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    Dalla fiducia all'amore. Le sette immagini del sentimento


    Un percorso psicologico e spirituale verso la «statura della pienezza di Cristo»

    Rocco Quaglia *

    (NPG 2013-03-06)


    Preambolo

    «Abbiate fra voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» [Fil 2, 5], è l’invito a sentire nei rapporti umani quel che Gesù sentiva. Tra tutte le esortazioni rivolte ai cristiani, questa è sicuramente la più impegnativa. Non si tratta, infatti, di comprendere un concetto, o una dottrina, ma di vivere la qualità del sentimento dell’uomo dei Vangeli. Qual era il sentire di Gesù, e in quale modo potremmo farlo nostro? Per quanto la mente possa identificare e significare i sentimenti, pure non ha la capacità di comunicare le loro qualità. Non è facile, dunque, avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù, eppure, com’è scritto nell’enciclica Deus caritas est: «Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi». Ne consegue che, se i sentimenti sono inimitabili, devono necessariamente “maturare” in noi.
    La Parola, d’altronde, ci invita non ad imitare, ma a far emergere in noi il sentimento per eccellenza di Gesù, ossia l'umiltà. Un tale sentimento rappresenta l’apice dello sviluppo del nostro sentire, la cui direzione evolutiva va da un alto sentire di sé [senso dell’onnipotenza infantile] ad un basso sentire di sé [proprio della maturità psichica e spirituale dell’uomo]. In altre parole, il bambino nasce con un sentire biologicamente predeterminato, che, in un ambiente favorevole, matura in una successione di trasformazioni [forme o immagini del sentimento], ciascuna delle quali riflette un diverso modo di sentire sé, gli altri, la vita, il mondo, e ispira un diverso rapporto tra l’individuo e l’ambiente.
    Condizione essenziale, pertanto, per realizzare il sentimento di Gesù è giungere «all’uomo perfetto, all’altezza della statura della pienezza di Cristo» [Ef 4, 13]. Vi è dunque uno sviluppo dell’uomo che ha come meta la figura di Gesù, figura «senza forma né bellezza» [Is 52, 2], o anche «informe e vuota» (Gen 1, 2), figura di terra umile, alla quale si perviene alla fine di uno sviluppo che coinvolge l’essere umano nelle sue tre dimensioni: somatica, psichica e spirituale [1Tes 5, 23].
    Difficile identificare la dimensione dello spirito, che tuttavia fu dallo stesso Freud postulata. Scrive, infatti: «In un certo momento le proprietà della vita furono suscitate nella materia inanimata dall’azione di una forza che ci è ancora completamente ignota» [Freud, 1920, tr. it. p. 249]. Nella Parola di Dio, lo Spirito è la forza che nell’uomo fa maturare i frutti del sentimento [Gal 5, 22]. D’altronde a differenziare la “materia inanimata” da quella “animata” è la capacità della sensibilità.
    Ora, il sentire umile di sé è la condizione per accogliere ogni altro sentire dell’altro, nelle diverse forme, bonificarlo e restituirlo conforme al proprio livello di sviluppo. L’umiltà è lo stato mentale di cui il lattante ha bisogno e che Bion designa come rêverie. La madre è l’humus che accoglie i sentimenti del neonato dando loro un senso [Bion, 1962]. Questo è anche il lavoro che compie una madre definita da Winnicott «sufficientemente buona» [Winnicott, 1987].
    L’umile è colui che ha subito un’opera di svuotamento di sé; in altri termini, ha ristabilito il suo vero Sé. Egli vive l’ordinario della vita, entra nella natura delle cose, in quel che è scontato, prevedibile, semplice come guardare o udire. L’umiltà è il sentimento che non si sente, perché è il sentimento stesso della vita nel suo farsi. Vi è dunque un cammino da fare, che è insieme somatico, psichico e spirituale.
    In psicologia dello sviluppo costituiscono oggetto di studio i processi di pensiero [Piaget, 1964], oppure le vicissitudini dell’energia sessuale [Freud, 1905], o la formazione di una identità psichica e sociale [Erikson, 1963]. Di volta in volta, l’accento è messo sul progredire verso un particolare modo di pensare, o sull’espressione di una sessualità matura, o ancora sulla formazione di un’identità che dia alla personalità un senso di coesione e d’integrità. Non esiste, tuttavia, alcuna teoria che consideri, tra i vari aspetti della personalità, l’area comportamentale del sentimento, i suoi meccanismi evolutivi, la direzione e l’essenza del suo sviluppo.
    Il neonato, lungi dall’essere «un pezzo di carne vivo che si divincola», per usare le parole del padre del Comportamentismo Watson [1924], inizia la sua storia psicologica come un organismo dotato di precise competenze, con un ricco repertorio di capacità specializzate, ossia sensoriali, percettive, comportamentali, di apprendimento, in virtù delle quali interagisce attivamente con i molteplici aspetti dell’ambiente. All’inizio, il bambino per il bambino non è una realtà psicologica, ma una qualità, la stessa qualità che si sprigiona nei vari contatti con la madre. Il bambino nasce con la predisposizione a sentirsi entro una precisa gamma di modulazioni affettive, di sotto alle quali non si percepisce, e sopra le quali percepisce una sensazione “straniera”, avvertita come non propria. In altre parole, tra l’amaro fiele e l’acqua insapore vi è il gusto dolce del latte, tra il silenzio e le grida c’è la voce del canto, tra il buio e l’abbacinamento vi sono i colori, ecc. Una madre che risponde secondo le attese del bambino, gli consente di entrare in relazione con se stesso, di ritrovarsi, di conoscersi e di provare piacere nel sentirsi. Tra madre e bambino si stabilisce un consenso, ossia un “comune sentire”, che costituisce la prima condizione di “senso”. Quando gli stimoli sono insufficienti e poveri, invece, il bambino ha difficoltà a raggiungere un livello di esperienza di sé, restando in una condizione di non senso. Nel caso in cui le risposte materne sono discordanti dalle domande del bambino, ossia quando gli stimoli sono eccessivi per quantità o qualità, si crea una condizione di dissenso tra la tensione ad essere del bambino e la realtà del suo essere. Nel “dissenso” il bambino non si riconosce, e una sensazione “estranea” può impadronirsi di lui e invaderlo. Uno scarto può così formarsi tra la tensione a sentirsi e la realtà, talora povera, talora sovreccitante, dell’essere. L’incapacità di ritrovarsi e riconoscersi adeguatamente è indice, in età adulta, di un grave sintomo di incipiente psicosi. Per ritrovare se stesso, dunque, il bambino, nei primi mesi di vita, deve ricevere dall’esterno la risposta che appaga nel giusto modo la sua richiesta ad essere. In seguito egli stesso stimolerà attivamente l’ambiente, interagendo, giocando, curiosando e fantasticando.
    Dobbiamo postulare, pertanto, un luogo di esperienza nel quale il neonato diventa se stesso: tale luogo, in un’ideale condizione di consenso, si trova nei punti di contatto con la madre, precisamente tra il seno e la bocca, tra la mano della madre e la pelle del bambino, nell’incrocio degli sguardi. Questi punti sono vere sinapsi affettive. Impossibile verificare l’esistenza o le caratteristiche di un luogo psichico, ma senza un tale postulato diventa impossibile giustificare la nascita della consapevolezza di sé nel bambino. Senza dubbio, il luogo nel quale il neonato incontra in modo pieno se stesso si configura nel momento dell’allattamento. Qui, il bambino può pienamente ritrovarsi e fare la sua più autentica esperienza. Sente il proprio sapore che lo inonda di piacevolezza. La sua bocca conosce il capezzolo da sempre, e nel momento in cui lo stringe con la bocca per la prima volta lo ritrova. Le sue pupille gustative riconoscono il gusto del latte: il bambino sa da sempre di quella gradevolezza. Ogni altro latte sarà di sotto le sue attese e lo sazierà senza mai sfamarlo affettivamente. Sono queste le premesse di una personalità mai soddisfatta, bramosa di un appagamento impossibile.
    Il bambino non si nutre di latte, ma di bontà, ed è primariamente informato, ossia formato dentro, da questa bontà, calda e dolce. Persiste in ogni individuo adulto questa radice che, pur in avverse circostanze, conserva il buon sentimento di sé. Questo antico sapore alimenta il sápere di se stessi, avvertito anche come valore della propria persona. Colui che non ha più il gusto di vivere, in realtà ha perduto il senso della propria bontà. Al seno il bambino è presente con tutti i suoi sensi e in ognuno (nella carezza, nella voce, nello sguardo) egli trova la stessa dolcezza del gusto. In altre parole, il senso del bambino è integrato.
    Winnicott [1987] afferma che nello sguardo della madre, il bambino vede se stesso. Non vede la sua immagine, ma sente quel che lui è per la madre, come un innamorato che si ritrova nei contatti, nelle parole, negli sguardi dell’innamorata. La madre testimonia con il suo essere quel che il bambino è per lei. Negli occhi della madre dunque l’essere che, fino a quel momento si sentiva buono, comincia a vedersi, e il buono del gusto trasferito a livello visivo si trasforma nel sentimento del bello. Cosa è dunque avvenuto nel bambino nei suoi primi mesi di vita? La madre nel presentare al suo bambino sempre lo stesso bambino, consentendogli ogni volta di ritrovarsi in un sentimento sempre identico di bontà, lo aiuta ad identificarsi in una primitiva immagine affettiva, puntualmente ritrovata nello sguardo materno. Nella risposta del sorriso ai volti umani s’inaugura la nascita del sentimento della fiducia. In caso contrario, il bambino non integrato si dissipa in una molteplicità di sensazioni frastornanti e disordinate, andando incontro ad un’inibizione o ad un disorientamento dello sviluppo.


    1. LA PRIMA IMMAGINE: LA FIDUCIA

    Dimensione psichica

    Cosa sappiamo della fiducia? Nulla! Sappiamo soltanto che è una condizione affettiva confortante, nella quale il soggetto vive l’ambiente che lo circonda come affidabile e ben disposto nei suoi confronti. L’acquisizione di uno stato di fiducia, pertanto, infonde sicurezza al soggetto, influenzando i suoi comportamenti in modo corretto. A determinare un tale stato sono le prime esperienze che il bambino compie, in particolare, nell’ambito delle cure che riceve dalla figura materna.
    Per Erikson la fiducia nel neonato nasce dalla «esperienza dell’accordo tra le proprie esigenze e la previdenza materna» [Erikson, 1963, tr. it. p. 231]. L’assenza di fiducia comporta uno stato di schizofrenia infantile; una tal assenza è riscontrabile anche in età adulta, e si esprime con una personalità a carattere schizoide e depresso. Primo compito delle cure materne, per Erikson, è dunque aiutare il bambino a sviluppare un fondamentale senso di fiducia capace di alleviare i momenti di malessere che generano un fondamentale senso di sfiducia.
    La fiducia, o fede, non è un sentimento magico, ma è la prima forma assunta dal sentire dell’essere bambino mediante la madre. Nell’esperienza ripetuta dell’accordo tra la domanda del bambino di essere e la risposta di una madre riflettente, il bambino gradualmente impara a riconoscersi in una forma di benessere, con riferimento ad una precisa connotazione affettiva. Il primitivo senso di fiducia nasce dunque «nel ritrovamento di sé», dopo ogni situazione di malessere. In uno stato di fiducia, il malessere è gradualmente percepito come passeggero, e il benessere come un traguardo.
    Il bambino non sviluppa, quindi, fiducia nell’altro in quanto attendibile per eliminare il suo malessere, e neppure sviluppa fiducia in se stesso, considerandosi affidabile per l’altro, ma, attraverso le adeguate “risposte” offerte dall’ambiente, acquisisce il primo sapere, o senso di Sé, nel quale si riconosce in un sentimento sufficientemente “buono”.
    In breve, la fiducia nasce dal rinnovarsi nel bambino di una forma specifica del sentimento, attraverso il con-senso con la figura accudente; in altre parole, il “consenso” è la condivisione di uno stato di bene-essere, in cui uno sta bene con se stesso soltanto attraverso lo stare bene con l’altro. Una madre che sorride e gioca con il suo bambino lo aiuta a ritrovarsi in una situazione di consenso.
    Quel che accade nel primo anno di vita, tra madre e bambino, è di primaria importanza. Ora, il bambino è naturalmente predisposto all’esperienza della fiducia, ma spetta alla madre saper riflettere, come uno specchio, la “bontà” del bambino. Nello sguardo della madre il “buono” dunque si trasforma in “bello”, o, meglio, la dolcezza del latte in dolcezza dello sguardo. Nel dialogo del sorriso, che avviene nello “sguardo”, o specchio materno, c’è molto di più di una risposta ad uno stimolo [Spitz, 1958] o di un comportamento selezionato in vista della sopravvivenza [Bowlby, 1969], c’è un bambino che gioca a “nascondino”, meglio a ritrovarsi. Il bambino giunge a sviluppare un senso di Sé in quanto ha imparato a ritrovarsi nei contatti con una madre accudente. La fiducia s’instaura con la permanenza di un sapere affettivo buono di sé anche in situazioni di malessere.
    Il sentimento della fiducia è dunque la “spianata” sulla quale diventa possibile edificare la personalità del bambino. Nella fiducia di ritrovarsi nel proprio essere vi è la base del senso di identità e del senso di continuità. La fiducia non s’insegna, non è una dottrina, e non si apprende, non è una nozione, ma è un sentimento che si attiva e si sente nei comportamenti di attaccamento. In generale, un atteggiamento di fiducia si esprime in apertura verso il mondo esterno e nella disponibilità nei confronti degli altri. In breve, l’uomo che ha fiducia «non sospetta il male».
    Quando il bambino affronta gli inizi della vita in circostanze non favorevoli, è la diffidenza ad avere il sopravvento sui suoi comportamenti. Il sentimento di non avere egli un senso, ossia una direzione di vita e un significato, tende ad accompagnarlo per tutta la sua esistenza. La sua vita psichica è segnata da un senso di intima divisione e di definitiva perdita. Le attese presenti alla nascita restano vive, in una realtà che non ha più risposte: in questa condizione di abbandono e di nostalgia per qualcosa che non c’è mai stato si sviluppano i deliri, ultimo schermo fantastico sospeso su un vuoto che non può essere colmato.
    La fede è radicata nell’essere del bambino che, nel malessere, ha come meta il ritrovarsi, e nel benessere ha come meta la felicità. La prima fede del bambino è dunque nel proprio senso del suo essere nel mondo.

