necessario, quindi, trovare un nuovo perno educativo che, in questo preciso momento storico, sembra trovarsi nella nozione di cittadinanza. «Educar-ci» per diventare ciò che siamo si può riassumere nell’esercizio dei valori della cittadinanza: essere un buon cittadino o cittadina esprime fedelmente ciò che ci fa umani.
    Don Bosco compendiava così la finalità del suo «sistema educativo preventivo»: “Fare quel po’ di bene che posso ai giovanetti abbandonati adoperandomi con tutte le forze affinché diventino buoni cristiani in faccia alla religione, onesti cittadini in mezzo alla civile società”. [20] Detto con una certa aria di provocazione, forse oggi ci vuole il passaggio alla chiave educativa del «cittadini nella Chiesa e cristiani nel mondo».
    Formare cittadini e cristiani responsabili rappresenta senza dubbio l’obiettivo fondamentale dell’azione pastorale della Chiesa. Tuttavia, la realtà socio-culturale ed ecclesiale non permette un’agevole definizione concreta di tale obiettivo. Anche chi riesce ad essere responsabilmente cittadino nel mondo e cristiano nella Chiesa, non sempre può dirsi, allo stesso tempo – e ancora una volta per tante ragioni –, cittadino nella Chiesa e cristiano nel mondo.

    Cammino e meta

    La pastorale giovanile sa che non è possibile identificare il cammino educativo con la meta cristiana; occorre un «salto» attraverso l’incontro con Gesù Cristo e l’adesione alla comunità ecclesiale.
    Tuttavia non va dimenticato che tale salto implica un serio lavoro educativo a partire da una realtà satura di cambiamenti rapidi e radicali. Nel momento storico che viviamo, l’incontro dei giovani con Gesù deve avvenire in una convulsa situazione antropologico-culturale, davanti alla quale non servono risposte prefabbricate. E così tutto ci porta a doverci imbattere in una problematicità che ci spaventa: quale identità e spiritualità cristiana perseguiamo, oppure – che è lo stesso – quali cristiani e quale comunità ecclesiale vogliamo nel presente storico che dobbiamo vivere. Tutto conduce a questo traguardo e, in buona misura, tutto dipende da esso (da questa identità o spiritualità discendono il tipo e le strutture di Chiesa, il suo modo di inserirsi e di relazionarsi con la società, le forme di liturgia, il modo di celebrare, ecc.).
    Riccardo Tonelli con la sua riflessione e la sua passione educativa-evangelizzatrice ha saputo porre i problemi e indicare delle strade. A noi il compito di procedere avanti e oltre, proprio con lo stesso desiderio che lo animava: riproporre oggi a questi nostri giovani il possibile incontro con Gesù, fonte della loro felicità e speranza.

