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    Vivere lo sport con i preadolescenti: una grande occasione educativa


    In cammino con i ragazzi /11

    Pierpaolo Triani

    (NPG 2013-03-73)

    Riflettere in una prospettiva educativa sul rapporto tra lo sport (inteso come pratica di una attività sportiva svolta almeno con una certa regolarità) e la vita dei ragazzi è importante per almeno tre motivi.

    Un’esperienza rilevante

    La prima ragione risiede nel fatto che la pratica sportiva ha in sé una forza formativa molto alta, messa in luce, costantemente nel corso del tempo, sia da coloro che operano sul campo, sia da coloro che riflettono sulle questioni antropologiche e pedagogiche.
    Lo sport grazie alla sua forza formativa co-partecipa alla definizione del profilo dei singoli e delle società. Dal punto di vista dell’individuo che lo pratica lo sport, infatti, può assumere diverse funzioni: divertimento, competizione, disciplinamento, cura della propria salute, ricerca di benessere, occasione per incontrare persone e stringere amicizie. Dal punto di vista sociale mette in modo altrettanto numerose dinamiche, tra le quali: distrazione, identificazione, coesione sociale, prevenzione della salute e del benessere psicologico.
    Chi vive un’esperienza sportiva sa bene che essa è attraente e rilevante perché si intrecciano sempre diversi aspetti. Mentre uno si diverte, mette alla prova a se stesso, impara a conoscere le proprie potenzialità, le proprie aspirazioni e i propri limiti; a riconoscere e ad apprezzare l’altro. Scopre pian piano che il divertimento senza costanza e pazienza porta poco lontano, e che, ugualmente, lo sforzo senza la passione per ciò che si va facendo risulta presto senza senso. Attraverso lo sport una persona si trova così a scoprire qualcosa di sé e degli altri, e soprattutto a cogliere, attraverso un fare concreto, alcune regole fondamentali del vivere: il senso dell’impegno, della lealtà, della collaborazione; il gusto del divertirsi e del vincere, del mettersi alla prova e di migliorare; l’accettazione della sconfitta; l’apprezzamento per chi opera bene e ha talento, il rispetto per tutti.
    Come ha scritto P. Malavasi:
    «L’attività sportiva può così essere interpretata in modo pedagogico come una metafora: l’esercizio della disciplina forma all’impegno e contribuisce in modo dinamico a strutturare la personalità, proiettandola verso una continua trasformazione, una catarsi. L’educazione sportiva all’applicazione e allo sforzo psico-fisico, al rispetto delle regole così come degli altri partecipanti, conduce ad una sorta di ‘ascesi’: questa è tesa a rivelare a ciascuno i propri limiti per ‘superarli’, mediante un’intensificazione della dedizione e dell’allenamento».[1]
    La rilevanza formativa dello sport spicca in modo ancora più chiaro in quella fase delicata della costruzione dell’identità personale che è l’adolescenza, soprattutto nel suo momento iniziale quando i cambiamenti nelle diverse dimensioni della persona hanno un ritmo non sincronico e dove appaiono frequenti, all’occhio dell’educatore, le accelerazioni in avanti e «i ritorni all’indietro».
    All’interno di questo complesso processo di sviluppo e di identificazione personale la pratica dello sport, come hanno ben sintetizzato Giovannini e Savoia, può risultare particolarmente adatta e utile per una serie di aspetti:
    – risponde all’esigenza di divertimento e offre l’occasione di utilizzare una grande carica di energia;
    – permette di scaricare la tensione dovuta allo stato di stress che caratterizza questa fase di sviluppo;
    – insegna a conoscere il proprio corpo, favorendo anche l’acquisizione del senso della realtà;
    – indirizza verso la gestione dello spirito di competizione incanalandolo verso obiettivi precisi e migliora così anche la tenacia nel perseguire le mete poste;
    – favorisce lo sviluppo dell’intuito e delle capacità cognitive; grazie anche alle richieste di rapido adattamento alle situazioni, sviluppando come conseguenza la sicurezza nelle proprie capacità;
    – soddisfa il bisogno di autonomia dalla famiglia consentendo nel contempo di mantenere sia pure in una situazione diversa, un rapporto di dipendenza.[2]

