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    Libertà salvata



    Incanti di libertà o passioni tristi? /10

    Paolo Zini

    (NPG 2013-07-64)


    «Se Dio potesse immaginare quale peso rappresenti per me il minimo atto, cederebbe alla misericordia o mi lascerebbe il suo posto. Perché le mie impossibilità hanno un che di estremamente vile e di divino insieme. Nessuno può essere meno adatto di me a questa terra. Appartengo a un altro mondo, come dire che sono di un sottomondo. Uno sputo del diavolo, ecco di quale pasta sono fatto».[1]
    Così scrive Emil Cioran,[2] pensatore rumeno che lascia al XX secolo pagine travagliate in volumi dai titoli privi di ambiguità: Il funesto demiurgo, Sillogismi dell’amarezza, Sommario di decomposizione, solo per fare qualche esempio.
    Se Nietzsche è stato definito scriba del caos, Cioran ha guadagnato il titolo di sentinella del nulla e insieme, nonostante la distanza temporale e le differenti impostazioni di pensiero, consegnano ai passati due secoli la convinzione che il Nome di Dio sia una spina conficcata nel fianco della libertà.
    Cioran al pari di Nietzsche sembra non avere dubbi: se Dio ci fosse, per l’uomo sarebbe insopportabile non esserlo a propria volta, e trovarsi tra mano una libertà ridicola con le sue miopie, i suoi ceppi, le sue fobie diventerebbe la condanna ad un insensato supplizio.
    Le tappe della riflessione svolta sin qui hanno forse illuminato ragioni per ritenere invece il Nome di Dio tutt’altro che problematico per l’esercizio della libertà; addirittura, a ben vedere, essenziale per un suo compimento.
    Certamente non è offensivo per l’intelligenza ed il cuore ascoltare le ragioni del Vangelo e riflettere sul suo destinarsi all’uomo come buona novella non solo per la libertà, ma addirittura della libertà.
    Se Cioran infatti afferma che «tutto il cristianesimo è un’unica crisi di lacrime, di cui ci resta solo un sapore amaro»,[3] la narrazione evangelica sembra proporsi come annuncio gioioso, almeno nell’immediatezza delle sue espressioni.
    Tra i passi più folgoranti del Vangelo vi sono quelli relativi alle ultime parole del Signore che, mentre anticipano ai discepoli il senso e la verità della Pasqua, riassumono il significato dei gesti e dell’insegnamento del Figlio di Dio: «Vi ho detto queste cose, affinché la mia gioia dimori in voi e la vostra gioia sia completa» (Gv 15,11).
    La storia di Gesù, annunciandosi come evento che rende efficacemente accessibile all’uomo la gioia piena, vuole risuonare come buona notizia della verità che sola sa condurre l’uomo alla pienezza della sua libertà: la pretesa evangelica, addirittura, è tutta qui.
    Pertanto, a rigore, fuori dal legame con la storia di Gesù, secondo il Vangelo, sarebbe possibile realizzare solo una pallida figura di libertà, assolutamente incapace di reggere il confronto con la vera libertà che, se non fosse stata inaugurata dall’umanità del Figlio di Dio e nell’umanità di chi vive di Lui, sarebbe semplicemente ignota alla storia, prima ancora che storicamente impossibile.
    Per chi conosce il Vangelo, allora, la sfida della libertà si illumina di una luce straordinaria e si anima di una speranza fin troppo grande per contenersi dentro gli orizzonti di questo mondo.

    Molte fiate liberamente al dimandar precorre...

    I versi de L’incontentabbilità, nati dall’estro poetico di Trilussa,[4] permettono di riflettere su una prima fondamentale sorpresa che il Vangelo regala alla libertà:

    IIddio pijò la fanga dar pantano,
    formò un pupazzo e je soffiò sur viso.
    Er pupazzo se mosse a l'improviso
    e venne fòra subbito er cristiano
    ch'aperse l'occhi e se trovò ner monno
    com'uno che se sveja da un gran sonno.
    – Quello che vedi è tuo – je disse Iddio –
    e lo potrai sfruttà come te pare:
    te do tutta la Terra e tutt'er Mare,
    meno ch'er Celo, perché quello è mio...
    – Peccato! – disse Adamo – È tanto bello...
    Perché nun m'arigali puro quello?[5]

