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    La misura della felicità /1. GKC on NPG

    Paolo Pegoraro

    (NPG 2013-02-73)


    «Anno della fede». «Nuova Evangelizzazione». Espressioni che intimoriscono. Oppure non c’interpellano. Formule pronunciate con tale frequenza che forse non vi facciamo più caso, avvertendole magari astratte e perfino lontane, se paragonate alla nostra quotidianità tiranneggiata da scadenze e preoccupazioni terra terra. Due mondi apparentemente distanti. Eppure l’ascolto di due testimonianze, negli scorsi mesi, mi hanno fatto intendere queste espressioni sotto una luce del tutto nuova.
    La prima è stata il 7 novembre 2012, quando papa Benedetto XVI ha pronunciato la sua prima catechesi per spiegare l’Anno della Fede. Secondo il Santo Padre, occorre
    «promuovere una sorta di pedagogia del desiderio, sia per il cammino di chi ancora non crede, sia per chi ha già ricevuto il dono della fede.

    Una pedagogia che comprende almeno due aspetti.
    In primo luogo, imparare o re-imparare il gusto delle gioie autentiche della vita. Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi e generosi. Altre invece, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato e talora lasciano dietro di sé amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto.
    Educare sin dalla tenera età ad assaporare le gioie vere, in tutti gli ambiti dell’esistenza – la famiglia, l’amicizia, la solidarietà con chi soffre, la rinuncia al proprio io per servire l’altro, l’amore per la conoscenza, per l’arte, per le bellezze della natura –, tutto ciò significa esercitare il gusto interiore e produrre anticorpi efficaci contro la banalizzazione e l’appiattimento oggi diffusi. Anche gli adulti hanno bisogno di riscoprire queste gioie, di desiderare realtà autentiche, purificandosi dalla mediocrità nella quale possono trovarsi invischiati. [...]
    Un secondo aspetto, che va di pari passo con il precedente, è il non accontentarsi mai di quanto si è raggiunto. Proprio le gioie più vere sono capaci di liberare in noi quella sana inquietudine che porta ad essere più esigenti – volere un bene più alto, più profondo».
    Pochi giorni dopo, il 16 novembre 2012, ecco la conferma. Questa volta si tratta di un incontro con Jean Vanier presso la Pontificia Università Gregoriana.
    Jean Vanier è un filosofo, ma certo non di quelli che meditano sul male di vivere dopo cena, sorseggiando whisky davanti al caminetto di casa. Jean Vanier si è fatto ammaestrare dai portatori di handicap, soprattutto mentali, quelli che perfino a tanti cristiani fanno pensare, nel segreto del cuore: «Orrore! Perché esistono? E se fosse capitato a me? Meglio non fossero mai nati». Ebbene, concludendo la sua intensissima testimonianza, la voce lenta e profonda di Vanier ha scandito:
    «Dio ha scelto i folli e i deboli per confondere gli intellettuali e i potenti, e ci mostra un cammino di semplicità verso Gesù... e tutto diventa così facile! Per me è una grazia vivere con delle persone un po’ folli. A volte molto deboli, sì, ma stando insieme si scopre che noi umani siamo fatti per essere felici.
    Per questo servono comunità dove poter vivere, celebrare, essere un po’ folli insieme, rendere grazie a Dio per la nostra umanità e cercare di essere nel nostro mondo dei piccoli luoghi dove si possa manifestare la gioia.
    Perché siamo amati da Dio. Ed è questa la nuova evangelizzazione, che è pure la sua forma più antica: essere felici».
    «Anno della fede». «Nuova Evangelizzazione». Continuano a suonarci parole inconsuete, estranee al nostro vocabolario di tutti i giorni. Qualcosa che riguarda altri – il clero, la gente impegnata – certo non noi, uomini e donne di tutti i giorni. Ma se si parla di «felicità», allora la nostra attenzione si risveglia subito. Il nostro cuore è un radar fatto per captare questa frequenza: la felicità, niente di meno! Questo sì che mi interessa! Perché, credenti o no, è questo che cerchiamo. E il resto è solo compromesso e perdita di tempo. Non ci basta «stare bene» per un po’, brevemente e in maniera incerta, in fondo sempre avvelenati dallo spettro di risvegliarsi dal bel sogno in una realtà ancora più tetra. Vogliamo una felicità fatta di gioie autentiche, di esperienze concrete – come ha ricordato il Papa. Sì, il desiderio del nostro cuore è alto ed esigente. E per questo presta più facilmente la sua attenzione alle voci dei testimoni, piuttosto che a quelle dei maestri. Voci di gente credibile – come Jean Vanier.