    Un’esperienza sempre più diffusa

    La seconda ragione dell’importanza pedagogica del tema risiede nella progressiva espansione sociale della pratica sportiva. Secondo «I numeri dello sport italiano», forniti dal Coni nell’aprile del 2011, coloro che praticano sport con continuità sono il 22,8% della popolazione superiore ai 3 anni e quelli che lo praticano saltuariamente sono il 10,2%. Vi è naturalmente una certa differenziazione a seconda dell’età e del genere. La fascia in cui la pratica sportiva raggiunge il picco è quella tra gli 11-14 anni (ossia proprio la prima fase dell’adolescenza) dove ben il 57, 5% del totale della popolazione svolge attività sportiva in modo continuativo. Sono coinvolti maggiormente i maschi (il 66%) rispetto alle femmine il 44%.
    In Italia dopo la scuola il sistema sportivo è quello che, assieme alla realtà ecclesiale – che però proprio nella preadolescenza registra un primo forte calo di partecipazione – incontra con maggior frequenza i ragazzi. Inoltre, dopo le istituzioni scolastiche, le realtà sportive, soprattutto gli sport di squadra, sono quelle che intercettano e accolgono ragazzi di differenti provenienza sociale, culturale ed economica, diventando nei fatti crocevia molto importante per l’integrazione e la coesione sociale. Lo sport, perciò, sta assumendo ormai per i ragazzi la connotazione di una pratica ordinaria al pari dell’impegno scolastico, così come la rete delle realtà sportive giovanili sta diventando, per la società, un vero e proprio sotto-sistema formativo.

    Un’esperienza «critica»

    La terza ragione risiede nel fatto che, come è logico, proprio nella fascia d’età in cui la pratica sportiva raggiunge il suo punto più alto, inizia anche il suo declino, più velocemente nella popolazione di genere femminile. Le motivazioni possono essere diverse: l’aumento degli impegni prima di studio, poi di lavoro; il cambio dei punti di riferimento amicali, il mutamento degli interessi e delle passioni, un progressivo affrancamento dagli obblighi «imposti» dai genitori. Una recente indagine svolta nel territorio della diocesi di Fidenza,[3] ad esempio, mostra come dal 74% dei 14enni che dichiarano di praticare attività sportiva più volte all’anno si passa rapidamente verso i sedici anni attorno al 50%.
    Parlando con i diretti protagonisti si scopre che a volte le cause del distacco risiedono anche nel modo con cui essi sono seguiti nella loro esperienza sportiva e nella qualità relazione dell’ambiente in cui essi praticano lo sport. Ad esempio, in una ricerca condotta alcuni anni fa (nel 2007) dal Coni di Piacenza, in collaborazione con l’Ufficio Scolastico Provinciale, su più di 3000 ragazzi delle scuole «medie», tra i motivi dell’abbandono è risultato avere una certa rilevanza la voce «un cattivo rapporto con gli allenatori». Ciò significa che l’esperienza sportiva nei preadolescenti non solo è diffusa, ma si presenta anche come «critica»; da come essa viene vissuta interiormente dal ragazzo può dipendere la decisione di proseguire o di abbandonare.
    La constatazione della rilevanza e della delicatezza formativa dell’esperienza sportiva nei preadolescenti porta come conseguenza la questione dell’innalzamento della qualità educativa dello pratica sportiva, attraverso una maggiore responsabilità pedagogica degli allenatori e delle società sportiva. Anche in questo caso possono essere utili tre passaggi.