    Il Vangelo smentisce proprio il buon senso cui si ispira la poesia di Trilussa, meditazione severa e rassegnata – nonostante la musicalità dei versi – sull’angustia d’orizzonti entro cui sarebbe confinata la vita umana.
    Paradossalmente, infatti, è proprio il Vangelo a dilatare le misure del desiderio, anticipando alla libertà le ragioni di un inaudito vigore.
    Se infatti Trilussa afferma che il senso del limite dovrebbe ricordare all’uomo la convenienza d’accontentarsi della terra, rinunciando al cielo, e se Cioran rivendica il diritto al cielo, con i toni indispettiti dell’impotenza, il Vangelo annuncia, proprio nel destino eterno dell’uomo – nel possesso dunque del Cielo –, la finalità ultima dell’atto creatore di Dio.
    Il dimandar dell’uomo, come straordinariamente afferma il Poema dantesco, si scopre anticipato dal dono di Dio che lo precorre.[6]. La verità del dono di Dio, che anticipa il desiderio umano, candidandosi a determinarne l’unica forma persuasiva e riuscita, non è affatto semplice da accogliere per la libertà finita, sempre confusa e sovente ribelle.
    A suo modo, è ancora Cioran a dimostrarlo.
    «Si ha un bel dire, – egli scrive – ma il cristianesimo ha rovinato tutto. Un guastafeste. Secoli inutilmente profondi.
    Quanto rimpiango di essermi nutrito della sua sostanza! Me ne sono rimpinzato. Sventura, immane sventura!».[7]
    Per Cioran proprio l’incontro con il cristianesimo è ragione di un disagio intellettuale ed esistenziale che accende il desiderio non semplicemente di un’apostasia, ma di una purificazione radicale.
    Il filosofo, in alcune sue espressioni, sembra agognare ad un’impossibile scarnificazione spirituale, fino a cancellare ogni traccia interiore lasciata dal messaggio evangelico.
    Al di là di intricate e differenti ragioni culturali, per Nietzsche come per Cioran, l’annuncio di un dono che, per Grazia, re-insedia la libertà nella relazione con Dio è ritenuto una deprimente umiliazione.
    Paradossalmente, per la libertà umana – secondo questi pensatori – sarebbe esaltante il tentativo suicida di una rapina impossibile ai danni dell’onnipotenza di Dio.
    Scoprirsi destinataria di un dono d’amore, pagato da Dio al prezzo della Sua stessa Vita non potrebbe invece che risultare avvilente, per una creatura.
    Qui conducono le illusioni degli uomini, quando a produrle sono alleanze di intelligenza e libertà che, non potendo contare sulla sapienza del cuore, sprofondano nella dismisura dei loro deliri.
    Il Vangelo è la storia del Figlio di Dio, pazientemente intento a schiudere il cuore umano al mistero del dono e del legame d’amore che nella Sua vita si compie, fruttificazione mondana della verità di Dio.
    E quando del dono, il Signore, vuole indicare – al di là di ogni possibile equivoco – l’origine ed il destino, con sorprendente assenza di clamore, è Lui a fare di sé un Dono, senza trattenere più nulla, Carne, Sangue, Spirito.
    La misura dei gesti del Figlio – che non conoscono gli eccessi della spettacolarizzazione, della rappresentazione narcisistica di sé, dell’appariscenza seduttiva – è la grammatica che assicura loro una destinazione universale, mai avvilente, neppure per gli umili e gli ultimi.
    Ed è quella misura ad accogliere la credibile dismisura del dono eterno, di quel Cielo che il confuso desiderio umano – a detta di qualche inquieto pensatore – non vorrebbe ricevere in un gesto d’amore, ma sognerebbe di rapinare, onde dar prova della propria grandezza.
    Qui è la sorprendente novità del Vangelo del Figlio: lo scandalo della misura dentro la quale si produce è insopportabile per l’uomo, autisticamente alle prese con profili di Dio ispirati dalla dismisura del proprio narcisismo.
    Ma, rifiutata la scandalosa misura del Figlio, che illumina la presenza di un’origine e di un destino eterni nelle umili e feriali misure del mondo, si fa irrimediabilmente lontana la dismisura del Cielo.
    E questo decade a miraggio concupito da uno sguardo gelido, aggressivo e sospettoso, incapace di rispetto per la misura degli altri, di sé, delle cose.

