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    Umile è la gioia?



    Incanti di libertà o passioni tristi? /9

    Paolo Zini

    (NPG 2013-04-21)


    Mi domando perché pensare
    troppo mi turba
    e se una volta almeno mio padre
    ha fumato l’erba.
    Mi domando se avrò un figlio
    e se mio figlio mi odierà,
    perché purtroppo si odia
    chi troppo amore ci dà.
    Mi domando se la mia
    è una vita felice
    e so rispondere solo che mi piace![1]


    Sono interessanti le domande che risuonano nelle parole di questa recente canzone sulla libertà, ma è l’ultima di esse – a dispetto della sua importanza fondamentale per l’orientamento dell’esistenza – ad essere chiusa da una risposta tranquillamente compiaciuta e pericolosamente confusa.

    Certo la vita non è una canzone e una canzone può permettersi – senza pagarne lo scotto – leggerezze che la vita non tarderebbe a sanzionare; ma quelle parole, ignare di cosa sia una felicità distinta dal piacere, non possono lasciare indifferenti, anche perché forse riflettono un sentire che non riguarda soltanto il pubblico affezionato alle creazioni di un giovane cantante.
    Sulla particolare confusione che segna il rapporto dell’uomo di questo tempo con la felicità è necessario allora soffermarsi; lo chiede anche la logica del vagabondaggio di pensieri sin qui compiuto.
    Pensare la libertà come tratto di strada che l’uomo trova tra sé e la propria felicità costringe a misurarsi non solo con il protagonista di questo tratto di strada o con le forme più o meno raccomandabili del suo peregrinare, ma anche con i caratteri della meta che giustifica la fatica del cammino, la felicità, appunto.
    L’interrogativo sulla felicità ha però portata ed implicanze tali da scoraggiare una trattazione che non puntualizzi qualche preciso intento, onde cautelarsi dalla genericità superficiale dei luoghi comuni.
    La prospettiva di queste note vorrebbe allora essere molto precisa: di felicità è necessario parlare non perché manchino nella convivenza attuale le proposte che si candidano a realizzarla; piuttosto perché è arduo sondare l’affidabilità e la consistenza di tali proposte, che – sgomitando tra loro – animano un mercato brulicante di contraddizioni.
    E, mentre logica vorrebbe che tali contraddizioni suscitassero legittimi sospetti quanto alla credibilità del rispettivo mercato, i fatti sembrano attestare il contrario: ambite sono le felicità di piccolo cabotaggio, dagli investimenti facili da realizzare come da revocare e capaci di contiguità aliene da ogni coerenza.
    Ma allora l’uomo cosa cerca quando cerca la felicità? Vuole essere felice oppure, sapendo di non poterlo essere, cerca illusioni e ottundimenti?
    Come comprendere altrimenti la malía ostinata di offerte inverosimili, proprio per la posa stucchevole e gli studiati artifici della loro menzogna?
    Sono dunque le riserve sulla falsa felicità a rendere impellente l’interrogativo sulla soddisfazione che attende quanti raccolgono la sfida della libertà puntando all’unificazione del volere, alla sua emancipazione dalle voglie, alla cura del desiderio, educato nella pazienza del presente e nell’ascolto della realtà.
    La formazione del sentire, come vita del cuore e condizione di possibilità del rispetto e dell’amore, assicura all’uomo una felicità autentica e profonda?
    Oppure la rarità, che ne fa il sigillo di esistenze eroiche, è l’indicatore del suo carattere eccezionale, e pertanto elitario e improponibile ai più?
    Se la questione della felicità ammettesse solo queste due soluzioni, ci sarebbe di che dubitare della bontà stessa delle vita: non sarebbe infatti troppo severa l’alternativa tra una felicità falsa – maschera di un fallimento abbracciato dalla maggioranza degli umani soltanto con gradi differenti di consapevolezza, ottundimento, meschinità o rassegnazione – e una felicità tragica, riservata alle rare libertà capaci di eroismo?
    Gli scritti di G. Bernanos [2] potrebbero forse fornire spunti significativi per porre la questione in modo diverso.
    Due opzioni sono suggerite al romanziere francese dal suo esigente realismo: parlare di gioia anziché di felicità, onde smascherare le false e pericolose illusioni di una via facile e leggera alla vita felice; ridefinire l’eroismo attraverso l’umiltà, per rivelare la verità ultima e l’universale accessibilità della virtù che rende gioiosa la vita.