    Dimensione spirituale

    La fiducia non è soltanto la base indispensabile dello sviluppo somatico e psichico del bambino, ma è anche la condizione che infonde vita al nostro essere spirituale. L’intero cammino umano va dall’essere senza tempo all’io sono qui ed ora: l’io sono è la forma più elevata della coscienza dell’essere. Ora nella fiducia si origina la prima coscienza o consapevolezza di essere. La fiducia sul piano psichico ha bisogno, ad ogni età, del sostegno dell’altro, ossia della madre, del coniuge, dei figli. Quando l’altro viene meno, anche la nostra fiducia vacilla. La fiducia sul piano psichico è sconfitta dall’abbandono e dalla morte dell’altro. Vediamo ora come si genera e sviluppa la fiducia o fede a livello dello spirito. Cosa intendo per spirito? Intendo quello che la Parola di Dio suggerisce, la Forza [El] che genera il respiro in ogni essere vivente, o quel Principio di Vita, di origine sconosciuta, capace di mettere la materia in contatto con se stessa mediante la capacità di sentire.
    Scopo dello scritto è dimostrare l’esistenza di un «parallelismo» tra la nascita della fiducia del bambino sul piano psichico e la nascita della fede sul piano spirituale. Da un punto di vista psichico, il bambino “muore” ogni volta che smarrisce il proprio senso in una situazione di malessere. Nel rinnovamento del benessere, invece, prende forma il senso di sé “vittorioso” e una relazione rassicurante con questo sé.
    L’esperienza del proprio smarrimento, o perdita di sé, diventa condizione indispensabile anche sul piano spirituale per giungere alla fede. Nello smarrimento vi è perdita di un contatto, o discontinuità del senso di essere. Nasciamo con il senso dell’eternità [Ec 3, 11]; infatti, per l’inconscio non esiste il tempo [Freud, 1915]. Sul piano spirituale dunque ritroviamo un analogo alternarsi di situazioni di essere e di non essere, in cui ritroviamo e perdiamo il nostro senso di essere. Senza fiducia la nostra psiche si atrofizza e muore, così avviene anche sul piano spirituale: senza fede nella vita, questa si ripiega su se stessa e l’individuo diventa affettivamente un buco nero, con un bisogno avido di sentirsi in tutte le sensazioni senza mai trovare appagamento. Il suo spirito può maniacalmente sentirsi un dio, oppure cadere nella depressione, che prima di essere un male psichico è un male spirituale. Fede è innanzi tutto fiducia nella vita che si vive, come il neonato che sviluppa fiducia nel suo sé che sempre si rinnova, pur senza sapere nulla della persona della madre. In un secondo tempo, nasce la fiducia in un Essere provvido verso di noi, nel quale ci specchiamo, come il bambino si specchia nello sguardo della madre.
    È necessario chiarire, ancora una volta, che la fiducia sul piano psichico è fede nel senso di un sé buono, non nella persona della madre; così sul piano spirituale, la fede si esprime non nel credere all’esistenza di un Dio, ma nella relazione con un Dio che ci guarda e ha cura di noi. La fede che guarisce e fa crescere nasce, dunque, da un incontro con un Dio che ci guarda con benevolenza, comunicando bontà. In breve, la fede è non nella nostra bontà, ma in quella che Dio vede in noi. «E Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco, era molto buono» [Gen 1, 31]. Vedersi in Dio, in Colui che è, segna il principio della fede.
    Adamo ed Eva non possedevano fede alcuna; la fede infatti nasce dopo un’esperienza di morte, ossia di separazione dalla Vita. Soltanto dopo aver conosciuto l’angoscia della propria mortalità, Adamo chiamerà Eva con il nome di Vita.
    C’è dunque un momento favorevole, un kairós, come era chiamato dai greci, per incontrare Dio, ed è precisamente quello il momento in cui Dio volge verso di noi il suo sguardo. A noi è data la libertà di guardare a nostra volta, superando il terrore di scorgervi la nostra “brutta” immagine.

    L’Essere ti benedica e ti guardi!
    Ti faccia luce il volto dell’Essere e ti sia bello!
    Elevi L’Essere il suo volto a te, e ti rallegri la pace
    (Num 6, 24-26).

    Il passo riportato è la benedizione con la quale Aronne e i suoi figli dovevano benedire i figli d’Israele. È una benedizione impartita ancora oggi dai Cohanim.
    È un evento di suono e di luce, che per un attimo ci rende presenti a noi stessi nella dimensione dell’Essere. Nella benedizione vi è la voce che richiama la nostra attenzione, e nello sguardo vi è la luce che illumina. La luce che risplende nell’uomo è l’immediata consapevolezza di essere, e di essere una cosa buona. «Ci sono!», questa è la scoperta! «Sono io e non un altro!», «Sono qui e sono ora», vale a dire nel principio di una nuova coscienza, in cui tutto è dono e tutto è buono in questo esser-ci. Non si tratta di una consapevolezza di Sé, ma della consapevolezza di un luogo nel quale si è, e questo luogo è la creazione. La luce che illumina l’uomo ci rivela di essere creature nella creazione. È scritto «In principio Dio creò i cieli e la terra. E la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la superficie dell’abisso» [Gen 1, 1]. La creazione avviene nelle tenebre, e tutto appare disordine e desolazione per chi è nelle tenebre. Se desideriamo vedere l’ordine e l’opera che Dio compie nella sua creazione dobbiamo ricevere la sua luce. Finché Dio non dice: «Sia la luce!», la creazione resta chiusa ai nostri sguardi. Solo con la fede il creato si squaderna, giorno dopo giorno, in una successione di rivelazioni, e noi possiamo vedere tutte le sue meraviglie. In quella luce mi conosco come sono stato conosciuto, vale a dire senza la falsa coscienza della colpa, del peccato, dei difetti, poiché un “sapere” si sprigiona da quella luce da oscurare per sempre ogni macchia. Come il bambino si ritrova nelle braccia della madre, così il rinato spiritualmente si ritrova nel creato e scopre di esser-ci.
    L’Esser-ci del “ci sono” è il momento della fede: nello sguardo di Dio per fede possiamo contemplare tutta la sua opera di cui siamo parte. Non vi è ragione umana che spieghi il mio esserci, nessuna intelligenza può comprendere, nessuna scienza può spiegare. Ci sono è la grande meraviglia della fede.
    «Io ti loderò, – esclama il salmista – Signore, perché sono stato fatto in modo meraviglioso, stupendo. Meravigliose sono le tue opere, e l’anima mia lo sa molto bene» [Sal 139, 14].
    Il sentimento della fede nasce, dunque, dalla visione di un mondo “molto buono”, provvido e pieno di bellezza, accompagnato da una sensazione di protezione e di sicurezza. La Vita ha pensato dall’eternità a noi, ci ha concepito e fatto nascere; pertanto, continuerà a pensare a noi fino il giorno della morte e oltre la morte, poiché «ogni cosa coopera al bene di quelli che amano la Vita» [Rom 8, 28].
    Gesù: «guardandolo intensamente, lo amò» [Mc 10, 21]. Il verbo greco utilizzato letteralmente vuol dire “guardare dentro”. Se il giovane fosse entrato in questo sguardo, avrebbe visto, e si sarebbe innamorato di quel che Gesù vide. Nello sguardo di Gesù diventiamo simili a quel che vediamo.
    «Amati, - scrive Giovanni - ora siamo figli di Dio, e non è ancora reso manifesto quel che saremo. Sappiamo che quand’egli sarà manifestato saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» [1Gv 3, 2].

    2. LA SECONDA IMMAGINE: LA SPERANZA

    Dimensione psichica

    Il sentimento della fiducia emerge dal senso del benessere: un senso interiore di bontà contemplata nello sguardo della madre. Questo primo senso forma una sorta di calco affettivo che qualifica il mondo interiore del bambino e caratterizza i suoi comportamenti manifesti. Il sentimento della speranza non è un nuovo senso, ma una parziale e particolare trasformazione del senso della fiducia.
    Per la psicologia, la speranza è un rivivere le opportunità di gratificazioni passate, proiettate nel futuro. Indicativa è la definizione che Minkowski formula della speranza, descrivendola come un modo di vivere e di ampliare il futuro.
    «Quando spero – scrive – attendo la realizzazione di quanto spero, vedo l’avvenire venire verso di me. La speranza va più lontano nell’avvenire dell’attesa… Liberato dalla morsa dell’avvenire immediato, vivo, nella speranza, un avvenire più lontano, più ampio, pieno di promesse» [Minkowski, 1971, p. 102].
    La speranza è, qui, legata all’idea di promessa, che non si esaurisce nell’appagamento di desideri specifici in un futuro immediato, ma va oltre, fino a creare un futuro immaginario e a confondersi con esso.
    Per Fromm, la speranza diventa addirittura l’aspetto dinamico della vita; senza speranza la vita ristagna e muore. Profetiche, oggi, appaiono le sue parole. Scrive:
    «Proprio perché gli uomini non possono vivere senza sperare, colui che ha perso la speranza completamente odia la vita. Dal momento che non può creare la vita, vuole distruggerla, e ciò è solo poco meno di un miracolo – ma molto più facile da eseguire. Egli vuole vendicarsi per la sua vita priva di vita, e lo fa lasciandosi prendere da una totale mania di distruzione, per cui poco importa se distrugge gli altri o se stesso» [Fromm, 1969, p. 27].
    Nel secondo anno di vita, un’importante rivoluzione avviene nel bambino nell’organizzazione dell’intera sua personalità. All’orizzonte dello spazio di vita del bambino appare un nuovo personaggio, il padre. Il bambino era cosciente della sua presenza, ma ora qualcosa è cambiato in questa figura, al punto da renderla insieme attraente e spiacevole. In una situazione ideale, il padre è, infatti, sia un limite per il bambino, sia un modello. Per tutto il primo anno di vita, il bambino è esistito nello spazio speculare materno, e ha fatto esperienza di sé e del mondo unicamente attraverso lo sguardo della madre. Il padre ha ora il compito di offrire al bambino un secondo sguardo di sé e del mondo; per fare questo deve creare una nuova e diversa relazione con il bambino, relazione che deve integrarsi e coordinarsi alla precedente. Non si tratta di una relazione sostitutiva a quella materna, ma di una relazione con caratteristiche e proprietà differenti. Il duplice rapporto, che il bambino instaura con i genitori, gli consente di formarsi una doppia immagine di sé e del mondo, come fossero le due immagini offerte dai nostri due occhi. Lo scarto esistente tra le due visioni degli occhi consente di avere il senso della profondità; similmente le due visioni di sé che il bambino riceve dai genitori generano in lui il senso del suo spessore psichico e del suo essere reale nel mondo. In questa operazione di distacco dalla madre, il bambino vive una nuova “uscita” da un’esistenza bidimensionale ad una tridimensionale, e quindi in una realtà con limiti e barriere.
    Senza il senso di fiducia, il bambino vive la pericolosità del suo ambiente, inibendo la sua curiosità e ogni comportamento esplorativo. L’ansia dei genitori inibisce progressivamente gli interessi e la vivacità del piccolo, che si isola progressivamente in una sorta di bozzolo mentale. Al contrario, un bambino, che sviluppa un sano senso di fiducia, esplora l’ambiente circostante e si apre a spazi non solo reali, ma anche ideali e fantastici. Madre e padre, infatti, pur guardando lo stesso bambino, idealmente lo collocano in due spazi mentali diversi. La madre, fin dal secondo anno di vita, comincia a raccontare al bambino del tempo in cui era più piccolo, per riportarlo alla fine del racconto al presente, rassicurandolo che il suo amore non è cambiato. Il bambino costruisce in questo modo il senso della sua continuità: in un mondo di eventi che si succedono, lui non cambia, poiché non cambia l’amore della mamma.
    Il bisogno di controllare gli eventi, fino a promuovere una personalità ossessiva, risiede infatti nell’inconscio timore di non ritrovarsi più, in un mondo che cambia.
    La madre, attualizzando il passato, ristabilisce la fiducia del bambino e lo restituisce al presente. Differente è il compito del padre, il quale per accogliere il figlio, deve creare uno spazio affinché possano ritrovarsi insieme: lo spazio è quello del gioco. Dapprima di movimento, il gioco si trasforma ben presto in un’attività fantastica e in seguito in un’avventura. Nel gioco, il padre eccita, stimola, entusiasma, ma anche suggestiona, turba, impressiona: nel gioco con il padre, è la presenza della madre a rassicurare il bambino.
    Il padre, diversamente dalla madre, non vede il bambino ma il figlio e idealmente lo proietta nel futuro, in un luogo nel quale faranno nuovi giochi che si chiameranno imprese. Il padre dà significato al presente in vista di un futuro da vivere insieme. Se la madre fornisce senso alla vita del bambino con riferimento alla bontà, il padre fornisce senso alla vita del figlio con riferimento alla direzione [il futuro] e ad una meta da raggiungere [l’altezza del padre]. Il padre introduce il figlio nella dimensione dell’avvenire, del non ancora. La madre ricorda un bambino, il padre fantastica con il figlio. La fiducia vissuta nella relazione con la madre si trasforma, nella relazione con il padre, in speranza. La speranza è dunque il sentimento della fiducia vissuto nella dimensione del tempo a venire, cioè il tempo della promessa, del patto, dell’impegno.
    La speranza è certezza della nostra fiducia, non l’espressione di un dubbio. Il senso dubitativo della speranza ha origine in una relazione povera tra il bambino e la figura paterna. Ogni rivolta verso il padre esprime la delusione mai superata per le promesse non mantenute. La speranza è dunque fede nel padre, nel futuro, soprattutto in un futuro che non finirà mai. Questo sentimento ci tutela dalla disperazione, anche se, come afferma Fromm, «nulla nasce durante la nostra vita» [Fromm, 1969, p. 17]. Si può sperare contro ogni speranza [Rom 4,18] perché la speranza non è nelle cose che si avverano, ma è nel sentimento che si prova, e questo sentimento non riposa nelle esperienze che si faranno ma in quelle già fatte. Se il padre non ha deluso il figlio, se lo ha accompagnato per mano e lo ha fatto crescere, nessuna delusione successiva potrà uccidere la sua speranza.
    Oggi, viviamo in una società senza padre, e i giovani, perduti i loro progetti, consumano con un sempre crescente senso di fame il presente. In assenza di sentimenti la psiche, per stimolarsi e sopravvivere, recupera le sensazioni precedenti la nascita di ogni affettività, sensazioni primordiali ed arcaiche della fase uterina. La scienza stessa, in quanto prodotto dell’uomo, ha perduto la sua visione del futuro, e propone una speranza che non va oltre il futuro prossimo.