    Il futuro dell’irreparabile...

    Ma il Vangelo non è soltanto la rivelazione della Grazia, come misura umana di Dio, e della misura umana come grazia, come dono di un Dio che crea il mondo per amore e non con l’indifferenza o il sadismo di un funesto Demiurgo.
    Il Vangelo è anche rivelazione della profondità della ferita che la libertà colpevole ha inferto al dono di Dio e che ne trafigge ogni espressione.
    Se di questa ferita il Vangelo annuncia la profondità, pure mostra il destino, ormai inseparabile dall’ostinazione dell’Amore di Dio.
    La poesia di Alda Merini nel Poema della croce, testo di contemplazione del supplizio del Signore, esprime in modo straordinario questa verità:

    Le preghiere d’amore,
    le occasioni d’amore,
    i seminari d’amore,
    sono un cerchio di spine
    che attentano alla nostra bocca,
    e mentre vorremmo gridare «ti amo»,
    stranamente esce da noi
    un sibilo profondo
    che dice le supreme
    e distorte «io ti odio».[8]

    Davanti alla più grande manifestazione d’amore cui la storia abbia potuto assistere, il cuore dell’uomo risponde con l’odio, e solo l’ostinazione della Grazia è argine all’irrimediabilità della sua insipienza.
    La scena dell’Amore Crocifisso e dileggiato ricapitola tutte le irreparabilità della storia, che lasciate a loro stesse basterebbero a fare dell’esistenza una dannazione o, per usare le parole di Bernanos, un inferno, perché «l’inferno è non amare più».[9]
    La ferita incancellabile, inferta a sé e al mondo dalla libertà finita, incapace per la dismisura del proprio delirio di accogliere la misura del dono creatore di Dio, rifiorisce nell’ostinazione dell’Amore che redime.
    Per questo all’uomo è non solo possibile, ma comandato dalle Ferite dell’Amore, il dimorare nella gioia senza dover ritrarre lo sguardo dalla ferita del vivere.
    Il Vangelo assicura che, se fosse cancellabile quella ferita, la libertà umana non sarebbe seria, ma, se fosse irrimarginabile, la storia non avrebbe udito la buona notizia delle Ferite di Dio.
    All’irreparabile umano, fruttificazione perversa e contagiosa della follia della libertà, risponde invece la fantasia ostinata dell’Amore.

    Il Vangelo: giogo della gioia

    A questo punto è forse più comprensibile la ragione per la quale il Vangelo si presenta non solo come buona notizia per la libertà ma della libertà.
    Fuori da questo annuncio la ferita del vivere non potrebbe conoscere altre risposte rispetto all’alternativa più volte emersa in queste riflessioni: la superficialità gaudente, che accarezza l’illusione di fare della vita un grande gioco, o l’eroismo tragico, mai del tutto assicurato alla speranza di un compimento gioioso.
    Il Vangelo è buona notizia della prossimità di un eroismo possibile nella ferialità del vivere, eroismo non superficiale e scanzonato, bensì audace e profondo, capace di affondare le sue radici nella vita, senza falsarne il profilo drammatico.
    A quell’eroismo il Vangelo assicura speranza, perché è storia di Dio che libera la libertà ferita dalla paralisi dei suoi errori, altrimenti irreparabili nella loro serietà.
    Il Vangelo allora non diventa mai un gioco e, a proprio modo, non smette mai di essere un giogo, come ricorda la severa dolcezza dell’invito del Nazareno:
    «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete su di voi il mio giogo e imparate da me, perché io sono mansueto e umile di cuore; e voi troverete riposo alle anime vostre; poiché il mio giogo è dolce e il mio carico è leggero» (Mt 11, 18-30).
    Fuori dal giogo evangelico, esigente nella sua soavità, la libertà non è semplicemente ribelle, ma suicida, perché artefice di un drammatico rifiuto: quello della propria gioia.
    Nonostante il luminoso esempio del Figlio di Dio, che non considera l’umiltà della misura umana un diaframma alla propria grandezza ma il suo capolavoro compiuto, la libertà malata dell’uomo è tentata di dubitare del dono inscritto nella propria misura e di sottrarsi al compito affascinante di educare il cuore a contatto con il proprio mistero ed il mistero del mondo.
    Le vie della gioia sfuggono però ai brancolamenti dell’uomo ostile alla propria finitudine e ingrato rispetto al dono in essa ricevuto; e solo la guarigione dall’orgoglio può riaccendere lo sguardo del cuore in un ultimo, sorprendente capolavoro della fantasiosa tenerezza di Dio.