    Chesterton, serio e giocoso

    Ecco allora il cortocircuito che mi trovo davanti: fede-evangelizzazione-felicità... chi può essere un testimone di tutto questo? Chi può essere capace di raccontare ai nostri giorni sazi e stanchi la verità dell’esperienza con parole sempre nuove? Serve che ami l’allegria e che allegramente ami lottare.
    Il nome di Gilbert Keith Chesterton mi è apparso spontaneamente. In Italia non lo conosciamo ancora abbastanza. Da qui l’idea di avvicinarci un po’ alla volta alla sua vita e alle sue opere.
    Perché Gilbert Keith Chesterton – poeta, romanziere, giornalista, commediografo, illustratore, critico letterario, polemista, apologeta – fu un vero gigante. Uno che vide cambiare la sua vita grazie alla fede. Gigantesco Chesterton lo fu anche materialmente, al punto che il suo feretro, troppo grande per le scale, fu calato dalla finestra.
    Ma le dimensioni del suo corpus letterario sono ancora più impressionanti: in 35 anni sfornò un centinaio di libri, oltre quattromila articoli, innumerevoli conferenze tenute a braccio in mezzo mondo. Onnivoro il grande autore inglese non lo era solo di appetito, come gli rimprovera il suo più caro nemico-amico, l’allampanato George Bernard Shaw, quanto più intellettualmente. S’interessava a tutto, dalla politica internazionale ai polizieschi, dalle biglie alle palle da cannone, di storia ed economia, di filosofia e filastrocche e teologia. Chesterton – o GKC, come si firmava e lo conobbero i suoi lettori – prese sul serio tutto e di tutto scrisse giocosamente.
    Così che tra i suoi ammiratori si contano le personalità più diverse. Paolo VI, Giovanni Paolo I e Benedetto XVI. Antonio Gramsci. Alfred Hitchcock e Ingmar Bergman. Franz Kafka, Ernest Hemingway e Jorge Luis Borges. Pensatori come Hannah Arendt, Sergej Averincev, Etienne Gilson e Hans Urs von Balthasar. Il leader rivoluzionario Michael Collins e il leader nonviolento Mohammad Gandhi. Fumettisti cult come il londinese Neil Gaiman e il giapponese Hayao Miyazaki.

    Ingegno e allegria

    Di lui tutti ammirarono lo smagliante ingegno, il punto di vista insolito, ma soprattutto l’irrefrenabile allegria e lo sconfinato amore per la vita. Eppure, nonostante la sua spensieratezza e apparente leggerezza, Gilbert K. Chesterton (1874-1936) non scese dalle nuvole come Mary Poppins. Il suo non è un ottimismo spensierato e zuccheroso da alienato o da ingenuo. Chesterton è pienamente un autore del Novecento, e si formò nello stesso clima letterario dei cupi Edgar Alan Poe e di Franz Kafka.
    Figlio di una famiglia colta e benestante, si formò in un contesto di rispettabilità atea. Anche i genitori, nonostante l’adesione al culto unitariano, erano scettici nei confronti del soprannaturale. Dotato di tanta fantasia da iscriversi a una scuola d’arte, al giovane Chesterton non mancava davvero nulla. A parte una ragione per cui vivere. E niente è terribile come un talento senza scopo. Leggeva di tutto, a partire dagli autori allora per la maggiore: da Schopenauer a Nietzsche, a Swinburne. Che ovviamente non lo aiutarono a uscire dal suo pessimismo adolescenziale. Si occupò «superficialmente d’infinite cose» – così scrive nella sua Autobiografia –, perfino di spiritismo.
    Aveva mille strumenti sparsi attorno a sé, ma inutilizzati; e la sua volontà era paralizzata. La sua fervida immaginazione di adolescente si perdeva per vicoli paurosi. Strade buie. Il ventenne Gilbert sperimentava quella che poi chiamerà «la solidità oggettiva del peccato»: attacchi depressivi, un’ossessione morbosa per l’iconografia del male, compagni di college che negavano la distinzione tra giusto e sbagliato, sedute spiritiche e perfino l’impiego per alcuni mesi in una casa editrice specializzata in occultismo.
    Si andava formando in lui una concezione della vita tutt’altro che attraente. Il nostro era ormai sull’orlo di un precipizio senza ritorno.
    Il giovane Chesterton cercò di arginare questa «congestione dell’immaginazione» elaborando una peculiare dottrina del ringraziamento, secondo la quale qualsiasi cosa era migliore del nulla che ormai gli si prospettava come unico orizzonte. In seguito avrebbe riconosciuto che «chiamavo me stesso ottimista, perché mi trovavo così orribilmente vicino ad essere pessimista». Una risposta insufficiente, ma è naturale che anche il più squallido scoglio nel mezzo dell’oceano venga abbracciata con esagerato entusiasmo dal naufrago che sta per affogare. Anche le cose più brutte e inutili, anche quelle più pacchiane e di pessimo gusto, sono meglio del nulla. Di niente, di nessuno, si può dire: «Sarebbe meglio non esistesse».
    Di questo primo passo nella propria filosofia di vita, cui ne seguiranno tanti altri, il ventisettenne Chesterton ce ne dà un assaggio attraverso una serie di articoli, poi raccolti nel volume The Defendant (1901) che segneranno il suo esordio come scrittore.