    Facili o felici?

    Per comprendere la riflessione di Bernanos sul rapporto dell’uomo alla felicità occorre anzitutto lasciarsi provocare dalla sua battaglia contro il costume e la cultura della menzogna.
    «Solo per pochi la menzogna è un vizio di cui essi conoscono la furiosa e sterile voluttà, ma per la maggior parte degli uomini che se ne servono senza neppure pensarvi, con una sorprendente spontaneità, la menzogna è la soluzione a tutti i problemi della vita».[3]
    Sono dure le parole dell’autore francese, ma obbligano a pensare: quando la doppiezza assurge a forma di rapporto dell’uomo alla realtà, agli altri e a se stesso, non solo gli equivoci sulla meta dell’esistere si moltiplicano, ma si fanno più sottili, avvalendosi delle complicità più subdole della coscienza, della cultura, delle abitudini collettive.
    Così, la libertà, vittima – colpevolmente ignara – della propria patologia, esaspera la corsa febbrile di una vita priva di orientamento.
    «Andare più presto, correre più velocemente. Andare sempre più velocemente, ma andare dove? Ah, come vi importa poco di sapere dove andate, imbecilli!... E così, che cosa fuggite? Ahimè, siete voi stessi che fuggite, ciascuno di voi fugge se stesso, come se sperasse di correre abbastanza velocemente per uscire finalmente dalla sua guaina di pelle».[4]
    Nella postmodernità sono le forme di questa corsa, stigmatizzata da Bernanos per la sua insipiente inconcludenza, ad avvicendarsi freneticamente, senza per questo mutare indole.
    E deputate ad ottimizzarne la frenesia sono le agenzie di arredo ludico dell’esistenza, agenzie alle quali oggi è assicurato uno straordinario credito culturale e un inedito successo economico.
    Di qui un dato socioculturale di solare evidenza e dalla novità priva di analogie storiche: nelle società del benessere si spaccia per riuscita una vita fedele alla forma di un grande gioco, oscillante dentro il range che va dalla leggerezza del diversivo al parossismo del trasgressivo.
    Un immaginario collettivo plasmato da una simile figura di esistenza subordina la felicità all’idolatria della facilità e reagisce alla fatica, al limite, alla misura quasi si trattasse di insopportabili mutilazioni lesive della dignità umana.
    È questo immaginario ad interdire l’elaborazione delle esperienze di vita più esigenti per la libertà, che, alla prova dei fatti, scoprendosi immatura, sa soltanto concedersi infantilismi regressivi.
    Infantilismi che abbracciano la logica del risarcimento come prospettiva esistenziale: le dilazioni di qualche gratificazione immediatamente disponibile vengono tollerate solo per brevi intervalli di tempo, purché siano promessi, alla loro scadenza, godimenti più appetibili quanto a forme ed intensità.