    Dimensione spirituale

    La dimensione spirituale della speranza si apre analogamente a quella psichica con un incontro. Se la fede illumina la creazione di cui il soggetto è parte integrante, la speranza nasce con la conoscenza di un Dio personale nella veste di Padre. Il Dio della Bibbia è in primo luogo il Dio di qualcuno, in quanto Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Non si tratta di un dio generico che abita nei cieli ed emana proclami, ma è un Dio che diventa tale in quanto appartiene ad una persona. Subordina la sua esistenza e conoscenza ad una relazione affettiva: il Dio della Bibbia appartiene ad ogni uomo come un padre appartiene al proprio figlio, si tratta dunque di una reciproca appartenenza, in cui è possibile un dialogo, uno scambio e un patto.
    Il bambino per crescere richiede due relazioni parentali. La madre non ha promesse da fare al suo bambino, poiché ha in sé ogni appagamento ai suoi desideri. Il padre invece è il luogo del futuro, e il futuro è il luogo delle promesse. Il Dio della Bibbia è il Dio di Israele perché ha fatto al suo popolo una promessa. Ora cos’è la speranza se non fede nella promessa? Se la luce del primo giorno squarcia il velo delle tenebre [2Cor 4, 6], suscitando in noi il sentimento della fede nella bontà e nella bellezza del creato, soltanto, nel secondo giorno, la luce illumina il luogo della nostra promessa o destinazione, il cielo [Col 1, 5].
    La rivelazione di Dio come Padre non è un’acquisizione dell’intelletto, ma segna il passaggio ad un sentimento qualitativamente diverso dal primo. La fede afferma che la salvezza è per grazia, così è l’amore della mamma per il bambino. Il bambino, infatti, non deve fare nulla per meritare l’amore della mamma, che lo ama gratuitamente, dopo averlo partorito. Non così è il rapporto con il padre, il cui amore è condizionato dalla “somiglianza” che si ottiene con l’ubbidienza. Da precisare: il padre non ama di meno il figlio in caso di disubbidienza, ma il figlio per godere pienamente dell’amore del padre deve ubbidire, ossia essere come il padre lo vuole. Senza ubbidienza e disciplina, il bambino resta eternamente bambino, in un ideale utero psichico materno. La speranza stessa si alimenta attraverso l’esercizio dell’ubbidienza, poiché ogni promessa esige una condizione, ogni patto un impegno. Iniziano a questo livello i primi passi del credente o l’avventura spirituale del cristiano. L’ubbidienza a Dio non ci rende più degni di amore, ma ci mette in condizione di potere godere maggiormente della sua vicinanza e intimità.
    Dire «Padre nostro» e non sentire il calore e l’affetto della sua paternità vuole dire non averlo conosciuto come Padre. Grande è la responsabilità dei genitori nei confronti dei figli: la qualità del loro rapporto si riflette fatalmente nella relazione con Dio. Quando Dio visita l’uomo, tutti i problemi non risolti con i propri genitori, ossia non risolti sul piano psichico, si proiettano drammaticamente nella sfera dello spirito. Le accuse che oggi molti uomini, anche di scienza, rivolgono a Dio sono accuse inconsapevolmente rivolte ai propri genitori. Chi non crede in Dio, perché considerato non sufficientemente buono, in realtà non crede di essere stato sufficientemente amato dai genitori; chi serve un Dio aggressivo perpetua un rapporto aggressivo con il padre. Oggi, nella nostra società, il padre è stato vanificato, e non vi sono promesse; tuttavia, il padre che è venuto meno nella carne può essere, se pure con fatica, ristabilito nello spirito. Oggi, è ancora giorno di grazia, e Dio si propone ancora come Padre. Questa operazione è resa possibile dall’essere l’uomo un’unità, se pure in tre dimensioni.
    Ogni genitore fa due promesse al figlio, che sono implicite nella loro relazione: «Diventerai come me e sarai amato dalla mamma», e «Avrai anche tu una donna come l’ho io». Diverse, ma non meno impegnative sono le promesse che un padre fa alla figlia: «Ti amerò sempre perché sei donna come la mamma», e «Sarai amata come io amo la tua mamma». Non dissimili sono le promesse che Dio, in quanto Padre, rivolge ad ognuno di noi. La prima è che «saremo simili a lui» [1Gv 3, 2], la seconda è nell’unione con Lui, prefigurata da un’immagine nuziale. La donna promessa al Figlio apparirà quando il corpo del Figlio sarà completo, raggiungendo l’altezza perfetta del Padre [Col 1, 18]. A questa donna Dio dice: «Ti amo di un amore eterno» [Ger 31, 3], «… poiché come la morte è forte l’amore» [Ct 8, 6].

    3. LA TERZA IMMAGINE: LA VERITÀ

    Dimensione psichica

    Intorno ai tre anni, il bambino s’immerge nei segreti della vita: ora sa che ci fu un tempo in cui lui non esisteva ancora, e che le due persone che si prendono cura di lui sono legate da un vincolo dal quale lui è escluso. La fiducia nella propria bontà e nella speranza di un futuro che non modifica il suo presente sembrano crollare. Un vero movimento tellurico avviene nell’esistenza del bambino, un cambiamento che Freud ha letto in chiave sessuale. Per il bambino, scoprire di essere nato comporta il concepimento di un limite al proprio essere e alla relazione con la madre. In ogni modo non sono le scoperte che il bambino compie a rendere difficile il suo sviluppo, ma è la qualità della relazione che egli instaura con i genitori. In breve, il bambino scopre che ci fu un tempo in cui la mamma non lo conosceva e non sapeva nulla di lui. Questa scoperta lo sgomenta e lo spinge a correre ai ripari per controbilanciare il senso di precarietà del suo rapporto con la figura materna. Voler occupare il posto del papà con la mamma, interpretato da freud, in una cornice di rivalità sessuale, assume qui un diverso significato: il bambino vuole assicurarsi un vincolo stabile e duraturo con la mamma come lo è quello che esiste tra lei e il papà. Il bambino, che dichiara alla mamma di volerla sposare, non fa una dichiarazione d’amore con tinte sessuali, ma tenta di rendere impossibile il ritorno di una condizione in cui lui e la madre erano “separati”. Quel che affligge il bambino, tra i tre e i cinque anni, è il sapere di un tempo in cui lui e la mamma non “si conoscevano”. La domanda incessante, che il piccolo rivolge a quest’età alla mamma, è «Ma io dov’ero?», «Ma tu sapevi di me?», «Volevi proprio me?», «Sapevi che sarei nato io?».
    Freud ha confuso il «perché sono nato» con il «come sono nato». Il bambino vive un malessere che toglie senso al suo essere: ristabilire la fiducia nel vincolo del legame con i genitori diventa una questione di primaria importanza. In breve, il piccolo deve essere rassicurato che è proprio lui il bambino della madre, e che la madre lo voleva perché lo conosceva prima ancora che nascesse, e infine che, per far nascere lui, la mamma e il papà si sono sposati. Questo è l’unica spiegazione che il bambino può accogliere per recuperare la propria verità e per giustificare la presenza del padre e il rapporto tra i genitori.
    Edipo, in senso psicoanalitico, nasce quando il bambino vive l’esclusione dall’amore dei genitori, ossia quando sente di non essere lui la ragione del loro rapporto. Il bambino, dunque, deve essere ristabilito come elemento centrale, e non marginale, del rapporto esistente tra la madre e il padre.
    La verità non è una questione di ordine intellettivo, o, in ogni modo, non è questa la verità di cui si parla in queste pagine. La nostra verità è nella qualità del sentito. In altre parole, il turbamento che sorprende il bambino è generato dall’acquisita consapevolezza che ci fu un tempo in cui lui non era amato da nessuno, in quanto non esistente. È un pensiero che egli non può concepire: d’altronde, nessun uomo riesce a pensare alla propria inesistenza. Il tempo in cui lui non c’era diventa necessariamente per lui il tempo in cui non era amato. La verità si presenta all’inizio come verità dell’amore dei genitori, e quest’amore perché sia vero deve essere necessariamente eterno. Su questa verità il bambino costruisce il proprio valore, che diventa il valore della sua esistenza, di tutto quello che dice e fa.
    A qualunque età l’amore, per essere sentito vero tra due persone, deve essere “pensato” non effimero né fortuito, ma voluto e deciso da un qualche destino, e la sua promessa non può avere scadenze temporali. Un bambino vive l’amore dei genitori come un diritto assoluto: vivere vuole dire essere amato. Nell’amore che si riceve è contenuta tutta la verità della vita. Scoprire di non essere amato priva il bambino del senso della propria verità. L’amore per essere vero deve essere sincero ed eterno. Il bambino adottato soffre della sindrome della verità. La ricerca dei genitori naturali è in realtà una ricerca di legittimazione della propria nascita. Nasciamo con il senso del diritto all’amore: tale diritto appartiene allo stesso ordine del diritto alla conoscenza per la mente, e del diritto all’alimentazione per il corpo. Negare l’amore al bambino, con la disattenzione o l’incuria, ha conseguenze devastanti: un senso di estraneità a se stesso o di non autenticità accompagnerà il bambino in età adulta, insieme con il senso della solitudine. La solitudine, infatti, è incapacità ad entrare in contatto con se stessi. Talora emerge nei bambini non amati la colpa per essere nati, talora la rabbia per un diritto negato. Alla base di un atto delinquenziale sovente vi è la richiesta di un diritto soltanto sentito.
    Un bambino nato senza il suo «perché» cercherà amore con tutti i suoi mezzi e le sue fantasie, arrivando a sviluppare una personalità compiacente, di conseguenza non vera, non autentica, che Winnicott chiama falso Sé [1957]. I rischi che il piccolo sviluppi una personalità antisociale sono concreti. Egli si trova in una situazione d’impossibilità di arrivare agli altri, di sentirli tramite l’empatia. Quando manca in noi il contatto emotivo, siamo affatto incapaci di consentire con l’altro. Questa carenza del sentimento, o assenza di verità, non consente di entrare in relazione con la verità dell’altro, il quale diventa privo di significato. Nei casi estremi, tale carenza è all’origine di grandi crimini: tutte le shoàh del mondo hanno nel senso della menzogna la loro “banale” e desolante spiegazione.
    L’uomo ha spostato la ricerca della verità dal piano del sentimento a quello cognitivo: alla verità del suo essere è stata così sostituita la verità della conoscenza, e la conoscenza ha dichiarato vero il caso, il nulla, la morte, cioè il non senso. L’uomo di oggi è chiamato dalla scienza a vivere razionalmente in un mondo che è stato dalla scienza stessa dichiarato privo di senso. Questa è la grande contraddizione della “verità senza verità”, creando una dissonanza cognitiva e un dissenso affettivo che rende l’uomo moderno “incapace di intendere e di volere”, soprattutto incapace di pensare all’altro, di impegnarsi e di prendersene cura. Negare la Verità, quella del sentimento, mediante le verità scientifiche può essere confortante, ma per la mente soltanto.