    NOTE

    [1] La riflessione PG di d. Riccardo Tonelli e in qualche modo inscindibilmente legata all'identità stessa della pastorale giovanile salesiana (assieme a doverosi ed essenziali riferimenti al pensiero di E. Viganò e J.E. Vecchi, i due Rettori Maggiori prima di d. Pascual Chávez).
    [2] Le riflessioni che seguono riprendono altre già fatte in diverse pubblicazioni precedenti. Rimando alle fondamentali: J.L. Moral, Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione, LDC, Leumann 2007; Id., Giovani, fede e comunicazione. Raccontare ai giovani l’incredibile fede di Dio nell’uomo, LDC, Leumann 2008; Id., Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani, LDC, Leumann 2010.
    [3] [3] Cf. D. Chenu, Les lieux théologiques chez Melchior Cano, en Institut Catholique/Paris, Le déplacement de la théologie, Beauchesne, Paris 1977, 45-50.
    [4] Cf. R. Tonelli, Per la vita e la speranza. Un progetto di pastorale giovanile, Las, Roma 51996, 61-64 (tra tutte le versioni del testo di PG fatte da Tonelli, ritengo che questa è la più riuscita). Riccardo distingueva due orientamenti o direzioni fondamentali in cui raccogliere la pluralità delle prassi in atto – i modelli e progetti prevalentemente all’identità cristiana della proposta e quelli incentrati sulle persone e la loro vita – e, soprattutto, affermava che la diversità non dipendeva tanto dall’evento della fede e della salvezza cristiana, ma scaturiva piuttosto dalla pluralità di orizzonti culturali utilizzati per comunicare tale evento e dalla storicità che avvolge ogni progetto umano.
    [5] I Vescovi di Francia, Proporre la fede nella società attuale, LDC, Leumann 1998,
    [6] Cf. J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma 1991. La ragione umana, in questa prospettiva, si è allontanata dalla «metafisica classica» o da qualunque «filosofia della coscienza» per addentrarsi nei meandri della struttura storico-sociale e linguistico-comunicativa che accompagna ogni soggetto.
    [7] Così ce lo ricorda Congar: “L’intento pastorale del Concilio fu dunque il fattore decisivo dello stile del suo «teologizzare». Esso esigeva che non si tendesse ad una pura affermazione della verità in sé, ma che si cercasse uno sviluppo, un’esposizione e una formulazione della verità per gli uomini; che non ci si limitasse a dire ciò che è stato acquisito prima di noi e indipendentemente da noi, ma anche ciò che è stato acquisito da noi grazie alla nostra comunicazione con gli altri uomini” (Y. Congar, Teologia contemporanea: situazioni e compiti, o.c., p. 51).
    [8] Bisogna riconoscere che, di fronte ad una costante e consistente produzione scientifica nell’ambito teologico dogmatico o sistematico, la realtà della teologia pratica è ben diversa: sia la sua breve e travagliata storia che la mancanza di una riflessione scientifica permanente, purtroppo, configurano una teologia pastorale con un presente incerto e un futuro non poco ambiguo.
    [9] E. Schillebbeeckx, Intelligenza della fede, Paoline, Roma 1975, 45.
    [10] C. Geffré, Credere e interpretare, Queriniana, Brescia 2002, 18.
    [11] R. Tonelli, Ripensando quarant’anni di servizio alla pastorale giovanile (Intervista a Riccardo Tonelli), «Note di Pastorale Giovanile» 5(2009), 37.
    [12] J.L. Ruiz de la Peña, Creación, gracia y salvación, Sal Terrae, Santander 1993, 31s.
    [13] J.M. Castillo, Dios y nuestra felicidad, Desclée De Brouwer, Bilbao 2001, 79.
    [14] J.R. Busto, Cristologia per iniziare, AdP, Roma 2006, 109.
    [15] R. Tonelli, Ripensando quarant’anni di servizio alla pastorale giovanile, o.c., p. 40.
    [16] Ibid., p. 49.
    [17] Anche se prendo il tema da Ch. Theobald, R. Tonelli andava intuitivamente in una direzione simile quando rifletteva sulla vita e sulla «spiritualità giovanile», già nelle prime proposte che riguardavano il «ritratto di un giovane cristiano» (cf. R. Tonelli, Per la vita e la speranza. Un progetto di pastorale giovanile, o.c., pp. 175-201). Nei paragrafi seguenti sintetizzo gli elementi fondamentali con cui Ch. Theobald definisce lo «stile di vita di Gesù» (cf. Ch. Theobald, Il cristianesimo come stile. Un modo di fare teologia nella postmodernità – Voll. I –, Edb, Bologna 2009, 46-115).
    [18] Cf. G. Groppo, Teologia dell’educazione, Las, Roma 1991, 303-335.
    [19] “Pensiamo spesso che «evangelizzare» sia portare agli altri ciò che non hanno, ciò di cui sono privi. Avviene come se ci fosse, da una parte, un «pieno» da trasmettere e, dall’altra, un vuoto da riempire. In questa prospettiva, noi ci sforziamo di fare in modo che gli altri cambino, che si convertano alle nostre convinzioni, che divengano come noi e credano come noi. Di conseguenza, il nostro obiettivo è di far passare il messaggio costi quel che costi, superando ogni ostacolo personale o culturale. Così l’evangelizzazione è intesa come conquista dell’altro, come un’espansione della buona notizia a partire dalla testimonianza che noi portiamo. Ma è proprio così che si compie l’evangelizzazione?” (A. Fossion, Ri-cominciare a credere, Edb, Bologna 2004, 129).
    [20] G. Bosco, Memorie dell’Oratorio di S. Francesco di Sales dal 1815 al 1885, Las, Roma 1991, 199s.


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