PG e media /2
Simona Borello
(NPG 2013-03-66)
Nello scorso numero abbiamo presentato le parole «nativi» e «migranti» digitali, usate da molti studiosi di comunicazione per segnare la differenza tra coloro che sono nati dopo il 1996 e i loro predecessori. La cifra distintiva è l’accesso «naturale» a tecnologie che per le generazioni che li hanno preceduti sono state imparate da adulti o, perfino, sono ancora poco familiari.
Cercheremo ora di mettere in luce alcune caratteristiche, per cercare di capire se e come è possibile ascoltarsi e comprendersi tra generazioni diverse. Iniziamo il nostro percorso dal punto di partenza proposto da Umberto Eco in un noto saggio di diversi anni fa, nel quale asseriva che di fronte alle innovazioni tecnologiche si manifestano due posizioni antropologiche: l’uomo «apocalittico», colui che ritiene l’introduzione di una nuova tecnologia di comunicazione una vera e propria rovina, e l’«integrato», che vede in essa solamente dei benefici. Sono posizioni che vediamo (e assumiamo) spesso nei dibattiti: si tratta di due approcci fondamentalistici, accomunati dalla stessa fascinazione che rallenta la capacità di reazione portando a un blocco negazionista o un’adesione indiscriminata.
A bene vedere sono due posizioni sterili che non aiutano a interrogarsi sino in fondo su «che cos’è una tecnologia?». Per rispondere usiamo due aforismi: una seria definizione dell’autorevole studioso Neil Postman (in Technopoly, La resa della cultura alla tecnologia): «ogni tecnologia è al tempo stesso un danno e una benedizione; non è l’una cosa o l’altra, è l’una cosa e l’altra», e una battuta semplice e caustica: «la tecnologia è quella cosa che non c’era quando sei nato». Penso che possano mettere in luce la quotidianità mediatica che viviamo, nella quale i «vecchi» mezzi di comunicazione di massa convivono con i «nuovi» personal e social media, generando confusione, estraniamento, paura, ma anche studio, curiosità, entusiasmo.
È una quotidianità che non si vive allo stesso modo: se i «nativi» sono così dentro al cambiamento da non arrivare neanche a capacitarsi che sia esistito qualcosa di diverso e devono, spesso, ancora sviluppare il senso critico necessario a riflettere e discernere; i «migranti» si trovano a non poter appoggiare la propria capacità di analisi su categorie interpretative adeguate, per mancanza di conoscenza o di dimestichezza con i media, riducendosi talvolta in considerazioni moralistiche di «era meglio quando si usava…» o «è meglio adoperare…».
Penso che siano necessari e urgenti momenti di formazione per educatori e animatori, religiosi e laici, per superare la situazione attuale che spesso li vede meno competenti dei giovani con cui si relazionano, dimenticando che la competenza tecnica di questi ultimi è notevole ma non si accompagna spesso alla necessaria padronanza culturale.
Proviamo adesso a mettere in luce i danni e le benedizioni, le luci e le ombre, che i mezzi di comunicazione personale e sociale stanno provocando in alcuni ambiti per via delle loro caratteristiche intrinseche.
Abbiamo a che fare con media relativi, perché non vi è un media dominante, un punto di vista privilegiato, una direzione di lettura predeterminata. Questo relativismo non è indifferente per il modo di raccogliere e rielaborare le nozioni: stiamo assistendo al progressivo declino del modello gutenberghiano e lo scardinamento del procedimento lineare e gerarchico. Le conseguenze sono per certi versi paradossali: una bassa capacità di concentrazione, foriera di un modo di ragionare meno approfondito, si accompagna a un livello di attenzione sempre molto elevato, spesso incapace di trascurare quanto è irrilevante arrivando a curiosi sovraccarichi cognitivi. Si tratterà di considerare queste luci e queste ombre per progettare delle azioni formative, lasciandosi alle spalle i metodi e gli studi elaborati quando il mezzo di comunicazione dominante era il libro.
Adoperiamo media interattivi e convergenti, che creano connessioni e portano le persone a costruire delle comunità non più legate all’appartenenza geografica ma all’adesione ad interessi e opinioni comuni attraverso la rete. Internet e in particolare i social network sono caratterizzati da una grande necessità di interazione, di compiere delle scelte, di condividere interessi e materiali. Si arriva a costruire delle comunità che non si possono liquidare con l’aggettivo «virtuale» dimenticando quanto reali possano essere nella vita delle persone e quanto possano essere efficaci per farle uscire dallo stallo della solitudine e dell’apatia. Qui si crea una nuova rappresentazione antropologica: in rete esiste chi è attivo, chi partecipa, chi interagisce. E i pensieri sono importanti quanto le immagini e, in taluni contesti, anche di più. Si rende sempre più necessario conoscere ed essere presenti nei mezzi di comunicazione dei giovani, scoprendone le potenzialità e le limitazioni, favorendo i luoghi nei quali avvengono interazioni arricchenti e segnalando quelli dove si rischia di limitarsi all’esibizione narcisistica. Comporta lo stravolgimento delle categorie spaziali e temporali, portando a fare PG anche seduti al proprio computer dopocena.
Infine, dobbiamo convivere con media sempre più presenti (e a volte invasivi) nelle vite quotidiane – ma del resto già McLuhan li definiva «estensioni dei sensi umani» – da essere diventati un ambiente in cui vivere più che degli strumenti da adoperare. Un luogo nel quale le persone vivono e si interrogano, sul senso della vita, sulla fede, su Dio. Si impone la presenza di testimoni credibili, missionari nella rete come nelle strade e negli oratori.