    Dimensione spirituale

    «Cos’è la verità?» chiede, senza voler sapere, Pilato a Gesù. Dio conosce l’uomo e gli indica i modi per giungere alla propria verità. Gesù dice: «Chi è per la verità ascolta la mia voce» [Gv 18, 37]. Noi prestiamo attenzione ai significati delle parole, e queste possono essere interpretate con sensi differenti. Ora la voce non proviene dalla psiche, ma giunge da quella zona dell’essere umano che in greco è definita pneuma, ossia vento o spirito. Si tratta di una zona non investigabile dall’uomo, perciò ignorata e misconosciuta, ma che pure è postulata da molti psicologi come la sede del vero Sé. In ogni modo, tralasciando questa parte dell’uomo la cui trattazione ci porterebbe lontano dalle intenzioni di questo scritto, quel che cerco di evidenziare, è il ruolo che la voce ha nella comunicazione della verità. Le parole possono essere sincere eppure non vere: noi possiamo essere convinti di quel che affermiamo, ma non dichiariamo necessariamente la verità. Nessuna parola di verità può essere disgiunta dalla sua voce, poiché la voce non mente. È la voce ad animare le parole, a dare loro senso; in essa è il sentimento della parola. Una parola è vera non quando il suo significato coincide con quello riportato nei vocabolari, ma quando il suo sentimento è vivo. Non possiamo sentirci amati se non ci sentiamo desiderati. Ecco cosa vuol dire sentirsi veri; nel desiderio con il quale siamo stati desiderati è la nostra verità.
    Gesù ha detto: «Le mie parole sono spirito e vita», ossia procedono dalla Voce, sono parole ispirate e comunicano il desiderio stesso della vita. Se riusciamo a sentire il sentimento delle parole di Gesù noi scopriamo la nostra verità nelle parole che dicono: «Io ti amo di un amore eterno» (Ger 31,2). La verità di quest’enunciato non è nella sua accettazione a livello di “credenza”, ma è in quanto risponde, o meglio s’integra con il nostro bisogno di essere. Il bambino sente la verità dell’amore della mamma perché ha in sé fame di quest’amore. Così ogni uomo, poiché ha in sé «il desiderio dell’eternità» [Ecc 3,11] può sentire la verità dell’amore che ci protesta Colui il cui Nome vuol dire Eternità. Se il vero Amore esiste non può che essere eterno; un amore che muore non è vero.
    Molti hanno difficoltà ad accogliere l’amore, poiché non lo hanno conosciuto. Ora sappiamo che i bambini non sempre sono amati, e, anche quando sono amati, non sono amati nel modo giusto. È necessario che ogni uomo che vuole svilupparsi nel giusto senso, ossia nella giusta direzione e nel giusto modo, deve rivivere la sua seconda nascita. Nella speranza, la fede si proietta nel futuro, nella verità deve proiettarsi nel passato. In Giovanni si legge:

    «Era la luce, la vera,
    quella che illumina ogni uomo,
    che veniva nel mondo. […].
    A quanti però l’accolsero,
    a questi diede autorità di diventare figli di Dio,
    a quelli che hanno fiducia nel suo Nome,
    i quali non da sangue,
    né da desiderio di carne,
    né da desiderio di uomo,
    ma da Dio furono generati» (Gv 1,9-13)

    In questa pericope ci è rivelato qualcosa che se accolto per fede riesce a guarire tutte le nostre ferite spirituali e psichiche. L’origine di tutti i nostri problemi è identificabile nella nostra infanzia, in particolare nelle nostre prime relazioni con le figure parentali. Siamo esseri per natura ambivalenti, e nasciamo con una “sete” che si rinnova continuamente; inoltre, nasciamo da due individui che, al pari dei figli, necessitano di essere “dissetati”. Ci portiamo dentro una sorta di lutto per qualcosa che ci è stato tolto, una specie di delusione per qualcosa che non ci è stato dato. Nel tentativo di sfuggire al nostro sentimento di privazione, possiamo decidere per un’esistenza che ci ecciti o ci esalti, ma sempre vivendo con la sensazione di un diritto che ci è stato negato. In parte, inconsciamente, tutti noi riteniamo i nostri genitori responsabili; anche quando additiamo la vita o il destino, è ai nostri genitori che idealmente ci rivolgiamo. Nessuna psicoterapia ci potrà aiutare, poiché il nostro problema è prioritariamente spirituale.
    Sul piano del rapporto con Dio, la nostra fiducia per diventare vera deve estendersi nell’eternità del passato. La Parola scioglie tutti i nostri dubbi: Noi non siamo nati dal sangue di un uomo e di una donna. Il greco ha il plurale, cioè “sangui”. La nostra vita non è una trasmissione di elementi chimici. La nostra esistenza non è un atto della carne, ossia un prodotto conseguente al desiderio sessuale dell’uomo. La nostra vita, infine, non è stata decisa da nessun essere umano per un deliberato consiglio. Se non riusciamo a staccare la nostra umana esistenza da quella dei nostri genitori naturali, noi non risolveremo mai i nostri problemi, non faremo mai tacere le nostre rivendicazioni, non cesseremo mai dalle nostre pretese, non smetteremo mai di aggredirli direttamente o indirettamente, in modo consapevole o inconsapevole, per vendicarci del torto subito. Non loro sono i responsabili della nostra nascita, e neppure sono colpevoli per la nostra mancanza di vita autentica, soddisfacente, vera. Loro sono, come noi, figli di altri figli.
    Le parole della Bibbia acquistano così una grande portata sul piano psichico ma soprattutto spirituale. Dio ha deciso di imporre il suo desiderio a due “sangui”, affinché noi nascessimo. I due operai sono stati adescati dal piacere della carne; hanno generato contro la loro volontà. Inoltre, sono stati retribuiti affettivamente, ripagandosi a vicenda, e noi, in quanto figli, non siamo loro debitori. Se la nostra nascita è stato per loro un peso, ciò è per la loro incapacità di accogliere la retribuzione loro offerta, non per i problemi loro creati dalla nostra nascita. La Parola di Dio ci scioglie da ogni legame malsano che possiamo avere con i nostri genitori, da ogni senso di colpa. Dio diventa responsabile della nostra nascita, e dichiara di averci amati prima della fondazione del mondo [1Pt 1, 20]. La prova del suo amore è talmente grande da essere una follia e uno scandalo [1Cor 1, 23]: nessuna mente può concepirla né potrà mai comprendere (Ecc 3, 11). Tuttavia, soltanto quando realizziamo la verità dell’amore di Dio riusciamo a sapere dell’amore ricevuto dai nostri genitori e a perdonare per l’amore non ricevuto.

    4. LA QUARTA IMMAGINE: LA LIBERTÀ

    Dimensione psichica

    Nel periodo compreso tra i cinque e i sette anni, il bambino entra nella piccola adolescenza. Le trasformazioni morfologiche cui va incontro, come la perdita dei denti da latte, e la consapevolezza di avere un corpo sessuato attivano il sentimento del pudore. Tutti i nodi non risolti in precedenza trovano ora la loro manifestazione più patente. Vi è un passaggio ideale che il bambino deve compiere, passare affettivamente ed emotivamente dal codice materno a quello paterno. Si tratta di un codice di lettura di sé, dei genitori e del mondo affatto nuovo. Restare nella dimensione affettiva dell’area materna comporta una chiusura verso le nuove esperienze. Entrare nella dimensione affettiva dell’area paterna vuol dire riorganizzarsi in una visione di sé non più bambina ma filiale, in una visione dei genitori non più di madre e padre ma nei ruoli di moglie e di marito, e in una visione del mondo nel quale si è membri di una generazione formata dal gruppo dei pari. Questa triplice visione è strettamente connessa al comportamento esplorativo.
    Ora una figura materna indifferente o emotivamente assente, o, ancora, trascurante o ansiosa non favorisce nel bambino un rapporto su base sicura. Un bambino insicuro non sviluppa condotte esplorative. Al contrario, egli concentrerà la sua attenzione sulla persona della madre, manifestando difficoltà ad allontanarsi fisicamente da lei (Bowlby, 1951; Ainsworth, 1972). La paura di non ritrovare la mamma attiva in lui “il sistema della paura”, che inibisce il piccolo sul piano non soltanto motorio, ma anche su quello cognitivo ed emotivo. Il contrario della paura, infatti, è la sicurezza, che è sentimento di chi sa di essere amato. Il pudore che naturalmente emerge nella piccola adolescenza può dunque trasformarsi in vergogna patologica di sé e dubbio ossessivo nei confronti degli altri, bloccando ogni interesse esplorativo. In caso contrario, il pudore alimenta una forma di curiosità che si traduce nell’esplorazione di sé, degli altri e dell’ambiente.
    Con la scoperta della sessualità, che ora non è più una semplice differenza tra sessi, ma è un fattore sociale di distinzione di genere, il bambino passa dalla concezione del mondo diviso tra adulti e bambini a quella di un mondo diviso tra maschi e femmine aventi compiti e caratteri differenti. In breve, il bambino deve “eleggere” il proprio genere ed esplorarlo.
    Con la scoperta dei diversi ruoli dei genitori in quanto moglie e marito, il bambino comincia ad esplorare anche i ruoli di madre, di padre, delle rispettive condotte, funzioni, professioni: mediante tal esplorazione, egli impara a valutare i loro sentimenti e la loro modulazione nei vari rapporti e contesti. Le relazioni familiari si moltiplicano come cerchi concentrici influenzandosi reciprocamente, articolandosi e intrecciandosi in una pluralità di parti e di personaggi. Anche il bambino inizia a relazionarsi mediante un ruolo: quello di figlio con i genitori, di allievo con gli insegnanti, di compagno con i pari, ampliando i suoi riferimenti sociali.
    Infine, con la scoperta della propria generazione, il bambino può esplorare il suo e l’altrui comportamento sociale. La socievolezza consente al bambino di restare vicino agli individui del suo gruppo e stringere le prime alleanze affettive, superando così l’innata prudenza a diffidare verso tutto quello che non è familiare. Il modo in cui ha vissuto e affrontato le forme precedenti del suo sentimento è decisivo per uno sviluppo all’insegna di una libera espressione o di un’inibizione del Sé. Una stabile sicurezza di base è condizione necessaria affinché il bambino nutra un fondamentale senso di libertà, di per sé sufficiente a motivarlo ad esplorare con curiosità il suo mondo.
    In ogni modo, prima di abbandonare il discorso psicologico della libertà, è utile ricordare che l’acquisizione della libertà conduce il bambino all’esplorazione del padre. Non sempre la via, che va dalla madre al padre, è sgombra e diritta; sovente è oltremodo accidentata. Non di rado i padri sono assenti e le madri fagocitanti, oppure drammaticamente gelose. Senza l’approdo al codice paterno, il bambino non può correttamente leggere il suo corpo e neppure appropriarsi di un corretto ruolo sessuale.
    In breve, senza il padre si resta bambini della madre fino alla fine dei propri giorni. Nel padre il bambino si vive figlio, ossia dotato di un nome di famiglia, con una posizione specifica e con precisi compiti. Nel padre, il figlio completa la propria visione di sé. Nel padre, infine, il figlio impara a guardare la madre com’è dal padre guardata, ossia come donna. Il figlio, per essere come il padre, ama quel che il padre ama; la figlia, per essere amata dal padre, diventa colei che il padre ama.