    In questa prospettiva viene stravolto il senso dell’impegno, del lavoro, della fedeltà alle persone, valori ridotti a variabile dipendente di calcoli interessati a massimizzare divertimenti e piaceri di una vita facile.
    Per la comprensione del binomio felicità/libertà l’equivoco non potrebbe essere più pericoloso, illusorio e mortificante, come sottolineano, ad esempio, le parole di Risè, acuto interprete dell’attualità e del suo costume.
    «Lo stile della narrazione debole, della vita umana come commedia, a cui nessun Dio presiede e dalla quale nessun Dio è visibile, non comprende, invece, la felicità, che è un’esperienza non debole ma forte».[5]
    Si potrebbe trascrivere l’osservazione in una sorta di legge, oggi vigente con disperante ubiquità: facilità ossessive moltiplicano felicità infelici.
    Ma, oltre lo stordimento di una facilità infelice, rimane qualche spazio praticabile all’uomo per un compimento della libertà?
    In proposito è di nuovo possibile ascoltare Bernanos; la sua opera non si accontenta di denunciare la menzogna e di smascherare l’imbecillità di un non senso che si compiace della propria disperata gaiezza, ma invita a considerare realisticamente la meta di un esistere autenticamente umano:
    «L’uomo vero non vuole la felicità, vuole la gioia, e la sua gioia non è di questo mondo o, almeno, non vi appartiene tutta intera».[6]
    Bernanos affronta il problema da credente, ma – questo è il suo fascino – con quella virilità che sa piantare lo sguardo al cuore della vita e del suo mistero, e per questo si ritiene autorizzato al dialogo con ogni uomo.
    Perché dunque Bernanos non parla di felicità ma di gioia? È una sorta di pessimismo cristiano a suggerirgli di proporre prospettive esistenziali meno allegre, più dimesse?
    Bernanos, al pari di altri celebri pensatori, vuol dar voce alla realtà, raccomandandone l’ascolto fuori dagli agguati – che sovente l’uomo corteggia – di fantasie e illusioni.
    E la realtà non si sogna neppure di promettere alla libertà beatitudini facili, gaudenti, smisurate.
    Se il mondo è intossicato di promesse di questo genere – come s’è visto – la loro radice non è la realtà, ma l’inganno della coscienza, o la miopia della cultura, o qualche sindrome del costume, o interessi di parte, capaci di ogni malafede.
    La realtà, la vita, il cuore, secondo Bernanos, promettono invece una gioia impegnativa, a coronamento della libertà che vuole e sa realizzare la propria misura.
    Gioia e misura: ecco la bipolarità dentro la quale Bernanos ritiene sia possibile condurre un’esistenza veramente umana, libera dalla mediocrità di una sopravvivenza annaspante tra le proprie menzogne.