    Verso un innalzamento della qualità educativa della pratica sportiva

    Se è vero che lo sport ha una forza formativa intrinseca, è altrettanto vero che essa può essere messa a servizio di finalità diverse, non sempre coerenti con una visione alta dell’impegno educativo. L’allenatore, per fare esempi raccolti sul campo, che si preoccupa di insegnare bene alcune tecniche (aspetto imprescindibile di un buon allenatore) dimenticandosi di accogliere positivamente il ragazzo che ha davanti, rischia di fermarsi al potenziamento di alcune abilità, perdendo l’occasione di collaborare ad un progetto di crescita ben più ampio. L’allenatore che pone il risultato al di sopra ogni cosa, rischia di far perdere di vista ai ragazzi il senso più vero della loro pratica che non sta nel vincere, ma nel provarci insieme, sempre, con serietà e lealtà.
    C’è sempre più bisogno che oggi coloro che operano nel mondo dello sport scoprano la loro alta funzione educativa che consiste principalmente nell’aiutare i ragazzi che stanno crescendo a diventare, anche grazie alla pratica sportiva, più liberi e responsabili.
    Lo sport può concorrere in modo molto significativo alla formazione integrale della persona. Per fare questo è importante che sia assunto un preciso orizzonte di riferimento valoriale che opera come mappa di orientamento. A questo proposito può essere bello e suggestivo applicare all’educazione sportiva ciò che J. Maritain [4] andava dicendo sull’impegno educativo generale.
    L’opera educativa è realmente tale, diceva il filosofo francese nella misura in cui favorisce nella persona alcune disposizioni fondamentali. Anche l’attività sportiva diventa realmente generativa della persona se essa promuove in lei: l’amore del vero, l’amore del bene, l’apertura verso l’esistenza (definita anche l’esistere volentieri), il senso del lavoro ben fatto, il senso della cooperazione. Credo sia significativo per un allenatore e per una società sportiva pensare al proprio impegno e ai propri sforzi quotidiani come un processo paziente che mentre rende più forte, più abili, più competente il corpo; più sicuro e responsabile il carattere, contribuisce anche a rendere più ‘felice’ il ragazzo, più attento agli altri, più onesto; non chiuso su se stesso, ma teso a cercare sempre il bene.

    L’attenzione alla persona e la cura delle relazioni

    La scelta di prendere sul serio le potenzialità educative della pratica sportiva richiedono però agli allenatori e alle società sportiva di prendere sul serio alcune condizioni. Occorre, in altre parole, mettersi in gioco con ogni ragazzo, con coraggio, intelligenza e tenacia, in un processo di accompagnamento che comporta:
    – lo sguardo positivo e fiducioso verso il singolo, riconosciuto sempre (anche quando le sue capacità sportive sono basse) come un dono da riconoscere e valorizzare. Ha scritto R. Guardini
    «A partire dal pessimismo, o addirittura dalla diffidenza, non riesce alcuna autentica educazione. Chi non è in grado di presentire le potenzialità nascoste nell’individuo che si sta formando…le doti positive inscritte in lui… le possibilità che le sono date con ogni libertà in quanto tale; chi non si sente di in condizione di rischiare con tutto ciò, non può diventare un educatore»;[5]
    – la costruzione di una relazione che faccia sentire ogni ragazzo accolto e partecipe di un cammino comune;
    – la propositività, ossia la definizione di alcuni obiettivi, realmente raggiungibili, su cui chiedere al ragazzo di investire le proprie energie;
    – la significatività del proprio agire, ossia la capacità di mettere in atto gesti e di utilizzare parole che, senza ridondanza e vuota retorica, consegnano ai ragazzi e alle ragazze dei messaggi importanti capaci di aprire la loro mente e il loro cuore;
    – la pazienza, cioè la disponibilità a coltivare, a plasmare, ma anche ad aspettare nella consapevolezza delle differenze personali.

