Pierangelo Sequeri
(NPG 2013-07-79)
L’uomo non può non cercare la felicità in una risposta positiva che viene come grazia, ovvero come dono più grande di quanto si possa immaginare.
Tutto il gran parlare che si fa della ricerca della felicità, lo confesso, mi mette un po' di malinconia. La seriosità della sua prescrizione – politica, bioetica, biochimica – le toglie il sorriso, ne spegne il profumo. Tanto la sua indifesa fragilità mi intenerisce, quanto gli animosi consulti terapeutici intorno al suo capezzale mi infastidiscono. Tanto mi appaiono fascinose le sue rapide incursioni nella vita dell'uomo, della donna, del bambino (e qui tutti hanno qualche esempio pronto, ne sono sicuro), quanto la sua puntigliosa programmazione (virtuosa o virtuosistica che sia) mi induce il sospetto che non sia più di lei che stiamo parlando. Il bello della felicità deve sempre ancora venire. Essa sfugge all'ossessione della sua conquista. L'angoscia di perderla l'ha già persa. Capisco che qualche analista volonteroso potrebbe inarcare il sopracciglio: e sono pronto a prendermi le mie responsabilità. Vorrei almeno spiegarmi.
Non ho in mente nulla che vada dalla parte dell'attimo fuggente, o dove ti porti il cuore. (Nulla neppure in contrario, di per sé. Si deve solo fare molta attenzione, perché anche la malinconia, quella snervante e senza rimedio, percorre la stessa corsia: un attimo di distrazione e ce l'hai nella fiancata). Mi pare però essenziale riconoscere che nella felicità autentica c'è qualcosa di essenziale che deve assomigliare alla grazia o al dono: ed è questo che fa la differenza. La felicità è l'irradiazione di una riuscita intimità con qualcosa di insperabilmente giusto e di segretamente atteso, a dispetto di tutto. La felicità non è semplicemente il benessere, ma neppure il bene. La felicità è il bene come ha da essere: bello. La felicità è grazia, non natura o destino. È la vita restituita alla certezza di una promessa che può e deve essere onorata, per noi, soprattutto custodendola contro ogni disperato avvilimento. Non è neppure ornamento e arredo: un semplice abbellimento estetico dell'esistenza, un'evasione fortuita dalla routine, non sono ancora niente. La felicità deve portare nel suo stesso godimento la forma della gratuità riconoscente, ispirare gratitudine proprio nella sua inafferrabilità, custodire la libertà anche dalla ripetizione coatta del godimento. Sempre essa deve accadere – finché c'è un alito di vita e anche per tutta l'eternità – come un inatteso trasalimento. Che sorprende il volere, il potere, il desiderare persino. Per come la vedo io, insomma, «attesa» è parola definitivamente giusta per la felicità.
Seguendo il filo di questi pensieri, mi pare che l'attesa della felicità – ogni momento e sempre, nel piccolo frammento del quotidiano e fino all'ultimo respiro vissuto – possa ridiventare socialmente comprensiva. La sola ricerca della felicità, irresistibilmente narcisistica, divide e distrugge. Finisce per essere ottusamente inospitale, ignara dell'impotenza altrui, insensibile al ritardo di molti cammini difficili. L'attesa della felicità ci riunisce comunque. Ci rende lieti del suo passaggio, ma anche complici della sua comune speranza. Ne esce fuori un'altra verità profonda dell'umano desiderare. L'infelicità irrimediabile, quella che nessuna certezza del godimento potrebbe colmare, non è forse la brutale scissione di ogni affettuoso legame?
Non è questa l'evidenza tragica di ciò che nella prospettiva della malattia e della morte ci è più duro sopportare? L'attesa della felicità è sempre l'attesa di legami umani che rendano riconoscibile alla vita la sua destinazione e il suo appagamento. È per questo che, già ora e sempre, la felicità non è compiuta se non è anche la gioia condivisa di qualche legame. Nella consolazione di qualche legame che rimane fedele, anche l'attesa più dura e più improbabile non è senza il profumo di quella misteriosa promessa che la felicità contiene.
La parola cristiana sul Dio della risurrezione dei morti vale esattamente quanto vale la speranza contro la morte che essa è in grado di suscitare nei legami dell'intera creazione. Nel giorno che deve venire, precisamente questo ci verrà domandato. Non quanta ne abbiamo predicata, ma con chi ne abbiamo sostenuto l'attesa.
(da Avvenire)