    Alle radici della gioia

    Nonostante l’autorevolezza di Bernanos, alla sua proposta va rivolto un interrogativo: il riferimento alla gioia piuttosto che alla felicità non è un’operazione meramente lessicale, una sostituzione di parole, nella permanenza di un medesimo significato?
    Alcune precise affermazioni del romanziere francese consentono forse di rispondere no, in quanto sembrano suggerire una visione della gioia originale ed affascinante, legata ad un principio fondamentale:
    «Niente giustifica la tristezza: soltanto il diavolo ha ragioni per essere triste».[7]
    La gioia avrebbe dunque destinazione e accessibilità universali, ma non in ragione di una sua superficiale noncuranza rispetto alla vita; al contrario, secondo Bernanos, proprio questa gioia, possibile a tutti, saprebbe nascere – fuori da ogni faciloneria – in un rapporto radicale, onesto e realistico addirittura con la tristezza dell’esistere:
    «La gioia viene da una parte troppo profonda dell’anima perché le sue radici non affondino nella tristezza, che è la parte più profonda dell’uomo da quando ha perduto il paradiso».[8]
    Ma cos’è allora questa tristezza che, nelle parole di Bernanos, per un verso è prerogativa esclusiva del demonio, ma per un altro è nientemeno che terreno di coltura della gioia in ogni uomo?
    Forse proprio qui si tocca il punto capitale di una riflessione sulla meta accessibile alla pienezza della libertà!
    Alludendo a questa tristezza, Bernanos nomina l’innominabile: il rimosso più fastidioso ed ingombrante per l’immaginario collettivo contemporaneo è infatti un fondamentale dell’esistere, al quale il costume guarda con angoscia, intento a congegnare stratagemmi che l’occultino, quando andrebbero suscitate energie che lo elaborino.
    La tradizione cristiana ha sempre preso di petto questo rimosso contemporaneo – la tristezza cui allude Bernanos – contestualizzandola nella complessa riflessione sul peccato originale, quel rapporto arrogante, ingrato e colpevole della libertà alla sua finitezza, che avrebbe inaugurato la storia diffondendovi la propria malizia.
    Ma quest’antica espressione sembra conoscere oggi solo due destini: accendere controversie teologiche riservate agli specialisti, o guadagnare lo scherno di modesti opinionisti, presuntuosamente impegnati a svecchiare il cristianesimo da fantomatici reperti del fideismo oscurantista.
    Competerebbe proprio alla riflessione sull’uomo – urgente soprattutto fuori dai confini della dogmatica ecclesiale – interrogarsi sulla tristezza che Bernanos nomina.
    Una felicità che con quella tristezza non sapesse misurarsi sarebbe fatua, falsa, pericolosa.
    E una tristezza di quelle proporzioni, se blandita, diverrebbe il pungiglione della morte, deputato a regolare i conti con ogni felicità della vita.
    Spingendo lo sguardo dentro le profondità dell’uomo, eccola questa tristezza: secondo Bernanos si tratta della nostalgia di un’armonia infranta, di un’integrità pregiudicata.
    Si tratta della voce di una ferita che non può essere zittita, neppure dal clamore di eccitazioni sguaiate, abili però a renderne incomprensibile il messaggio.
    Paradossalmente, Bernanos ritiene che l’ascolto di questa ferita, il radicarsi in questa tristezza, il frequentarne la scuola, produca una gioia credibile, e universalmente disponibile.
    Che questa ferita non sia creata dalle definizioni dogmatiche per qualche strano pessimismo interessato, è l’onestà dell’esperienza a doverlo ammettere.
    Sebbene infatti la fede ne sappia illuminare straordinariamente la profondità e vi possa accendere una sorprendente speranza, questa ferita provoca il cuore di ogni uomo, persino a dispetto degli anestetici intenti a blandirla, e risuona nella ferialità dei suoi giorni.
    Chi potrebbe negare che feriale è l’esperienza d’un vivere ferito e che ferita è la ferialità umana?
    Non sono infatti riservate ai fedeli di qualche chiesa o agli eroi di qualche valore e nemmeno risparmiate ai dervisci della facilità, gli ordinari contenuti e le consuete forme del vivere segnate da questa mancanza d’integrità e d’armonia.
    Ferito è il nascere, drammatico e rischioso proprio nella novità della speranza che l’accompagna, e ferito è il lavoro dell’uomo, che non risparmia sfinimento persino quando riempie il cuore; ferita è la complementarità dell’amore, vittima dei suoi stessi ardori, e ferito è persino il riposo, che sembra allontanare d’un soffio la sua promessa proprio mentre la realizza.
    Ma la feriale prossimità di questa ferita non ne diluisce il mistero: non è impertinente alludervi, a prescindere dalle tradizioni religiose, nei termini di tristezza.
    Ma doveroso è anche rilevarne l’incapacità di inghiottire tutta la bellezza del vivere.
    È proprio il sapore di benedizione per la libertà, che – a dispetto di ogni sua imboscata – la vita conserva, a rendere tristemente acuta la percezione di questa ferita.
    Se ad inasprirla non fosse il contrasto con la preziosità dei beni che la ospitano, neanche sarebbe lecito parlare di ferita.
    Mentre il cuore umano sa che vivere è proprio esporsi al suo spasimo.
    Per questo ancora Bernanos è nel vero affermando che «chi cerca la verità nell’uomo deve farsi padrone del suo dolore».[9]

    Se il segreto fosse l’umiltà?