    Dimensione spirituale

    Passando dal piano psicologico a quello biblico, troviamo la celeberrima frase di Gesù, da tutti citata: «Conoscerete la verità e la verità libererà voi» (Gv 8, 32). Difficile è parlare di libertà, poiché sono molte le libertà proclamate dagli uomini, ma soprattutto perché la libertà bandita da Gesù è differentemente concepita, al punto che accogliere la sua libertà può essere sentito come una perdita di libertà.
    Il preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo inizia con le parole: «Tutti gli esseri umani nascono liberi…». L’accento è posto su una condizione, e il tema della libertà si snoda e si aggroviglia tra diritti, opportunità e scelte personali. Nella Bibbia, dopo Adamo, la libertà non è mai un punto di partenza ma di arrivo, o di ritorno ad una condizione irrimediabilmente perduta. Essa è soprattutto un sentimento che deve maturare in noi, ma passando attraverso una seconda nascita: la prima fu dal basso, la seconda deve avvenire dall’alto. Un’ipotetica Dichiarazione spirituale dei diritti dell’uomo reciterebbe: «Tutti gli esseri umani possono rinascere liberi…».
    La libertà è dunque una scelta, ma una volta liberi non c’è più scelta. Non sto parlando delle scelte di superficie ma di quelle profonde. Sul piano biologico nasciamo con un programma genetico, il suo sviluppo non è garantito dalle nostre scelte, ma può essere naturalmente assecondato dai nostri comportamenti. La libertà, riferita al nostro organismo, è pervenire al pieno spiegamento delle sue potenzialità. La malattia e l’indigenza sono invece fattori che ostacolano questa libertà. Segue che quel che ostacola la libertà allo sviluppo organico è causa di sofferenza per il corpo. Lo stesso discorso può essere esteso alla sfera psichica, in cui la libertà è intesa come maturazione delle nostre energie creative costitutive del vero Sé. La sofferenza mentale è dunque espressione di una libertà inibita o deviata rispetto alla meta. Con riferimento alla libertà creativa Winnicott riferisce:
    «È l’appercezione creativa, più di ogni altra cosa, a far sì che l’individuo abbia l’impressione che la vita valga la pena di essere vissuta. In contrasto con ciò vi è un tipo di rapporto con la realtà esterna che è di compiacenza, per cui il mondo ed i suoi dettagli sono riconosciuti solamente come qualcosa in cui ci si deve inserire o che richiede adattamento» (Winnicott, 1974, tr. it. p. 119).
    Paura e angoscia diventano gli artefici per l’istituzione del falso Sé, che rende l’individuo compiacente, conformista, dipendente, in una parola, schiavo delle proprie costrizioni.
    A livello spirituale la libertà consiste nel vivere, ad ogni livello evolutivo, una vita con il proprio senso, in vista di una piena maturazione del sentimento di essere (Gv 10,10). Vivere una vita sentita come chiara e trasparente è dunque la vera libertà a livello dello spirito, ossia una vita priva di sotterfugi e di nascondimenti. In una relazione non soddisfacente, il bambino, nella fase della piccola adolescenza, inizia a celarsi ai genitori: in modo simile, a livello spirituale, è possibile essere sopraffatti dal dubbio circa il proprio essere, e dalla colpa circa il proprio fare.
    Consideriamo ora, più da vicino, in quale modo l’acquisita verità di essere figli della Vita ci rende liberi sul piano dello spirito. La scoperta della nostra verità, ossia che siamo stati preconosciuti ed eletti prima della fondazione del mondo (Ef 1, 4), ci rivela un’altra verità, meglio l’ombra della nostra verità, ossia il dissenso tra l’ideale della vita e la nostra esistenza. La nostra verità per sopravvivere deve necessariamente eliminare ogni ideale di vita. Nella nostra condizione di dissenso, nulla può angosciare di più, infatti, di un’esistenza che sentiamo di aver fallito. Tuttavia, nell’accettazione per fede di essere figli della Vita vi è un’implicita richiesta di recupero del primitivo consenso. La nostra coscienza si fa coscienza di sé: diviene consapevole della frattura che si è aperta tra la richiesta della Vita e la sua mancata risposta. Interviene qui il mistero dell’opera di Dio che si fa uomo in Cristo per rispondere alle esigenze della Vita.
    Gesù, con la sua vita, ci comunica la sua e la nostra verità; con la sua morte, compie un’opera di vero innesto, che si può intendere soltanto per fede, poiché in essa si ricapitolano tutti i nostri sentimenti. Il reinnesto dell’uomo nel Padre richiede un punto di congiunzione, di una connessura in cui il divino e l’umano possano coesistere. Questo punto è stato realizzato sulla croce. È scritto che Cristo si fece peccato (2Cor 5, 21), questo comporta che nell’accogliere la verità dell’amore del Padre per noi, in Cristo attuiamo non soltanto il nostro stato di peccatori, ma il nostro stato di morte rispetto alla Vita. Come marze morte, noi abbiamo bisogno per il nostro reinnesto di un soggetto della nostra stessa natura e nella nostra stessa condizione, vale a dire di morte. La lancia forò il costato di un Gesù morto, come a significare l’apertura di un’ideale fenditura per il reinnesto delle nostre esistenze nella Vita. Una “marza” viva continua a produrre il proprio fiore finché non secca la sua linfa e poi muore per sempre, una “marza” morta invece in un ceppo morto è al riparo dal rigetto e può partecipare alla resurrezione della radice. Siamo stati così immersi nella morte, seppelliti nella sua morte, divenendo una stessa cosa con lui [Rom 6, 4-5]. L’abisso, o il vuoto, che si è creato sulla croce ha esercitato un’azione in un altro abisso, contrapposto, poiché è scritto: «Un abisso chiama un altro abisso» (Sal 42, 7). Sul soggiorno della morte (Pro 27, 20) si aprono così le fonti e le benedizioni dell’abisso dell’amore di Dio (Gen 49, 25). Nella morte, ossia in Cristo, Dio recupera la natura umana e la rende nuovamente compatibile con quella divina. La risurrezione è garanzia dell’avvenuto innesto che porterà a maturazione nella libertà il frutto dello spirito (Gal 5, 22).
    In Cristo dunque noi siamo liberi, vale a dire liberi di entrare alla presenza del Padre e vivere la vita non più come un atto di vero amore, ma come un dono di libero amore, cioè assoluto, gratuito, eterno, che non si può più perdere. I doni di Dio sono senza pentimento [Rom 11, 29]. La verità della nostra vita, nella resurrezione, è liberata dalla morte e dalla sua paura. Cristo, infatti, «liberò tutti quelli che per il terrore della morte erano, per tutta la vita, soggetti a schiavitù» [Eb 2, 15]. Dalla libertà dello spirito segue la libertà della nostra mente, vale a dire una mente libera da chiusure, da pregiudizi, da timori, da diffidenze, e quindi libera di essere nelle cose finalmente importanti per le nostre esistenze, così poche e così semplici.
    Nell’epistola ai Galati è scritto: «Per la libertà Cristo ci liberò» [Gal 5, 1]. Se dunque sul piano spirituale questa libertà si esprime con la libertà di lodare, gioire e ringraziare, su quello psichico si esprime come libertà dalla schiavitù della tristezza, dell’invidia, della concupiscenza, della gelosia, dell’odio, degli amari rancori e di ogni altro sentimento che inibisce la nostra affermazione spirituale. La verità di avere un’origine eterna e un eterno destino ci affranca dall’effimero e da tutte le sue vanità. Nelle tenebre come stelle si affollano nel nostro animo i desideri, ma noi siamo «figli di luce e figli del giorno» [1Tess 5, 5].
    L’inganno più grave è anteporre la mente allo spirito, vale a dire ridurre verità e libertà a forme di pensiero: è questa la lettera che uccide [2Cor 3, 6]. Verità e libertà sono due dei vari volti del sentimento della fede. Passare dalla verità alla libertà è un passaggio difficile! Sul piano psicologico equivale a rinunziare definitivamente all’infanzia, alle dolcezze della mamma, ai privilegi del bambino e accogliere la disciplina del governo del padre, per diventare come lui. Il lutto che il bambino deve elaborare con riferimento alla perdita dell’infanzia, equivale al lutto che il popolo d’Israele dovette elaborare nel deserto, per la perdita della ricca e verde valle di Goscen in Egitto. Il nostro peregrinare nel deserto, ossia il nostro soggiornare nella morte può talora protrarsi per molto tempo: si tratta della notte dei sensi di cui parla san Giovanni della croce. Il leggero gusto della manna deve gradualmente sostituirsi ai forti sapori delle cipolle e degli agli d’Egitto [Num 11, 5], il cui ricordo perseguiterà per molto tempo Israele. Per noi cristiani, è il tempo della formazione di Cristo in noi in vista della resurrezione [Gal 4,19].
    Riepilogando, in questa fase del cammino spirituale, ci troviamo idealmente nel luogo santo, un luogo immerso nella penombra della Menoràh: è un luogo non più del mondo, ma non ancora di Dio. La morte è il momento della delusione. Dio delude sempre le attese umane: delude Adamo ed Eva, delude Abramo che morì come straniero, delude il popolo d’Israele che non entrerà mai nella terra promessa, delude Gesù nel momento dell’abbandono. Per diventare liberi di fronte a Dio è necessario perdere se stessi: nessun nostro pensiero, nessuna nostra immagine di Dio può sussistere alla sua presenza. Il luogo dell’incontro è il nulla, ossia nella morte di Cristo ove tutto si vanifica. Solo qui, tuttavia, possiamo cogliere, prima che divenga parola, la voce di un sottile silenzio nel quale Dio è [1Re 19, 12].

    5. LA QUINTA IMMAGINE: LA VOLONTÀ

    Dimensione psichica

    Il periodo compreso tra i sette e i dodici anni ricopre in gran parte il periodo freudiano di latenza: Erikson lo indica come il momento dell’ingresso nella vita, in cui si sviluppa il senso dell’industriosità. È, questo, il periodo in cui il bambino impara a fare: gli interessi legati alla sessualità infantile sono sospesi e le energie sono impegnate per l’acquisizione di strumenti intellettuali e nella realizzazione di compiti lavorativi.
    «Il pericolo che il bambino incontra a questo stadio – scrive Erikson – è costituito da un eventuale senso di inadeguatezza e di inferiorità. (…). Lo sviluppo di molti bambini è sconvolto dal fatto che la vita familiare non è riuscita a prepararli a quella scolastica o dal fatto che la vita scolastica non riesce ad appoggiare le promesse dei primi stadi» (Erikson, 1963, tr. it. p. 243).
    Alla curiosità per gli oggetti del mondo subentra l’attenzione per i meccanismi che governano il mondo. Per la prima volta il ragazzo esegue consapevolmente la sua azione non per possedere, ma per eseguire un lavoro, applicando procedure e istruzioni. La psicologia tuttavia non si è occupata della volontà come atto o principio intenzionale, in quanto non “misurabile” mediante i controlli sperimentali. Al termine volontà si preferì quello di motivazione, cui fu opposta l’inibizione. In breve, una psicologia della volontà, che vada oltre un approccio fisiologico, è tuttora inesistente. Bandita da Freud dalla sua teoria, ipotizzata da Adler (1926) con il significato di volontà di potenza e ridotta da Jung [1921] ad una quantità di energia psichica al servizio della coscienza, la volontà resta il grande enigma dell’uomo.
    Tuttavia come rileva Galimberti: «In pedagogia, dove la nozione di volontà è accolta e impiegata senza un’eccessiva problematizzazione, si fa della libertà dell’atto volontario il fondamento dell’educazione» [Galimberti, 1992, p. 975] (corsivo aggiunto). Qualunque sia l’origine dell’atto volontario, si presuppone che sia un atto libero.
    Le scienze psicologiche, abolendo dal proprio territorio di ricerca la volontà, hanno contribuito non poco a ridurre l’uomo ad un inconsapevole e condizionato insieme di risposte, in balia di forze inconsce, di modelli relazionali precocemente interiorizzati e di una pluralità infinita di stimoli ambientali sotto forma di apprendimento, di esperienza, di influenze culturali. Risultato finale è che non vi è alcuna volizione, né responsabilità, né consapevolezza, né colpa e sempre più sovente nessuna «capacità di intendere e di volere». Eppure, se vogliamo continuare a parlare di cambiamento e di ristabilimento dell’uomo, è necessario recuperare con urgenza la dimensione della volontà. È necessario fare della libertà non un’occasione di libertinaggio, ma di riscatto della centralità dell’uomo; e ciò, non perché il sole gira intorno alla terra, non per le sue nobili o ignobili origini, non per la sua parte conscia o inconscia, ma perché l’umanità, che è l’essenza dell’uomo, è tutto quello che abbiamo per vivere e per morire con dignità. Se perdiamo l’umanità del sentire, del pensare, dei comportamenti, allora possiamo fare il saldo dell’uomo e mettere in liquidazione l’intero creato; una svendita purtroppo già iniziata, ma forse non troppo tardi per salvare ancora qualcosa nell’arca.
    Sono consapevole che recuperare gli atti volontari dei singoli soggetti conduce a principi astratti, come quello dell’esistenza di una “inconsapevole” volontà presente in tutti gli organismi viventi, a tutela della vita e della perpetuazione delle specie. D’altronde, studiare la volontà, che nell’uomo si concretizza in atti di ideazione, di pianificazione, di decisione e di esecuzione, non ci porta molto lontano. La volontà, prima di tradursi in atto cognitivo, è un modo di sentire, una particolare consapevolezza della propria adeguatezza. Il bambino libero non tarda a scoprire di volersi in quanto ragazzo o ragazza, vale a dire per la sua età, per la sua identità, per le sue abilità e competenze. Libero è dunque chi sente di volere quel che sta diventando tra le cose che sono. La libertà ha una meta: nell’uomo essa è segnata dalla crescita e dalla maturità; nell’aspirare alla meta si esprime il sentimento della volontà.
    Vi è una linea rossa che va dal bene-essere, sentimento iniziale della sostanza chiamata bambino, e il voler bene (lat. volens, il benevolente). Il ragazzo a differenza del bambino, durante la piccola adolescenza, prende consapevolezza della sua avvenuta crescita, della sua sessualità che lo rende simile ad alcuni e dissimile da altri, delle sue abilità specifiche che lo qualificano come unico e stimabile tra i pari. Si può affermare che il ragazzo ha raggiunto ormai la consapevolezza della propria individualità, che lo rende, da un lato, unico, dall’altro, isolabile. Da tale consapevolezza nasce in lui il bisogno di sentirsi parte di qualcosa: egli appartiene, infatti, ad una generazione di una specifica leva, di uno specifico sesso e possiede precise abilità. A quest’età il ragazzo è chiamato a fare l’esperienza più importante della sua vita con riferimento alla figura del padre: il confronto con questa figura gli rivela il proprio con-senso, oppure il proprio dis-senso. Di conseguenza svilupperà una personalità integrata oppure in opposizione. Il sostegno e l’approvazione del padre sono fondamentali, perché il ragazzo superi i momenti di crisi che l’ingresso nel mondo sociale della scuola e dei compagni provoca. L’azione del padre diventa decisiva nella trasformazione del figlio, che deve abbandonare definitivamente i desideri e le modalità relazionali infantili per acquisire nuovi modelli comportamentali. Affinché il figlio non resti nell’alveo materno, si richiede al padre severità. Un padre assente o incapace di accogliere il rifiuto e sopportare l’aggressività del figlio si sottrae al proprio compito educativo, e non promuove nel figlio alcuna forma di rispetto. Il non rispetto del padre non attiva nel figlio il processo d’identificazione e quindi non si attua in questi né il rispetto di sé, né quello verso l’autorità. Severità e rispetto sono oggi due parole messe al bando nella nostra società. Ora il rispetto è un sentimento, non una questione cognitiva: ne segue che non è possibile rispettare le regole, partendo da un presupposto ragionato di convenienza sociale, poiché le regole sono rispettate a condizione che siano valori con-sentiti. Una qualità diventa un valore se è esibita dal padre, ed è sentita dal figlio nella misura in cui è sentito il codice del padre. Sviluppare il senso del proprio valore e dell’autostima è un processo naturale per un ragazzo che ha interiorizzato il valore del padre; ma diventa un’impresa votata all’insuccesso, se si vuole insegnare a qualcuno una qualunque forma di rispetto per sé, senza che si sia ricostituito un legame corretto con una figura paterna.
    Nel sentimento di volersi, cioè di stare bene con la propria persona, il ragazzo sente la sua immagine come integra e valida. In caso contrario, egli sentirà la sua crescita come uno scisma dalla sua infanzia. Potrebbe inoltre emergere la consapevolezza di un dissenso tra genere e sessualità, oppure tra quel che egli sente di sé e quel che gli altri sentono di lui. In breve, il sentimento della volontà si esprime nell’essere libero di volere quel che si è, per natura, destinato ad essere.
    In questa fase dello sviluppo, l’amico del cuore è colui al quale si vuole assomigliare. Una tale identificazione ha un valore di compensazione, ed è positiva sul piano della crescita personale e per la formazione della propria identità, ma può rivelare aspetti di disagio se essa assume il significato di una sostituzione. Il processo di sostituzione è sovente accompagnato dal desiderio di non voler essere quel che si è.
    Ricapitolando, a quest’età il ragazzo prende coscienza di un con-senso oppure di un dis-senso interiore tra quel che egli naturalmente sente di sé e quel che biologicamente o socialmente sente di dover essere, con riferimento all’età o alla sessualità o alle sue competenze. Riconoscere l’esistenza di una volontà, espressa come tensione ad essere con un preciso destino, comporta l’ipotesi di una volontà di vita che attraversa tutta la materia organica. Considerare la cultura come elaborazione sociale a sostegno dell’espressione di questa volontà, o piuttosto come un’elaborazione psichica arbitraria e separata da tale volontà è oggi il problema cruciale dell’umanità.