    Odiarsi è più facile di quanto si creda.
    La grazia è dimenticarsi.
    Ma se in noi ogni orgoglio fosse morto,
    la grazia delle grazie sarebbe
    di amarsi umilmente,
    come uno qualsiasi delle membra
    sofferenti di Gesù Cristo.[10]

    Dunque?

    Non si può riflettere sulla libertà senza rimanere sorpresi della sua grandezza, del suo limite, della sua serietà.
    La sua grandezza può portare l’uomo ad illudersi del proprio potere, sino a considerarsi un dio.
    Il suo limite motiva non di rado il risentimento, il sospetto del cuore circa il carattere beffardo dell’esistere, breve parentesi di libertà cui sembrerebbe negato il potere di decidere della propria apertura e della propria chiusura. Ma è la serietà della libertà a sconcertare profondamente il cuore e l’intelligenza dell’uomo: tanto efficace è il suo creare quanto irreparabile è il suo distruggere.
    Verrebbe allora da dire che a non essere in potere della libertà è proprio il suo potere.
    Questa evidenza non conduce però a riconoscere, nella serietà del libero volere, un dono non minacciato bensì custodito dalla Trascendenza della propria origine?
    E non conferma allora la dignità dell’umana libertà, la sua attesa di una liberazione che non sia di questo mondo?
    Se così fosse, solo gratitudine infinita dovrebbe suscitare la buona notizia della Libertà di Dio che, ostinatamente, dopo averla creata per Amore, nell’Amore riscatta dai suoi fallimenti la libertà finita, sigillando col Suo Sangue la preziosità incancellabile della sua unicità e della sua misura.


    NOTE

    [1] E.M. Cioran, Quaderni 1957-1972, Adelphi, Milano 2001, 17.
    [2] Il pensiero di Emile Michel Cioran (Răşinari 1911 – Parigi 1995), a giudicare dal moltiplicarsi di edizioni e traduzioni delle sue opere e di studi che le esplorano, sta conoscendo un crescente interesse. Anticonformista, indifferente nella sua scrittura a qualsiasi vincolo sistematico o progetto ideologico o di scuola, Cioran cerca nella prosa filosofica una via d’espressione e di elaborazione sopportabile del travaglio assurdo dell’esistere.
    [3] E.M. Cioran, Lacrime e santi, Adelphi, Milano 1990, 24.
    [4] La poesia dialettale di Trilussa – pseudonimo di Alberto Salustri (Roma 1871-1850) – con la sua nota vena satirica manifesta una singolare capacità di ritrarre le consuetudini ed i frangenti ordinari dell’esistenza umana, colpendo in essi il miscuglio di aspirazioni improbabili e meschinità malcelate. Per questo la finezza letteraria dei versi di Trilussa non diluisce ma accentua, anche nella sua modulazione ironica, la verità amara dell’esistere, quando esso si consuma negli orizzonti di un’umanità troppo umana per aspirare a qualche credibile riscatto.
    [5] Trilussa, L’incontentabbilità, in Poesie scelte (Oscar Mondadori 1131), 2 voll., Mondadori, Milano 1969, qui I, 229.
    [6] Dante, Paradiso, XXXIII, 18.
    [7] E.M. Cioran, Quaderni 1957-1972, 205.
    [8] A. Merini, Poema della croce, in Id., Mistica d’amore, Frassinelli, Milano 20083, 153-234, qui 203.
    [9] G. Bernanos, Journal d’un curè de campagne, citato in Id., Pensieri, parole e profezie..., 137.
    [10] G. Bernanos, Journal d’un curé de campagne, citato in Id., Pensieri, parole e profezie..., 137.


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