    La partecipazione ad una alleanza educativa

    L’esercizio della responsabilità educativa, inoltre, porta necessariamente ad una logica di alleanza. La funzione educativa dello sport non può essere intesa solo come una questione che appartiene ai singoli allenatori e alle singole società, essa è questione che riguarda tutti. Ponendo al centro l’educazione della persona il mondo dello sport si trova oggi sollecitato a:
    – costruire alleanze con i genitori, attraverso innanzitutto una chiara condivisione di finalità e di regole di comportamento;
    – accrescere la collaborazione con le altre realtà del territorio: le parrocchie (che spesso sono il contesto dentro cui le società sportive operano), le scuole, le realtà del terzo settore.
    Riconoscendo il valore formativo dello sport, le famiglie, le parrocchie, il sistema educativo scolastico ed etra scolastico si trova, a sua volta, spinto a inter-agire con le realtà sportive, considerandole come parte integrante del mondo dell’educazione, e sostenere la crescita all’interno del contesto sportivo della cultura educativa, cercando di riportare sempre l’attenzione sulla vita dei ragazzi, sul loro bene presente e futuro.

    RAGAZZI ED EDUCATORI IN AZIONE
    (a cura di Alessandra Augelli)

    Educatori in ricerca
    «Allenare, motivare, sostenere, il singolo e il gruppo»

    Visione del film «Coach Carter» – Regia di Thomas Carter, USA, 2005
    Ispirato ad una storia vera, il film narra la vicenda di Ken Carter, ex giocatore professionista di basket, che si trova ad allenare gli Oilers della Richmond High School. La squadra, formata da ragazzi appartenenti a famiglie molto povere e in alcuni casi già sulla via della delinquenza, dopo le iniziali schermaglie trovano in Carter un maestro e un sostenitore. Dopo duri allenamenti che porteranno la squadra a riscattarsi in campo, il coach riuscirà a rendere consapevoli i suoi giocatori che la via per migliorare la loro vita passa attraverso l’istruzione: spingendoli a studiare e grazie alle loro capacità nel basket, li motiverà a conquistare borse di studio che consentano loro di compiere studi universitari.

    Riflettiamo insieme
    – Quali sono gli atteggiamenti e i modi attraverso cui Ken riesce a dare fiducia, motivazione e sostegno ai ragazzi della squadra?
    – Quali difficoltà incontra e in che modo le affronta?
    – Qual è il rapporto tra ragazzi, allenatori, famiglie e altri insegnanti?
    – Quali spunti si possono trovare per le esperienze e le situazioni che viviamo quotidianamente?

    I preadolescenti si interrogano
    «Le diverse esigenze»

    Visione del film «Sognando Beckham» – Regia di Gurinder Chadh, Usa, 2002
    Jess è una ragazza indiana, che i genitori vorrebbero dolce e tranquilla proprio come sua sorella Pinky. Jess, ama, però giocare a calcio e gli riesce anche bene, tanto che Jules, giocatrice in una squadra regionale, quando la vede giocare, la convince ad entrare nel team. Le cose, quindi, si complicano ed, emblematicamente, la finale del campionato, dove ci sarà un importante osservatore, è lo stesso giorno del matrimonio di sua sorella. Il poster di Becham resta attaccato al muro, ma ha mosso tanti desideri...

    Riflettiamo insieme
    – Esistono delle differenze tra gli sport maschili e quelli femminili? Quali? Perché?
    – Perché, secondo voi, Jess è così coinvolta in questo sport? Cosa la motiva?
    – La vita e lo sport sono, alle volte in contraddizione? Perché? Fai qualche esempio…

    I preadolescenti si interrogano
    «Sport e vita allo specchio»

    Lettura di alcuni stralci di «Open. La mia storia» di Andre Agassi, Einaudi, 2013.
    «Non è un caso, penso, che il tennis usi il linguaggio della vita. Vantaggio, servizio, errore, break, love (zero), gli elementi basilari del tennis sono quelli dell’esistenza quotidiana, perché ogni match è una vita in miniatura. Persino la struttura del tennis, il modo in cui i pezzi entrano uno nell’altro come in una matrioska, rispecchia la natura delle nostre giornate. I punti diventano game che diventano set che diventano tornei, ed è tutto collegato così strettamente che ogni punto può segnare una svolta. Mi ricorda il modo in cui i secondi diventano minuti che diventano ore, e ogni ora può essere la più bella della nostra vita. O la più buia. Dipende da noi».

