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    Segni dei tempi e anno della fede /7

    Luigi Guglielmoni – Fausto Negri

    (NPG 2013-08-52)


    Il secondo pianeta del romanzo di Saint-Exupéry «Il Piccolo Principe» è abitato da una sola persona: il vanitoso. Le prime sue parole lo identificano: «Ah! Ah! Ecco la visita di un ammiratore». Se per il re del pianeta precedente tutte le persone sono sudditi, «per i vanitosi tutti gli altri uomini sono degli ammiratori».
    Costui ha un buffo cappello, che gli serve per salutare coloro che lo acclamano: «Ma sfortunatamente non passa mai nessuno da queste parti», si lamenta. Egli vuole solo essere ammirato, e quando il Piccolo Principe gli chiede il significato di quel verbo, risponde: «Ammirare vuol dire riconoscere che io sono l’uomo più bello, più elegante, più ricco e intelligente di tutto il pianeta». «Ma tu sei solo sul tuo pianeta! », constata il nostro piccolo eroe. Il vanitoso implora: «Fammi questo piacere. Ammirami lo stesso!». «Ti ammiro, disse il Piccolo Principe alzando un poco le spalle, «ma tu che te ne fai?».

    Vanagloria

    Personificazione della vanagloria è anche il prof. Allock nella saga di Harry Potter «La Camera dei Se­greti». Egli dà enorme importanza all’apparenza, è un uomo-in-vetrina. Si mostra sempre con un sorriso smagliante, trascorre gran tempo a firmare autografi e a rispondere a lettere di ammiratori. Si vanta di imprese mai affrontate, ma è fondamentalmente un incapace. Diventa insopportabile, un vero «allocco», man mano che lo si conosce. Quan­do deve affrontare il male, scappa e si rivela un vigliacco. Alla fine dell’avventura, nei sotterranei della scuola, l’incantesimo che tenta per togliere la memoria a Ron e ad Harry si ritorce contro di lui: così non riconosce più gli altri, perché non li ha mai conosciuti; non riconosce nemmeno più se stesso, perché non è mai stato autentico.
    Torna anche alla mente il racconto di Esopo in cui si racconta di una rana che, vedendo un bue, volle diventare grande come lui: si gonfiò… si gonfiò, fino a scoppiare. Il vanitoso è una persona tanto piena di sé, che alla fine scoppia!
    Il vanaglorioso è anche un grande narcisista. Fa di tutto per lodarsi ed essere ammirato. Ha detto Oscar Wilde con un sorriso: «Ci sono persone che sanno tutto e, purtroppo, questo è tutto quello che sanno». Il filosofo tedesco F. Nietzche ha scritto una pagina di un atroce pessimismo circa la vanità: «Nell’essere umano l’arte della simulazione raggiunge il suo apice: l’inganno, l’adulazione, la menzogna e l’impostura, il parlare dietro alle spalle, il fingere, il vivere di fama riflessa, l’indossare una maschera, la convenzione eufemistica, il recitare di fronte agli altri e a se stessi, in breve, il continuo svolazzare intorno alla fiamma della vanità sono la regola degli esseri umani».

    Tutti Narcisi?

    Nel mito greco Narciso è un giovane bellissimo, ma follemente innamorato della propria immagine. L’unica creatura che ama è Eco, che è solo il suo doppio: la sua eco, appunto. Un giorno, rimirandosi nello specchio limpidissimo di un lago, eccitato dall’abbracciare la sua immagine sensuale e seducente, finisce per sprofondare nelle acque gelide e muore.
    Narciso è il sogno dell’attuale società. Narciso è il calendario dei santi atei! Il suo dio è il suo io: adora se stesso. L’idolatria, però, droga e uccide. Non a caso Eco diventerà una dura roccia, senza più sentimenti, capace solo di ripetere le parole altrui. Non a caso Narciso è il nome di un fiore soporifero che intreccia le corone delle divinità pagane Orfeo e Persefone. Da Narciso deriva narcosi: l’amore innamorato di sé (oggi diremmo vetrinizzato) narcotizza e uccide. Il narcisista vuole solo essere aiutato a piacersi, piacersi, piacersi. Le storie d’amore si spengono, la vita si indurisce e muore.

    Tutti in vetrina!