    Ma cosa può apprendere la libertà prestando ascolto a questa ferita?
    E perché in essa può fiorire la gioia?
    È ancora Bernanos a suggerire qualche risposta a questi interrogativi, attraverso un punto fermo di tutta la sua opera:
    «Il cuore del mondo batte ancora. La giovinezza è questo cuore. Se non fosse per questo dolce scandalo dell’infanzia, in uno o due secoli l’avarizia e l’inganno avrebbero disseccato la terra. Il povero pianeta, a dispetto dei chimici e degli ingegneri, non sarebbe che un osso sbiancato scaraventato nello spazio».[10]
    Se la ferita dell’esistere è testimone – attraverso il linguaggio misterioso della tristezza che invoca la gioia – di una costitutiva vocazione umana all’armonia e all’integrità, nell’infanzia questa vocazione trova invece una sorta di simbolizzazione positiva, di compimento realizzato senza fatica, ricevuto in dono da una libertà capace della fiducia accogliente e incondizionata tipica di un bimbo.
    Lo spirito di infanzia reca dunque in se stesso tracce singolarmente visibili di quella condizione che la ferita dell’esistere tristemente, sebbene istruttivamente, avverte come precaria, o perduta, o colpevolmente sciupata.
    Ecco perché Bernanos ritiene catastrofici per il mondo due inganni tra loro legati: il rifiuto dello spirito d’infanzia e la consuetudine con il vivere imbecille, incapace di abitare sapientemente la ferita del vivere, distillando la gioia accessibile nella sua tristezza.
    E ad annodare il rifiuto dello spirito d’infanzia al rifiuto della lezione della tristezza è l’orgoglio, la seduzione della dismisura, vero cancro della libertà e morte del cuore.
    La ferita dell’esistere, se sapientemente ascoltata, rivela che a determinare la perdita dell’armonia con sé, gli altri, il mondo, è sempre una smisuratezza del proprio io, vagheggiata come soluzione all’impegno del vivere, straniante rispetto al presente, cieca rispetto al dono della misura e alla misura come dono.
    L’assillo per questa smisuratezza è assente nello spirito d’infanzia, figura dell’umano che reca in sé la traccia storica meno sbiadita dell’integrità della gioia.
    L’infanzia è la condizione umana nella quale il rapporto dell’uomo alla sua misura ha la forma dell’accoglienza del dono; quando all’accoglienza subentra il sospetto, la misura è considerata maledizione e la libertà diventa ribelle, invaghita di sé, illusa di poter divenire principio della propria grandezza.
    Bernanos insegna come solo alla scuola dello spirito d’infanzia l’uomo possa riconoscere nell’idolatria – di sé e della propria smisuratezza – la più pericolosa tra le patologie del cuore.
    «Ci sono due modi di dannarsi, due cammini di perdizione. Il primo è amare il male più del bene, per le soddisfazioni che se ne ricavano. È il più breve. L’altro è preferire se stessi al bene e al male, restare indifferenti a entrambi. È il cammino più lungo, quello da cui non si ritorna».[11]
    L’ingombro dell’io può ostruire la via della gioia, paralizzare la libertà, impedirle di formare il cuore secondo quello spirito di piccolezza che, per Bernanos, è la chiave di volta della storia dell’uomo e del mondo.
    La dismisura di sé è ciò che ignora lo spirito d’infanzia, tanto nella forma dell’esondazione incontenibile delle voglie, sempre sedotte dall’assente e insoddisfatte dal presente, quanto nella forma della grandiosità della propria immagine, inseguita a dispetto di ogni evidenza e al prezzo di doppiezze e soprusi.
    La sorpresa grata per la misura di sé e la misura del mondo permettono di abitare l’esistenza nella ferialità della sua ferita, raccogliendo, fuori da fughe e risentimenti, la grazia del presente, senza per questo spegnere la speranza nel futuro.
    Lo spirito d’infanzia è infatti la forma di libertà che riconcilia obbedienza e iniziativa, gratitudine per il presente e speranza per il futuro, adesione alla misura del mondo e alla misura di sé.
    Il nome meno poetico – e forse per questo anche meno insidiato dalla retorica – dello spirito d’infanzia è umiltà; un nome che custodisce la memoria della sua radice humus, terra.
    È fuori moda questa misura e questo nome della gioia, ma quando la libertà, meno irretita da falsi miraggi, ne provasse il gusto, forse, riconoscendone l’impagabile pregio, ne percorrerebbe, modestamente e semplicemente, la via.
    «Non ci si contorce per diventare umili, come un grosso gatto per entrare nella trappola per topi. La vera umiltà è innanzitutto una dignità, un equilibrio».[12]