    Meglio del nulla

    «Tutta la storia umana è percorsa da una strana legge, per cui gli uomini tendono sempre a sottovalutare il loro ambiente, la loro felicità e loro stessi. Il grande peccato dell’umanità, esemplificato dalla caduta di Adamo, è la tendenza non all’orgoglio, bensì a questa strana e orribile umiltà. Tale è la grande caduta, in virtù della quale il pesce dimentica il mare, il bue dimentica il prato, l’impiegato dimentica la città, ogni uomo dimentica il suo ambiente e, nel senso più pieno e letterale, dimentica se stesso. È la vera caduta di Adamo, una caduta di tipo spirituale. [...] Con ogni probabilità siamo ancora nell’Eden. Sono solo i nostri occhi a essere cambiati.
    In genere si ritiene che il pessimista sia un uomo in rivolta. Non è così. Primo, perché mantenersi in uno stato di rivolta richiede buon umore e, secondo, perché il pessimismo si appella al nostro lato debole, e quindi il pessimista fa affari d’oro come l’oste. La persona davvero in rivolta è l’ottimista, che di solito vive e muore nel tentativo disperato e suicida di convincere tutti gli altri del loro valore. È stato dimostrato centinaia di volte che se vogliamo davvero mandare la gente su tutte le furie, irritandola a morte, il modo migliore per farlo è dire che siamo tutti figli di Dio. Gesù Cristo, vale la pena ricordarlo, è stato crocifisso non per ciò che ha detto su Dio, ma perché accusato di aver detto che un uomo poteva demolire e ricostruire il Tempio in tre giorni. Tutti i grandi rivoluzionari, da Isaia a Shelley, erano ottimisti. Non si indignavano per la bruttezza dell’esistenza, ma per la lentezza con cui gli uomini si accorgono della sua bellezza. Il profeta che viene lapidato non è un attaccabrighe o un guastafeste, ma soltanto un amante respinto. Egli soffre di un attaccamento non corrisposto alle cose in generale.
    È sempre più chiaro, dunque, che il mondo corre continuamente il rischio di essere malgiudicato.
    [...] Lasciate che mi spieghi. Alcune cose, come il dolore, sono cattive in quanto tali, e nessuno, nemmeno un pazzo, dice che un mal di denti è buono in sé; ma un coltello che taglia malamente e con difficoltà è definito un cattivo coltello, cosa che certo non è. È soltanto meno buono di altri coltelli a cui gli uomini hanno fatto l’abitudine. Un coltello non è mai cattivo se non nelle rare occasioni in cui ci viene metodicamente e scientificamente conficcato nella schiena. Il coltello più rudimentale e senza filo che abbia mai fatto a pezzi una matita anziché temperarla è una cosa buona nella misura in cui è un coltello. Nell’età della pietra lo avrebbero considerato un miracolo. Ciò che definiamo un cattivo coltello è un buon coltello, ma non abbastanza buono per noi; e lo stesso vale per un cattivo cappello, una cattiva cucina e una cattiva civiltà: il cappello, la cucina e la civiltà sono buoni, ma non abbastanza per noi. Scegliamo di definire cattiva la maggior parte della storia dell’umanità non perché lo sia, ma perché noi siamo meglio. Questo è evidentemente un principio ingiusto.
    [...] Trovo ingiusto che l’umanità non smetta un solo istante di definire cattive tutte quelle cose che si sono rivelate abbastanza buone da migliorarne delle altre, che butti sempre giù con un calcio la scala su cui è salita. Sospetto che il progresso non debba essere un continuo parricidio; perciò ho esaminato i cumuli di polvere della storia, e in ciascuno di essi ho trovato un tesoro. Ho scoperto che per l’umanità buttare l’oro nei canali di scolo e i diamanti nel mare non è qualcosa di saltuario, bensì un’attività in cui è eternamente e sistematicamente impegnata. Ho scoperto che ogni uomo è pronto a dire che le foglie verdi di un albero sono un po’ meno verdi di quanto non siano, e che la neve di Natale è un po’ meno bianca di quanto non sia; pertanto, ho pensato che il compito principale dell’uomo, per quanto umile, sia difendere queste e altre cose».

    (Testo tratto da Gilbert K. Chesterton, L’imputato. In difesa di ciò che c’è di bello nel brutto del mondo, Lindau 2012, pp. 22-25, traduzione di Federica Giardini)


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