    Questa società giudica e valuta i propri membri in base alla loro capacità di mettersi in mostra. È una piramide, alla cui cima ci sono le persone riuscite grazie a una certa visibilità, al successo e al denaro. Per essere individui e sentirsi «arrivati» e non «esuberi» bisogna apparire. I segni di distinzione sono sempre nuovi, così che l’arrivismo conduce ad una sottile violenza. Afferma il sociologo Baumann: «La vita nella società liquida è una versione sinistra del gioco delle sedie. Come nel Grande Fratello: se non riesci a nominare chi esce dal gioco, il nominato sei tu. Le relazioni si stanno trasformando nella fonte principale di ambiguità e di ansia. Tutto viene commercializzato e i rapporti vengono visti in termini di mercato e di efficienza».
    La nostra società è caratterizzata da una crescente «vetrinizzazione». Oggi siamo tutti un po’ es-posti: la nostra identità sta in ciò che appare e in ciò che si dice di noi. Se non si appare, anche in modo volgare, tracotante o insulso, non si è nessuno. Se un tempo il mettersi in mostra era un segno di rozzezza, oggi l’ideale consiste nell’essere personaggi «alla ribalta». Ne nasce tutto un costume contagioso di individui che si riconoscono solo nella propria immagine, e che perciò non cercano la loro unicità ma la pubblicità che costruisce la propria immagine. Chi non irradia una forza di esibizione e di attrazione più intensa di altri, chi non fa di tutto per mettersi in mostra non viene considerato, avvertito, riconosciuto. Altro che legge della privacy! Oggi attraverso Internet vi sono società che sanno tutto di noi. Un ragazzo ha chiesto tutto quanto Facebook sapeva di lui. Gli sono arrivate 1200 pagine di informazioni, sulle quali la sua vita privata era come trivellata, comprese le sue intime confessioni, emozioni e gusti, storie d’amore, sentimenti e interiori segreti.
    Pare così caduta la barriera che separava l’interiorità dalla esteriorità, la parte intima e privata di ciascuno dalla sua esposizione pubblica. Anche le nuove tecnologie possono diventare complici di questa tendenza. L’assenza di contatto fisico finisce per depotenziare la gravità di certi atti: ad esempio, è possibile vendere virtualmente il proprio corpo (con show erotici in cambio di modesti compensi, quali una ricarica telefonica), stando all’interno della propria stanza.
    Il «gossip», cioè il pettegolezzo che accompagna i nuovi ricchi e famosi, fa sempre più notizia. E sempre più aumenta quanti, pur di apparire, mostrano in pubblico la loro dimensione privata o la loro vita intima, in una sorta di continua auto-pubblicità. Alla fine capita quanto aveva pronosticato Jules Renard: «Per aver successo bisogna aggiungere acqua al proprio vino, finché non c’è più vino». Il rischio è quello di diventare ridicoli, come la lumaca di cui parla Trilussa: «La lumachella de la vanagloria / ch’era strisciata sopra un obelisco, / guardò la bava e disse: Già capisco / che lascerò un’impronta nella storia».