    Dunque?

    Una libertà fedele al compito della propria educazione cosa può attendersi a sanzione del suo impegno?
    Forse il culto della facilità deve la moltiplicazione dei suoi devoti ad un sottile pessimismo che sembra sovente ammonire il cuore umano circa l’impossibilità della felicità.
    La vita di chi capitola a questo pessimismo conosce due sole opportunità: compiacersi del proprio disperato eroismo oppure godere della propria meschinità, chiamandola felice.
    La fortuna di questa praticatissima alternativa è pari soltanto alla sua menzogna.
    Altro infatti è l’orizzonte di un’esistenza riuscita.
    È l’orizzonte di un’autentica educazione alla gioia, alla gioia vera, che non può non germogliare sul suolo ferito del mondo, l’unico che all’uomo sia dato di calcare.
    Di pochi è il coraggio di ascoltare la verità di questa ferita, che parla di un’integrità perduta, dell’uomo e del mondo, di un loro convenire fattosi precario, quando non ridotto a reciproca minaccia.
    Lo spirito d’infanzia, il cui nome proprio è umiltà, nelle sue evenienze mondane sa fare timidamente memoria della verità di quella condizione perduta, e così illumina la regola per un suo ritrovamento: la grata adesione alla semplicità della propria misura genera la libertà alla gioia.


    NOTE

    [1] F. Moro, Libero, da Domani, CD, 2008.
    [2] George Bernanos (Parigi 1888-1948), letterato e romanziere francese, ha consegnato ai suoi scritti una profonda riflessione sulla verità cristiana dell’uomo, della sua fallibilità e della sua libertà. Non sarebbe eccessivo considerare la sua opera, riflesso di una vita coerente ed appassionata, un’apologia dell’esistenza credente, come crescente armonizzazione, resa possibile dallo Spirito di Dio, di eroismo del volere e spirito d’infanzia, nel sereno abbandono all’efficacia storica della Grazia di Dio.
    [3] G. Bernanos, Le crépuscole des vieux, citato in Id., Pensieri, parole e profezie (La parola e le parole), Paoline Editoriale Libri, Milano 1996, 105.
    [4] G. Bernanos, Français, si vous saviez, citato in Id., Pensieri, parole e profezie…, 45.
    [5] C. Risè, Felicità è donarsi, contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro, Sperling Paperback, Milano 2004, 23.
    [6] G. Bernanos, Les grands cimitières sous la lune, citato in Id., Pensieri, parole e profezie…, 117.
    [7] G. Bernanos, Correspondance, citato in Id., Pensieri, parole e profezie…, 117.
    [8] G. Bernanos, Correspondance, citato in Id., Pensieri, parole e profezie…, 118.
    [9] G. Bernanos, La joie, citato in Id., Pensieri, parole e profezie…, 115.
    [10] G. Bernanos, Jeanne, relapse et sainte, citato in Id., Pensieri, parole e profezie…, 49.
    [11] G. Bernanos, Le chemin de la croix-des-âmes, citato in Id., Pensieri, parole e profezie…, 21.
    [12] G. Bernanos, Dialogues des Carmélites, citato in Id., Pensieri, parole e profezie…, 122.


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