    La dimensione spirituale

    La volontà di Dio è uno dei grandi temi della Bibbia, e il terreno di lotta più importante tra Dio e gli uomini. «La carne, infatti, vuole contro lo Spirito, e lo Spirito contro la carne» [Gal 5, 17]. Carne e Spirito sono due realtà in perenne opposizione tra loro, e sembrano comportarsi esattamente secondo il modello topografico freudiano dell’apparato psichico, ossia tra l’inconscio e il conscio. Scrive Paolo: «Non so, infatti, quel che faccio; poiché non quello che voglio faccio, ma faccio quello che odio. (…). Il volere è presso di me, ma non il modo di compiere il bene» [Rom 7, 15-18].
    In ogni modo la volontà di Dio è anche motivo di forte dissenso tra il Dio che si rivela e l’uomo che vuole «fare la volontà di Dio». In questa fase dello sviluppo spirituale, infatti, Dio diventa incomprensibile, quasi ingiusto verso chi vuole compiere la sua volontà. In analogia al ragazzo che vuole compiacere il genitore, mostrandogli le proprie abilità, il nato di nuovo vuole compiacere Dio con la sua dimostrazione di fede. È un equivoco grande questo, vale a dire voler dimostrare a Dio di essere degni del suo amore. Slegati da Cristo, decadiamo dalla gratuità di Dio, per ricadere schiavi della legge [Gal 5, 4]. La volontà, come tutti gli altri sentimenti, ha nella fiducia la sua radice e ne esprime il livello operante. Nei confronti di Dio, essa è fede che opera attraverso l’amore, non nostro, ma di Dio [Gal 5, 6]. La nostra volontà, se pure sentita come buona e altruista, è intrisa di “terriccio” del mondo. Pietro, nel suo amore per il Maestro, non accetta le parole riferite alla passione, ed è da Gesù rimproverato aspramente per non avere il senso delle cose di Dio [Mat 16, 23]. L’uomo, che pensa di compiere la volontà di Dio, si fa interprete, traduttore, giudice ed esecutore di questa volontà, e finisce con il condannare a morte Dio [Gv 19, 7], credendo di offrirgli un atto di adorazione [Gv 16, 2].
    Nondimeno, esiste una volontà di Dio che si compie in noi e mediante noi; accettarla per fede, contro ogni nostra volontà, vuol dire entrare nella volontà stessa della Vita. Il credente si trova di fronte al passo che recita: «Sia fatta la tua volontà» [Mat 6, 10]. Non si tratta di subire passivamente una volontà imposta; al contrario, si è passivi se si compie la volontà dei propri desideri sempre di origine istintuale, secondo la lezione di Freud. Si tratta dunque di inserirsi nella volontà della Vita per diventare suoi attivi collaboratori. Abbiamo un esempio di collaborazione nella figura di Maria che esclama: «Si compia in me la tua parola» [Lc 1, 38]. In breve, o viviamo in accordo alla volontà della Vita, o viviamo in disaccordo con la Vita. Vivere in accordo vuol dire cogliere il senso, ossia la direzione e il significato della nostra esistenza, reinnestata nell’eternità. In caso di disaccordo, la nostra esistenza diventa un susseguirsi di tentativi finalizzati a modellare “l’informe e il vuoto”, oppure diventa una “crociata” contro ogni senso di vita, rivendicando una selvaggia esigenza di caos ed eleggendo il nulla a verità.
    Non è facile accogliere la volontà di Dio per noi che veniamo da una matrice costituita di mater-ia.
    Tra i sette e i dodici anni, come si è detto, s’inaugura per il ragazzo l’era del padre. In uno sviluppo teorico di un’astratta famiglia, i figli desiderano eguagliare il padre nelle cose che fa. Il ragazzo è un essere che vive e pensa nel concreto, in un mondo fatto di cose concrete: l’imitazione è la chiave per imparare a fare. Anche l’apostolo Paolo ci esorta ad imitare Dio [Ef 5, 1]. Tuttavia per imitare bisogna essere liberi; un’imitazione forzata si trasforma in caricatura. La libertà del ragazzo nasce dal sentimento di voler essere come il padre per fare le sue stesse cose. Si tratta, in breve, di un’imitazione che nasce dal bisogno di identificarsi al padre. In questo modo la volontà del padre si trasmette al figlio, in una relazione di con-senso. Tra Dio e l’uomo non è differente. Se vogliamo sentire la volontà di Dio scorrere in noi dobbiamo, come dice la Parola, identificarci a Dio [Gal 2, 20] e trasformarci con il rinnovamento del nostro mondo interiore [Rom 12, 2]. Non si tratta dunque di imitare, come mimi, un modello, ma di immedesimarsi al modello. Abbandonare l’infanzia è doloroso, poiché comporta l’abbandono del mondo gratificante e protettivo della madre; il padre, inoltre, impone una disciplina in vista di una promessa. Compito del padre è di impedire al ragazzo il ritorno presso la madre e di indicargli una meta fuori della famiglia. In vista della crescita è necessario che la volontà del padre prevalga su quella del figlio. Un padre manipolato non solo è disprezzato dal figlio, ma condanna il figlio a restare bambino con tutti gli egoismi e i narcisismi dell’età infantile. Allontanare la follia dal bambino [Pro 22, 15] con un confronto con la realtà è il grande compito del padre. Ora, la correzione e la disciplina sono la testimonianza dell’amore del Padre per noi [Eb 12, 5-11]. «Poiché i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie, dice l’Eterno» [Is 55, 8].
    La volontà di Dio è simile ad un vento che solleva molta polvere e cancella ogni umano sentiero. È il tempo della lotta tra Dio e l’uomo: Giacobbe lottò con l’angelo dell’Eterno nelle tenebre della notte [Gen 32, 24]. Mosè lottò con l’Eterno, che «cercò di farlo morire» [Es 5, 24]. Israele lotta ancora con il suo Dio. Dio sembra ostacolare il suo stesso progetto. Confusione, stupore e sbigottimento assalgono l’anima, che con Giobbe grida: «Le saette dell’Onnipotente mi trafiggono, il mio spirito ne assapora il veleno; i terrori di Dio si schierano in battaglia contro di me» [Gb 6, 4].
    Giacobbe, Mosè, Israele e quanti si apprestano a compiere la volontà di Dio incontrano Dio stesso a sbarrare loro il cammino. Sì, la volontà è quella di Dio, ma le forze con cui vogliamo compierla sono ancora nostre. La volontà di Dio non è mai la nostra volontà [Gv 5, 30]. La volontà di Dio vuole la nostra morte [Rom 12, 1]. Gesù stesso esclamerà: «Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice! Pure, non come voglio io, ma come tu vuoi» [Mat 26, 39]. La volontà di Dio si compie in noi, quando, morti a noi stessi, lasciamo che gli altri facciano di noi tutto quello che vogliono [Mat 17, 12].
    La notte dello spirito è un’esperienza di dolore, di solitudine e di angoscia. Resta tuttavia un ricordo, vivo e struggente, che ci giunge di tanto in tanto nella brezza della sera, il canto di Maria e delle figlie d’Israele, danzanti sulle rive del mare dei giunchi.