    Riflettiamo insieme
    – Pensi che lo sport sia metafora e immagine di qualche altro aspetto della vita? Quale?
    – Che legame c’è, secondo te, tra lo sport e la quotidianità di una persona?
    – Che differenza c’è tra uno sport di squadra e uno sport solitario? Cosa c’è, invece, in comune in queste esperienze?

    I preadolescenti si interrogano
    «Quando il gioco si fa duro: fare delle differenze una forza»

    Visione del film «Il sapore della vittoria» – Regia di Boaz Yakin, Usa, 2000
    I Titans sono la squadra di football americano che negli anni Settanta venne allenata da Herman Boone, coach di colore, che arrivò a quel ruolo così importante contro i fortissimi pregiudizi che vigevano allora. I neri potevano giocare, ma non assumersi la responsabilità della squadra, neppure se avevano dato prove di grandi qualità. Dunque Boone, che ha ottenuto ottimi risultati in squadre universitarie, arriva ad Alexandra, in Virginia, stato fisiologicamente razzista, preparato ad affrontare la discriminazione, si vede invece riconoscere la propria bravura e diventa allenatore in prima. A quel punto deve combattere con gli stessi giocatori, quelli bianchi naturalmente, che mal sopportano di dover obbedire a un nero.

    Riflettiamo insieme
    – Quali sono i punti deboli e i punti forti di questa squadra?
    – Perché i giocatori sono così diffidenti nei confronti del loro allenatore?
    – Quando e perché cambia il loro atteggiamento nei suoi confronti?
    – Cosa imparano i giocatori rispetto a questa esperienza?
    – Qual è il vero sapore della vittoria?

    I preadolescenti si interrogano
    «Il mio posto in squadra, il mio posto nella vita»

    Ascolto delle canzoni «Una vita da mediano» di Luciano Ligabue (dall’album Miss Mondo, 1999), e «La leva calcistica del ’68» di Francesco De Gregori, (dall’album Titanic, 1982)

    Riflettiamo insieme
    – «Una vita da mediano, con dei compiti precisi, a coprire certe zone, a giocare generosi
    lì, sempre lì, lì nel mezzo; una vita da mediano, da chi segna sempre poco, che il pallone devi darlo, a chi finalizza il gioco».
    – «Nino cammina che sembra un uomo, con le scarpette di gomma dura, dodici anni e il cuore pieno di paura. Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia».
    – Quali sono le diverse posizioni del giocatore all’interno delle canzoni? In che cosa si differenziano?
    – Quale importanza hanno? Perché? Sono ugualmente importanti?
    – Quali sono i «particolari» attraverso cui si giudica un buon giocatore?
    – Questi ruoli possono essere, in qualche modo paragonati ad alcuni compiti che abbiamo nella vita? Quali?
    – Quali difficoltà devono affrontare i due giocatori? Quali risorse hanno?


    NOTE

    [1] P. Malavasi, Pedagogia e formazione delle risorse umane, Vita e Pensiero, Milano 2007, pp. 119-120.
    [2] D. Giovannini – L. Savoia, Psicologia dello sport, Carocci, Roma 2002, p. 164.
    [3] Cfr. P. Triani – V. Corradi (a cura di), Generazione face book. La condizione giovanile nel territorio di Fidenza, Mattioli 1885, Fidenza 2013.
    [4] Cfr. J. Maritain, Per una filosofia dell’educazione, La Scuola, Brescia 2001.
    [5] R. Guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 898.


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