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    Il banchetto


    Educare a partire dagli ultimi

    Mariella Mentasti

    (NPG 2013-01-49)

    Il confine non è separazione, divisione,
    distinzione, rottura, barriera.
    Il confine è apertura, passaggio, contatto.
    È potersi guardare negli occhi
    È riconoscersi e scambiarsi
    un pezzo di pane.
    Il confine è un io che diventa noi
    È un noi che abbatte il confine.

    Poi (il re) disse ai suoi servi:
    «Le nozze sono pronte, ma gli invitati non ne erano degni.
    Andate dunque agli incroci delle strade e chiamate alle nozze chiunque troverete».
    E quei servi, usciti per le strade, radunarono tutti coloro che trovarono cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali (Matteo 22, 8-10).

    Angela – febbraio 1506 [1]

    Mi mandasti a chiamare, Signore: «Sei invitata a nozze, stasera stessa, su, preparati, vestiti in fretta perché il banchetto è pronto!». Perché io, Signore? Nella mia vita non c’era nulla di straordinario da registrare, le mie mani erano vuote, il portamonete ancor di più, l’unico mantello della mia vita era logoro, consunto, rattoppato: i segni del tempo, le battaglie, i giorni e le notti di pioggia fredda e battente, i lunghi periodi all’arsura del sole lo avevano reso impresentabile. Come potevo recarmi così al banchetto? Sentivo già gli occhi della gente addosso: «Guardala lì! Le si legge la sua vita, su quel mantello! Strappi, macchie, intemperie, strada, polvere… non si viene così a un banchetto!» Ma soprattutto sentivo i tuoi occhi «La mia è la festa più bella del Regno e tu arrivi così? Dov’è il tuo abito nuziale?». Non l’avevo, io, l’abito nuziale. Era la prima volta che qualcuno mi invitava a un banchetto: il pane sì, l’ho sempre diviso con chi incontravo sulla mia strada e qualche volta si faceva festa insieme, se si aveva anche il vino, ma banchetti non ne avevo mai visti.
    La paura mi tratteneva: avrei potuto essere rifiutata, cacciata. Mi avrebbero fatto assaggiare la polvere e, forse, questa volta, non mi sarei più rialzata, sarei finita per sempre sotto lo sguardo indignato della gente, nelle tenebre del rifiuto.
    Qualcosa tuttavia mi spingeva ad andare: ben poche volte avevo ricevuto «inviti» e questo aveva un sapore speciale, sembrava un segno, un buon auspicio.
    Qualcosa mi diceva che Quel Signore mi conosceva, non mi aveva invitato a caso…
    Partii, dunque, dubbiosa e spaventata, col mio «mantello nuziale».
    Avevo fatto solo pochi passi quando incontrai una ragazza: non indossava che una veste troppo leggera per quei giorni ancora freddi di fine inverno. Le chiesi dove fosse diretta. Mi guardò dritta negli occhi: «Vado al banchetto, disse, io sono la sposa».
    Fui immediatamente mossa a compassione: «Certo non può essere la sposa, pensai, forse il gelo di questi giorni ha danneggiato il suo intelletto, ma certo, in queste condizioni, non arriverà mai al banchetto!».
    La presi sotto il mio mantello: era lacero ma grande e così percorremmo insieme tutta la strada. Lei mi parlava dello sposo: ne lodava la bellezza, la forza, il coraggio, la bontà. Io ascoltavo e, lungo la strada, mi convinsi che quello sposo, il suo sposo, non mi avrebbe mai cacciato.
    Giunte al luogo del banchetto, vidi il Signore attendere sulla soglia. Dentro la festa e il gaudio, fuori il freddo e il buio. La paura mi strinse ancora la gola e le viscere ma solo un attimo dopo lo vidi accorrere e abbracciarci.
    Strinse a sé la ragazza e, guardando il mio mantello, mi offrì il posto migliore. «Il tuo abito nuziale, disse, è candido, prezioso e bello perché ha accompagnato, riparato, riscaldato ciò che di più prezioso c’è ai miei occhi. Solo se condividi la strada e dividi il mantello avrai parte di me».