    6. LA SESTA IMMAGINE: LA GIUSTIZIA

    Dimensione psichica

    L’adolescenza è un esame di vita, e non tutti gli adolescenti sono, allo stesso modo, promossi in tutte “le materie”. Qualcuno non supera l’esame, e allora è l’identità ad essere compromessa; in tal caso «ne conseguono solitamente manifestazioni delinquenziali e psicotiche» [Erikson, 1963, tr. it. p. 245]. Si tratta di uno sviluppo impetuoso, di una vera esplosione della crescita a causa delle imponenti trasformazioni in atto a livello fisiologico, morfologico, cognitivo, affettivo. I cambiamenti che si producono, per l’intensità e la portata, fanno vacillare il loro precario senso dell’identità. L’adolescente deve ricomporre tutto quello che è stato con i nuovi aspetti della sua realtà, ad un nuovo livello di organizzazione, ricostituendo la continuità del suo sentimento ad essere. Di aiuto sono sia la precedente maturità della sua capacità di sentire, sia gli incoraggiamenti ricevuti dall’ambiente. In caso contrario, potrebbe subentrare in lui un senso di vacuità e d’indifferente apatia, oppure un senso di frustrazione rabbiosa e vendicativa. Il bisogno di eccitarsi chimicamente o di sfidare il convenzionale sono indicatori di un sentimento che non risponde alle richieste della crescita, che impone nuovi modi di sentire e di essere. La conseguenza è l’impossibilità dell’adolescente a sentire giusto il proprio sé. Se nella piccola adolescenza, il ragazzo passa dalla dimensione materna a quella paterna, nell’adolescenza vera e propria, l’adolescente si proietta fuori della famiglia, nel tentativo di passare dalla dimensione paterna a quella sociale. Quest’ultimo passaggio, con tutto quel che comporta, può essere vissuto come una grave forma d’ingiustizia, oppure come profondamente giusto. Nel primo caso, l’adolescente si rinnega in uno o più aspetti della sua personalità; nei casi più gravi si ritrova alla deriva, o smarrisce ogni senso di sé. Nel secondo caso, si entusiasma, accogliendo come giusto ogni cambiamento, in vista di un futuro ormai prossimo e di una promessa a portata di mano.
    L’adolescente ama discutere di tutto, poiché mette tutto in discussione. Sovente egli ha bisogno di convertirsi, cioè di credere alla vita, poiché il distacco dalla famiglia è conseguenza di due stati emotivi molto diversi tra loro, ma entrambi finalizzati all’emancipazione emotiva ed affettiva: la delusione delle figure genitoriali, in particolare del padre, e l’innamoramento per una persona coetanea.
    La gravità della delusione e la compromissione della nuova integrazione della personalità dell’adolescente dipende dalle conquiste e dai fallimenti occorsi nell’infanzia e nella fanciullezza. In uno sviluppo non particolarmente difficile, la delusione in ogni modo si presenta con il crollo dei miti infantili. Tutte le certezze del ragazzo si fondano sui genitori, sentiti come onnipotenti provvisori. La scoperta che anche i genitori sono, a loro volta, figli espone l’adolescente a forti sentimenti di ambivalenza, e a scoprirsi fragile e indifeso. L’innamoramento contrasta gli impulsi regressivi e lo pone di fronte alla necessità di dover superare definitivamente l’infanzia per un impegno di vita.
    Il bambino ha una relazione affettiva con una madre e un padre. Il ragazzo si confronta con la coppia formata da una moglie e un marito, la cui unione trova giustificazione nella sua nascita. L’adolescente infine deve riconoscere nei genitori il maschio e la femmina. L’uguaglianza tra sé e i genitori può riempire talora di sgomento: nessun figlio è pronto ad accettare la parte infantile dei genitori. Il bambino non ha mai amato i genitori nella loro realtà di maschio e di femmina, ma ha amato le immagini che egli si è fatto dei genitori, due idoli che appagavano i suoi bisogni fondamentali di essere, vale a dire di soddisfazione e di protezione. Con la caduta delle immagini genitoriali, l’adolescente va alla ricerca di nuovi idoli, veri sostituti parentali, con i quali ricomporre idealmente il dissenso.
    Gli esiti sono di tre tipi: rimanere nell’infanzia e costringere i genitori a restare genitori dai quali dipendere; non superare la delusione e la rabbia per i genitori restando in una condizione di ribellione e di rivendicazione; infine, accettare con un sentimento di giustizia di avere con i genitori una stessa altezza, in un rapporto di reciproco riconoscimento di cose sia “buone” sia “cattive”. In uno sviluppo sano i genitori si riconoscono nel figlio, quale futuro genitore; il figlio si riconosce nei genitori, figli di altri genitori.
    In ogni modo, nella fase adolescenziale, l’intera personalità subisce una revisione: perduta l’immagine infantile di sé, l’adolescente è alla ricerca di nuovi rappresentanti. Di norma, l’imitazione di modelli del mondo dello spettacolo e socialmente affermati diventa una pubblica dichiarazione del proprio valore, un’asseverazione di fiducia nelle proprie abilità in un mondo sentito come benevolo nei propri confronti. Un’eccessiva insicurezza può invece spingere l’adolescente a cercare testimoni oculari del proprio valore attraverso sfide di vario genere. Quando le prove si susseguono alla ricerca di attestazioni sociali del proprio valore, significa che un dubbio che continuamente ritorna necessita di essere ricacciato indietro.
    Sempre in uno sviluppo soddisfacente le speranze infantili si trasformano in progetti di vita in vista di un’identità professionale. La verità di sé non è più ricercata nell’amore dei genitori, ma è ritrovata nelle varie esperienze d’innamoramento. La capacità di innamorarsi dipende dall’amore ricevuto: un bambino amato è un adulto innamorato della vita. Un adolescente incapace di innamorarsi, vive l’amore non come sentimento ma come una pratica ritualistica. Amare vuol dire sentirsi vero, e una verità mai conosciuta spaventa più del dolore che si conosce. Il sentimento della libertà si accompagna all’innamoramento e si esprime soprattutto attraverso l’autonomia emotiva e la capacità di sopportare la separazione dai genitori, separazione avvertita ora come giusta, come un diritto naturale, e quindi priva di sensi di colpa e di tradimento.
    L’adolescente può non maturare il sentimento della propria giustizia con riferimento a qualche aspetto della sua personalità. Egli può non sentire giusta la sua età, sviluppando timori circa il suo futuro nel quale non riesce a proiettarsi con un progetto di vita, restando ancorato alla propria infanzia. Può inoltre non sentirsi giusto riguardo alla sua sessualità, e vivere con disagio le sue espressioni, fino ad arrivare ad un dissenso tra il suo sesso biologico e il suo sesso psichico. Può, infine, non sentirsi giusto circa le sue abilità ed efficienze, manifestando un basso livello d’autostima. Viversi inadeguato è fonte d’infelicità. In breve, chi si vive non giusto per una serie di mancanze nel rapporto con i genitori, non potrà mai giustificare né le frustrazioni, né i fallimenti, né le sconfitte che la vita elargisce; egli vivrà ogni cosa come un’ingiustizia contro di cui cercherà di vendicarsi. Il bambino che non doveva nascere diventa fatalmente un adolescente che si costruisce in opposizione a tutti gli altri. Egli è in quanto non è: per lui non esiste un modello cui assomigliare e normalmente non assomiglia a nessuno. Egli non sente il diritto di vivere e non si attende niente da nessuno. Non sa immaginare la propria immagine vista dagli altri. Non è diffidente, poiché non sa cosa voglia dire fidarsi; la sua esistenza scorre lineare senza progetti, senza ideali, senza sogni. Non si ribella all’ingiustizia, poiché la ribellione si addice a chi reclama un’offesa alla propria giustizia. Senza pretese né rivendicazioni, apparentemente, egli ha tutte le qualità di una persona umile, ma non ha alcun sentimento dell’umiltà. Fallire il senso della giustezza della propria esistenza significa vivere nel non senso; in tale condizione, nei casi patologici, ognuno si crea una giustizia propria, giustificandola secondo le proprie ragioni. Al contrario, se si è gustato al seno il buon sapore della vita, inevitabilmente si esperisce anche la “buona volontà” della vita e la sua giustizia che si esprime in quel che si è.

    Dimensione spirituale

    Anche sul piano spirituale si perviene al sentimento della giustizia di Dio passando attraverso una profonda delusione. L’adolescente scopre il padre in quanto figlio, allo stesso modo, in Gesù, si scopre il Padre in quanto Figlio, un essere umano uguale a noi. La nostra mente non comprende un Dio fragile, debole, sottomesso alle leggi, nudo sulla croce. Liquida il problema come scandalo o come pazzia [1Cor 1, 23]. Non ci si sofferma abbastanza di cosa comporti una tale scoperta, anzi evitiamo di approfondirla. Il messaggio cristiano è sovente ridotto a formule del tipo: Cristo è morto per i peccatori, ma senza attuare sul piano dell’affettività cosa vuol dire esattamente essere peccatore e chi è in realtà il Messia. Nel dominio della giustizia si prolunga sostanzialmente il conflitto che si scatena a livello del dominio della volontà; infatti, se abbiamo sentito a noi contraria la volontà di Dio, sentiremo anche dissonante la sua giustizia. Quando la giustizia di Dio si compie per noi, è da noi avvertita come sommamente ingiusta. C’è una croce preparata per ogni cristiano e un Golgota, poiché è scritto: «Il servo non più del suo signore. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» [Gv 15, 20]. Una frase questa che se è cognitivamente comprensibile, non è in nessun modo affettivamente accettabile neppure sul piano spirituale. È sufficiente trovarsi in una situazione d’effettiva persecuzione per scoprire quanto è difficile gioire delle ingiustizie sofferte e amare i persecutori. Quel che Gesù chiama beatitudini, per noi è cordoglio, emarginazione, oltraggio [Mat 5, 1-12]. Il popolo liberato con mano potente dalla schiavitù d’Egitto è consegnato alle genti, ai pogrom, ai lager. Il cristiano, che accetta la volontà di Dio, è travolto e sommerso da tutto il male e la cattiveria del mondo [1Pie 4, 1]. Dove sono le promesse? Le attestazioni di potenza? Le dichiarazioni d’amore? Di fronte alla giustizia di Dio i discepoli fuggono. «Noi speravamo che fosse lui che avrebbe riscatto Israele» [Lc 24, 21], dicono, ritornando alle loro case. La giustizia di Dio trafigge l’anima a Maria, e si consuma, infine, nell’abbandono di Gesù.
    L’adolescenza spirituale segna il tempo più oscuro della notte dello spirito; ***idealmente indica l’ingresso dell’anima nel luogo Santissimo, senza tempo e senza spazio, dove non esiste alcuna testimonianza di Dio: è il luogo del Nulla dove la luce è nera e il silenzio diventa voce. Entrare nel sentimento della giustizia di Dio vuole dire consegnare l’anima alla shoàh.
    Adamo dichiarò Dio responsabile del suo male affermando: «La donna che TU mi hai messo accanto mi ha dato il frutto dell’albero» [Gen 3, 12]. Dio si caricò del male imputatogli. Da quel momento, giusta diventa la sofferenza di Dio per tutti i mali compiuti dall’uomo, il quale subisce la giustizia umana nell’uomo Gesù, e continua a subirla nel «corpo» di Cristo. Paolo scrive: «Ora io mi rallegro nelle mie sofferenze per voi; e completo nella mia carne quel che manca alle afflizioni di Cristo a favore del suo corpo, che è la chiesa» [Col. 1, 24]. Per ricoprire, ossia giustificare, dunque la nudità di Adamo, Dio denuda il suo capo (Cristo) e denuda il suo corpo (la Chiesa). Tuttavia il mistero più grande è questo: Dio non accoglie la giustizia dell’uomo sentendosi giusto, ma diventa Egli stesso peccato, cioè la fonte del male per subire la giusta condanna da parte dell’uomo, e affinché l’uomo di fede diventasse “giustizia di Dio” [2Cor 5, 21]. Ora entrare in questa giustizia, assimilarne il sentimento, vuol dire sentire lo stesso sentimento che è in Cristo Gesù, diventando contestimoni delle sue sofferenze [2Cor 1, 7]. La sofferenza lungi dall’essere una punizione diventa un’elezione e un segno di partecipazione all’opera di Cristo.