    Educarsi ed educare all’umiltà

    Herman Hesse descrive questa condizione in termini affascinanti nel libro Siddharta. Questi pratica dapprima una severa ascesi, ma fallisce. Allora va nel mondo e dà sfogo a tutta la sua cupidigia. Alla fine è saturo di questa vita e si ritira di nuovo. D’improvviso riceve lungo il fiume la grande illuminazione. Vede «i figli degli uomini» che attraversano il fiume su una barca. In passato si sarebbe sentito al di sopra di loro. Adesso, invece, si sente con loro, profondamente unito a loro. Egli è, in un certo qual modo, come loro. Prova compassione per loro, ma prova anche speranza. Non condanna nessuno, ma sa che per tutti loro c’è l’amore più grande che tutto può trasformare. Egli ha compreso che può conoscere l’unione con gli altri e con se stesso solamente se è disposto ad abbassarsi verso di loro e verso la propria verità.
    Stima di sé e umiltà riguardano l’idea che noi abbiamo di noi stessi. Umiltà è valutarsi nel modo giusto. Scrive Salvatore Natoli: «Il giusto orgoglio è un atto di giustizia verso se stessi». Nulla di buono può essere fatto senza un’adeguata stima di se stessi. Il problema è quando l’orgoglio travalica la misura e si trasforma in boria e vanità. Nasce così l’autentica umiltà, che non è dire: «sono sciocco, sono stupido, sono incapace»; questo è sbagliato. Dio vuole il nostro bene e la nostra riuscita.
    L’umiltà consiste nel riconoscere il dono delle proprie capacità e di metterle a frutto. Occorre avere il coraggio di riconoscere anche i nostri doni, perché questo ci impegna ad essere fedeli al dono rice­vuto.
    Riconoscere un dono è riconoscere la nostra responsabilità. Se uno è intelligente usi la sua intelligenza, se uno è capace di lavorare si impegni nel lavoro, se uno è capace di avere cura di qualcuno lo faccia. E questo è l’impegno.
    Il dono di Dio occorre farlo fruttificare.
    Penso alle comunità dove c’è il rischio di nasconderci dicendo non sono capace. Il dono va messo a frutto insieme con gli altri.
    Ciascuno ha dei doni e i doni vanno messi insieme non con un atteggiamento di lotta, ma spendendosi insieme. Tutti hanno delle capacità e dei doni; non occorre averne a quintali, ne basta uno che però va fatto fruttificare.
    Avendo una chiamata a servire Dio nei fratelli più deboli, noi non lavoriamo bene se teniamo per noi i doni ricevuti.
    Anche il più debole ha dei doni.
    Il dono va donato. Allora la superbia è quando si opera solo per sé, per essere al centro, invece di far essere al centro la persona e soprattutto la presenza di Dio che è la sorgente.
    I doni non sono fatti per tenerseli, così ogni vocazione non è mai un privilegio, ma un lavoro da compiere a favore degli altri a nome di Dio.
    Si tratta di avere una sana autostima di sé. Di conseguenza, l’essere disposti ad ammettere una debolezza o il bisogno di aiuto.
    A differenza della cultura greca che celebrava il giusto orgoglio di sé per non cadere nell’umiliazione, nella nostra cultura c’è poca dignità e molta apparenza, dove «per apparire si è disposti perfino a svendersi; è il degrado che crea gli uomini tronfi senza orgoglio e uomini servizievoli e devoti senza umiltà» (Salvatore Natoli).
    Il «rinnegare se stesso» non significa rinunciare a quello che uno è, alle proprie capacità, ma all’ambizione personale e all’egocentrismo; significa non farsi un piedistallo con i propri doni per innalzarsi sopra gli altri, guadagnare in prestigio, in successo o potere. Il rinnegare se stesso significa che io rinnego tutto ciò che blocca la mia crescita come persona. E significa pure: non intendo mai bloccare lo sviluppo dell’altro per l’ambizione o per la sete di potere.
    Gesù condanna la vanità di chi agisce per essere ammirato. Quante maschere mettiamo anche noi! E quante maschere mettono gli altri nei nostri confronti! Succede così che l’erba del vicino appare sempre più verde di quella del nostro giardino… finché non si scopre che è un prato sintetico!
    Se si entra nella logica del solo apparire, si impara a vedersi solo con gli occhi altrui. L’immagine di sé diventa più importante delle proprie capacità. È una tragedia per il singolo e per la società tutta.

    Vanità delle vanità

    Vanità e vanagloria hanno come radice il latino «vanus» che significa «vuoto, privo di sostanza, frivolo». Il vanitoso è come un tamburo che tanto più è vuoto dentro, tanto più fa rumore fuori. È un bronzo che risuona a vuoto, direbbe San Paolo (1Cor 13,1).
    Nella vanità siamo continuamente intenti ad assicurarci della nostra identità, soprattutto del nostro corpo, e nello stesso tempo siamo così insicuri da pavoneggiarci per nulla.
    Non viviamo forse anche noi, come l’infelice monarca della fiaba di Andersen «I vestiti nuovi dell’imperatore», la smania di rappresentazione propria della società dell’immagine?
    Quando abbiamo in noi qualcosa del vanitoso, desideriamo restare per sempre giovani; siamo affetti dalla «sindrome di Elena», cioè desiderosi che tutti gli altri combattano per noi la guerra di Troia. Abbiamo paura della vecchiaia e della morte.
    Questo tipo di vanità nella Bibbia viene definita col termine «pascere vento».
    Per questo è importante che ciascuno trovi dentro di sé un centro, cioè una certezza, una forza interiore. Se uno è forte dentro, non ha bisogno di esibirsi a qualunque costo.
    Sii umile. Un motto ebraico dice: «Se hai tutte le doti ma ti manca l’umiltà, sei imperfetto». E un antico proverbio sottolinea come «senza l’umiltà tutte le virtù sono vizi». Umiltà deriva da «humus» (terra). Non significa disprezzo di sé, ma indica il coraggio di accettare il senso del limite, proprio perché si appartiene alla terra. L’umile è come un albero carico di frutti, i cui rami si abbassano fino a terra.
    Il poeta Giacomo Zanella affermava di odiare l’alloro sempre verde, simbolo di orgoglio, e di amare invece la vite perché umile e utile: «Odio l’allor che, quando alla foresta / le novissime fronde invola il verno, / ravviluppato nell’intatta vesta, / verdeggia eterno. / Amo la vite…».
    Sarebbe perciò bene che ognuno facesse propria la preghiera di San Tommaso Moro: «Signore, non permettere che mi dia troppa pena per questa cosa troppo ingombrante che si chiama ‘io’».


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