    Maurizio – maggio 2006

    Volevamo fare una grande, unica, memorabile festa. Avevamo addobbato il salone dell’oratorio, avevamo curato ogni particolare: festoni e palloncini decoravano il soffitto un po’ sporco e affumicato della grande sala; poster vivaci abbellivano le pareti, lanterne cinesi liberavano dal grigiume qualsiasi cosa fosse a «tiro» della loro luce dai colori cangianti. Tutto era pronto: casse, ampli, pile di cd., dj professionista, carrellata di gruppi locali, tecnici luci e del suono, mixer. Perfetto, non mancava nulla.
    Era la festa dei diciotto anni, terza edizione, dopo due anni di grande successo. L’avevamo organizzata noi, ragazzi ventenni, dopo quel famoso sabato dei miei diciotto anni, età di confine, dicono, un improbabile passaggio verso l’età della coscienza.
    Invece… : «Il concerto di Vasco è stato posticipato di un giorno per cause di forza maggiore: problemi tecnici che richiedono un intervento specialistico!». Spostato di un giorno, nel nostro sabato. Il concerto di Vasco in concomitanza a due kilometri di distanza. Concorrenza sleale.
    Era troppo tardi per disdire tutto: accordi con il dj, i gruppi, i tecnici… si fa lo stesso! Tappezziamo il quartiere, chi vuol venire viene: giovani o anziani, metallari e amanti del liscio, beatlesiani e patiti del jazz, fanatici del pop e, perchè no, quelli che… solo musica classica! Comunque vada, sarà un successo, ci dicevamo.
    E così fu: la sala piena, colorata e varia, caos. Sedie per gli anziani, tavoli per i ragazzi, liste infinite di richieste, il dj impazzito…
    In un attimo di caos calmo, girai lo sguardo verso l’ingresso. Un uomo stava sulla soglia in punta di piedi; un viso contratto come se il suo corpo fosse devastato da cento ferite, come se la sofferenza fosse compressa nel suo cuore senza possibilità di condividerla, senza che qualcuno potesse raccogliere i frammenti del suo dolore. Nei suoi occhi c’era la paura: di essere cacciato, rifiutato, non accolto, indagato, denudato. Si guardava intorno: l’ambiente, l’arredo, noi, la gente. Nessuno dava segno di conoscerlo, nessuno si interessava particolarmente a lui. Non era sicuro di fidarsi, forse, pensai, era avvezzo alle umiliazioni; non avrebbe retto all’ennesimo rifiuto. Lo guardai, e il mio sguardo s’incrociò con il suo: un sorriso, un segnale; una rapida occhiata al dentro e al fuori, al fuori e al dentro. Io mi avvicinai, mi feci ospitare sulla soglia, sul limite tra il certo e l’incerto, sul confine tra il passato e il presente/futuro.
    Maurizio, questo era il suo nome, non aveva casa: non poteva abitare né ospitare qualcuno, non poteva trovare riposo, non poteva ri-tornare, nessuno l’aspettava. Maurizio beveva: me ne accorsi dall’alito, da quell’odore inconfondibile per chi nella sua vita ha avuto in qualche modo a che fare con persone avvezze all’alcol. Sentii, nel suo ritrarsi, la sua vergogna. Gli occhi erano abbassati, era difficile il contatto; gli sfiorai il braccio, lo invitai con delicatezza, sorrisi. Doveva superare il confine della paura, della vergogna, del giudizio. Entrò, si sedette in un angolo tranquillo e cominciò a parlare. «Mio padre era alcolista, ha distrutto mia madre e me. Mia madre se n’è andata, io sono rimasto a lottare finché ho potuto, a resistere finché le barricate che mi ero costruito hanno ceduto e ho perso me stesso. Ho avuto una donna, l’ho distrutta anch’io e se n’è andata ma figli no, non ne ho voluti, non avrei potuto reggere la loro sofferenza. Da bambino avrei voluto fare il musicista. Prendevo tutti i miei giochi, tutto ciò che avevo. Quelli rotti dalla furia di mio padre, quelli che mi passavano i miei cugini, e li schieravo davanti a me, a semicerchio, poi con una bacchetta in mano improvvisavo un’orchestra silenziosa ma la musica, quella sì, me la sentivo dentro ed era bella, era una melodia dolce e allegra, come avrei voluto fosse la mia vita».
    Ero lì, seduta accanto a lui, l’ascoltavo, pareva di sentirla anche a me, quella musica. Avrei voluto fargli tante domande ma i suoi occhi mi trattennero: le domande possono penetrare in una vita e trafiggere come lance, possono indagare senza pudore, come sguardi indiscreti. Mi alzai, abbandonai la curiosità invadente, presi un cd e chiesi di trasmetterlo. Era la «Sinfonia dei giocattoli» di Haydn. Improv­vi­samente si fece silenzio nella sala. Un silenzio leggero e rispettoso. Un silenzio di paziente attesa. Qualcosa, si respirava nell’aria, sarebbe dovuta accadere. Maurizio si rifugiò in un ascolto estatico, poi mi guardò, sorrise e disse: «È proprio questa la mia musica! Allora… si può fare!». Uno scroscio di applausi ruppe il muro del suono. Maurizio ballò tutta la sera: tutti vollero avere l’onore di un «giro di bambola» oltre il confine del tempo.
    Quando la festa finì chiese un abito nuovo e, con esso, volò verso un futuro migliore.

    Giugno 2012

    Bussano alla porta, chiedono di me.
    Maurizio, o la sua bella copia, si ferma sulla soglia e mi saluta. Ripiegato con grande cura sull’avambraccio sinistro, noto un vestito nuovo dalla foggia elegante; nella mano destra stringe un biglietto. Guardandomi negli occhi, sorride e me lo porge: è l’invito al suo banchetto di nozze.
    La bomboniera? Il cd della Sinfonia dei giocattoli.

    [1] Racconto ispirato ai pellegrinaggi di Sant’Angela Merici.


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