    7. LA SETTIMA IMMAGINE: L'AMORE

    Dimensione psichica

    Se l’adolescente non abbandona l’infanzia, e con essa i genitori e la famiglia, non uscirà mai dalla dimensione del bambino bisognoso della mamma, o del figlio dipendente da figure di autorità. Il bambino ha bisogno di essere amato per crescere; l’adulto ha bisogno di amare per vivere. Il sentimento dell’amore segna il passaggio dalla dimensione del ricevere a quella del dare.
    Difficile è parlare di amore in psicologia, che assume un diverso carattere con riferimento ai differenti orientamenti di pensiero. Da una prospettiva comportamentista l’amore è considerato, infatti, una risposta appresa (Miller e Siegel, 1972); più precisamente è una risposta ad uno stimolo che eccita una speranza di piacere. Nella teoria psicoanalitica l’amore è ridotto, da un lato, al desiderio della gratificazione sessuale, dall’altro, al bisogno infantile di dipendere da una figura che rievoca figure parentali. In ogni modo, ci s’innamora della persona che possiede precise qualità, e sulla quale si fa assegnamento, quando si rinnova il bisogno sessuale [Freud, 1921]. Per Balint [1952] l’amore in genere, e per il partner in particolare, è un’espressione dell’amore primario, cioè di un amore presente fin dalla nascita, che si manifesta con un violento e avido bisogno di essere amati senza riserve o contraccambi. Maslow [1968] distingue l’amore altruistico per l’altro e l’amore dettato da bisogni personali. Infine, Lewis [1960] considera quattro forme di amore, ognuna delle quali privilegia una delle seguenti componenti:
    - l’agape o anche l’altruismo, che caratterizza l’amore genitoriale;
    - l’affetto che ha nell’attaccamento del bambino alla madre le sue motivazioni profonde;
    - la philia basata sull’idealizzazione dell’altro e si esprime soprattutto nell’ammirazione;
    - l’eros che è generato dal desiderio sessuale.
    In qualunque modo vogliamo considerare l’amore, in psicologia esso vola sempre basso tra componenti sessuali e bisogni infantili. Fromm [1956] è uno dei pochi studiosi a considerare la possibilità di un amore maturo, che si verifica quando è svincolato sia dal narcisismo, sia dall’amore incestuoso per la propria madre. Due principi quindi informano rispettivamente l’amore immaturo di chi ama l’altro per l’amore che riceve, e l’amore maturo di chi ha bisogno dell’altro, poiché lo ama. Resta oscura è la natura dell’amore, considerato un potere attivo dell’uomo.
    L’amore, nella visione qui delineata, segna l’ultima trasformazione del sentimento della fiducia. Non si tratta del sentimento rivolto verso una singola persona, con implicazioni di ordine sessuale, ma di una forma del sentire che qualifica ogni nuova relazione, sia con se stessi, sia con gli altri. Il comportamento erotico non è necessariamente in relazione con l’amore.
    In ogni caso, l’adolescente che si accetta, in quanto si sente giusto, con riferimento sia alle sue competenze evolutive, sociali, sessuali, affettive, sia alle sue attese familiari e sociali, si volge spontaneamente verso i coetanei e in modo naturale verso un o una compagna di vita. Il sentimento della giustizia diventa così la condizione fondamentale per entrare nella dimensione dell’amore maturo. D’altronde, anche le precedenti immagini sono integrate nel nuovo sentimento. Nell’amore avvengono le seguenti trasformazioni:
    - la fiducia acquista il senso della fedeltà, o impegno di un’acquisita responsabilità individuale,
    - la speranza si dilata fino a comprendere un futuro condiviso con altre persone,
    - la verità non è più nell’amore ricevuto, ma nella capacità di prendersi attivamente cura dell’altro,
    - la libertà si trasforma in generosità,
    - la volontà di amare diventa più importante dell’oggetto di amore.
    - Il sentimento della giustizia però, affinché acquisti il sapore dell’amore, deve subire un vero e proprio ribaltamento. L’amore, infatti, è l’altro volto della giustizia.
    L’adolescente che supera l’ingiustizia della crescita, delle trasformazioni subite, della perdita dei privilegi infantili, dell’incomprensione dei genitori, fino a sentire ogni cosa giusta per lo sviluppo della sua personalità, è soltanto a metà cammino se non scopre il sentimento dell’ingiustizia sofferta dai genitori per la sua crescita, per i suoi fallimenti, per la disciplina adottata per la sua correzione e educazione.
    In ogni figlio amato, vi è l’intima convinzione che i genitori siano due individui esistenti per la sua felicità; d’altronde, ogni genitore che ama il figlio non fa sentire al figlio il peso delle rinunce compiute o dei disagi sofferti. In una situazione ottima, si hanno genitori che non hanno risentimento verso i figli, e figli convinti che i genitori vivano in vista dei loro successi. In questa condizione, ogni sacrificio fatto dai genitori verso i figli è da questi non necessariamente avvertito. Dovuto è l’amore dei genitori e normale la loro sofferenza per i figli.
    Si entra dunque al sentimento adulto dell’amore in due tempi: nel primo tempo, l’adolescente deve superare il senso di tutte le sue ingiustizie sofferte; in un secondo tempo, deve prendere coscienza che ogni suo privilegio ha comportato un’ingiustizia sofferta dai genitori. La nascita di un figlio comporta privazioni di vario tipo per i genitori. I “no” proferiti sovente sono sofferti più della sofferenza che provocano in un figlio che pretende oltre quel che un genitore può sostenere sia emozionalmente sia economicamente. L’errore più grave di un genitore è mostrare risentimento per le rinunce compiute a causa di un figlio. Il “sacrificio” perde ogni valore, poiché è sentito come un atto di dovere legale e non di amore dovuto. Niente si fa sentire più di un atto di amore compiuto in silenzio. Fino a quando l’adolescente non sentirà il “dolore” dell’amore dei genitori per lui, non potrà emanciparsi dalla dipendenza e dalla richiesta affettiva nei loro confronti; fino a quando non è esaurito il sentimento del credito non si può sperimentare il sentimento del debito e quindi della gratitudine.
    L’amore non s’insegna con le parole e neppure con i doni, ma si trasmette con un atto di rinuncia di un proprio bene a favore dell’altro, e più l’altro è sentito come un bene più la rinuncia diventa vera, libera, volontaria e giusta. Tra genitori e figli, l’amore si esprime nei limiti che il genitore s’impone generosamente in vista del benessere del figlio. La verità dell’amore dell’altro per noi è colta nella gioia espressa per la rinuncia compiuta nei nostri riguardi, mentre il sentimento dell’amore è una trasformazione del dolore causato dall’amore dell’altro per noi. Se non si avverte questo “dolore”, ossia il costo dell’amore, si resta eternamente e «strutturalmente» bambini [Ferenczi, 1932]. Il bisogno d’amore del bambino è avido e violento. È come se dicesse: «Dovete amarmi sempre, dovunque, per tutto quel che sono, senza la minima critica, senza il più piccolo sforzo da parte mia, senza contraccambio» [Balint, 1952, tr. it. p. 191]. In un autentico rapporto d’amore si ha un bene in comune, il bene dell’altro.

    Dimensione spirituale

    La disponibilità a caricarci di un’ingiustizia volontariamente e sopportarla generosamente, ossia giustamente, è la traduzione in pratica dell’amore che possiamo maturare a livello psichico: si tratta di un sentimento svincolato da ogni senso del dovere per l’altro, ma vincolato ad un modo di sentire che necessita dell’altro. L’amore diventa un sentimento universale quando amare è più importante della persona che si ama: ama il tuo prossimo vuole dire di amare chi è accanto a te, indipendentemente da chi sia, cosa pensi, cosa senta per te. Questo tipo di amore è stato proclamato da Gesù.
    Sovente il nostro amore per Dio non si discosta da una forma di amore infantile di stampo materno, il Dio provvido che benedice e dona prosperità e guarigione ai suoi figli, oppure di stampo paterno, il Dio che impone la legge ed esige ubbidienza in cambio di riconoscimenti ed elogi. L’amore di cui parla Gesù e che è stato da lui vissuto durante la sua vita terrena è l’unico esempio di amore autentico che noi possediamo. Non esiste un altro esempio di amore e neppure una concezione di amore che sorpassi l’amore espresso e manifestato nei Vangeli. Si tratta di un amore non concepibile per la mente umana e non praticabile.
    Il mistero della croce ci rivela la giustizia di Dio. Egli giusto soffrì e morì per gli ingiusti [1Pie 3, 18]. Cosa rende giusta questa morte così ingiusta e atroce? Soltanto l’amore che non ha altra motivazione fuori di sé! Se Dio non fosse Amore il suo comportamento sarebbe sospetto e avrebbe compiuto il più insano, inutile e assurdo degli errori, addirittura imperdonabile perché privo di significato e d’insegnamenti. Ma Gesù ha compiuto un atto libero, volontario e giustificato dal suo amore. Ai due discepoli, lungo la via per Emmaus, Gesù dice. «Non era necessario forse che il Cristo soffrisse queste cose ed entrasse nella sua gloria?» [Lc 24, 26]. Ogni uomo è chiamato a confrontarsi con l’opera della croce e dare la sua risposta circa la morte di Gesù.
    La salute mentale passa attraverso le nostre interpretazioni degli atti altrui. Sul piano psicologico, l’aggressività, a tutti i livelli e in tutte le sue forme, nasce dal bisogno di rivendicare un amore che non si riesce a sentire nei modi in cui noi desideriamo essere amati. L’aggressività viene meno, quando riconosciamo la gratuità dell’amore ricevuto: allora cambiano i pensieri, i desideri e i sentimenti con beneficio del corpo, della mente e dello spirito. Arrendersi all’amore vuol dire diventare adulti, uomini fatti, ma chi è rimasto bambino non può arrendersi ad un amore che impegna, vincola, costringe.
    Gesù dice: «Io ho fatto loro conoscere il tuo Nome e continuerò a farlo conoscere, affinché l’amore con cui tu mi hai amato sia in loro, e io in loro» [Gv 17, 26]. Conoscere il Nome di Dio «Io sono» vuol dire raggiungere la piena consapevolezza e presenza di sé nel mondo, in una prospettiva di eternità. Nel Nome è racchiusa, infatti, la qualità della persona; ora, il nome di Dio è un verbo che indica l’azione di esistere. Avere in comune il Nome di Dio comporta la comune coscienza o conoscenza di essere uno.
    Parlando d’amore per Dio, Fromm scrive: «Nelle religioni orientali e nel misticismo l’amore per Dio è un’intensa sensazione di unità, inseparabilità, legata con l’espressione di quest’amore in ogni atto della vita» [Fromm, 1956, tr. it. p. 80]. In breve, l’amore maturo per Dio può essere espresso a condizione che diventi il senza Nome, cosa che comporta il superamento di ogni immagine infantile di Dio. Sul piano psichico la direzione dello sviluppo del sentimento avviene da un’iniziale condizione di benessere ad una condizione finale di stare bene con gli altri; sul piano spirituale, invece, la meta finale è sentire Dio come il Bene.

    CONCLUSIONE

    Abbiamo considerato lo sviluppo del sentimento come una successione di modi di sentire e di essere; ora alle vicissitudini del sentimento si accompagnano i processi cognitivi, e il pensiero è il più formidabile strumento cognitivo in grado di sostenere, favorire e tradurre il sentito in codice linguistico. Il limite più grave per la comprensione del sentimento, tuttavia, è costituito dalla riduzione di ogni sentire alle categorie del pensiero. La psicologia dello sviluppo ha volutamente trascurato il sentimento, in quanto, come scrive lo stesso Freud: «Non è facile trattare scientificamente i sentimenti» [Freud, 1929, tr. it. p. 200]. Si parla nondimeno di fiducia e di amore, come condizioni essenziali per uno sviluppo soddisfacente e per la salute mentale, ma senza alcuna preoccupazione di definire la loro natura e di inserirli in un contesto evolutivo. La razionalità da sola, considerata come meta evolutiva e fondamento di ogni reale rapporto tra gli individui, purtroppo si rivela insufficiente per spiegare le motivazioni centrali della condotta umana. Il tentativo di ridurre la dimensione del sentimento e di comprenderla in termini cognitivi si coglie soprattutto nella concezione dei termini di “speranza” o di “verità”. La «speranza», infatti, è il pensiero dell’attesa, la «verità» invece è nel pensiero giusto al quale deve conformarsi la nostra volontà razionalmente guidata. La ragione appare rassicurante contro il sentimento che, privo di controllo razionale, può trasformarsi in un’incomprensibile passione. La verità del pensiero ha portato alla scienza, ma ha anche al dogma, e nulla oggi mortifica l’uomo più del dogma della scienza.
    La nostra società, con il suo sistema educativo e i suoi valori, è fondata sul pensiero; ha prodotto tecnologie, industrie e armi, ma non riesce a produrre uomini capaci di diventare adulti. Non esiste nessuna pedagogia del sentimento, e in psicologia non esistono studi, né speculazioni, né ricerche.
    Abbiamo paura di quel che appare non razionale, ma nulla è più irrazionale della nostra paura. I sentimenti esistono, sono la parte più umana dell’uomo, la parte che entra in relazione con le altre parti di sé, con gli altri, con il mondo e con Dio. È tempo di restituire all’uomo il suo senso, perché sappia non solo pensare, ma anche sentire quel che pensa. «Conoscere se stesso» vuol dire sapere a quale livello evolutivo il proprio sentimento sta funzionando; ed «essere se stesso» vuol dire aver raggiunto la piena capacità di amare.

    Dio incontra ogni uomo due volte, sul monte Horeb e sul Golgota. Sul monte Horeb si rivela all’uomo come Colui che non è effabile: Egli, infatti, non ha nome, né immagine; è il Nascosto. «Io sarò chi sarò» è la rivelazione di un progetto, è una voce profetica, è il futuro nel futuro. Il nostro pensiero è inadeguato per comprendere questo Dio con il quale non è possibile stabilire una relazione che possa rinnovare le nostre antiche relazioni parentali. Il Dio della Bibbia non ha nulla da condividere con la mente dell’uomo, con le sue immagini e con i suoi pensieri. Ogni idea del Divino diventa necessariamente un atto d’idolatria. Esiste un solo modo per mettersi in contatto con Lui, mediante la Voce del suo Nome.
    «L’Eterno vi parlò dal fuoco: udiste una voce di parole, non vedeste immagine, una voce soltanto» [Deut 4, 12].
    Dio giunge ad Elia in «una voce di sottile silenzio» [1Re 19, 12]. Si tratta dunque di una voce (qol) che non è neppure un suono nell’aria, ma è un silenzio che vanifica ogni parola. Dio non parla alla mente dell’uomo, alla sua capacità di comprendere, ma alla sua capacità di sentire.
    Dio è Spirito, ossia Vento. Possiamo noi udire il vento? No! Possiamo udire però quel che freme al suo passare.
    Dio è luce, ma non illumina alcuna immagine; è luce nel nulla. I colori nascondono la luce, ma la luce vera illumina la luce soltanto.
    Dio è amore, vuol dire che è Uno, ma non è solo. «Io sarò chi sarò» è il nome di questo amore che eternamente partorisce il proprio oggetto d’amore. Paolo sapeva e scriveva: «Tutta la creazione geme insieme e insieme soffre le doglie del parto» [Rom 8, 22]. Siamo coinvolti in questo parto in quanto figli, e gemiamo nell’attesa della nascita.
    Dio è amore significa che non è nel giusto modo di pensare e neppure nel giusto modo di agire: Dio è nel giusto modo di sentire.

    Adamo ed Eva erano perfetti, non perché robusti nel fisico, sani nella mente e gioiosi nello spirito, ma perché erano nati adulti e vivevano all’altezza perfetta dell’uomo. La loro scelta dunque fu libera e consapevole. Raggiungere quell’altezza è impossibile per chiunque nasce bambino; nondimeno la loro altezza resta una meta, un’aspirazione per tutti gli uomini. Il dolore, l’angoscia e il male sono generati dallo scarto che sussiste tra il livello di sviluppo che naturalmente raggiungiamo, pur tra innumerevoli difficoltà, e il livello ideale di sviluppo per il quale siamo stati programmati sia geneticamente, sia spiritualmente. Parafrasando lo psicologo bielorusso Vygotskij, potremmo chiamare questo spazio ideale, zona di sviluppo spirituale.
    La legge di Dio ci mostra quanto grande è tale scarto. Non esiste nessuna vera fede, intesa come credenza nella giusta dottrina, come non esiste nessuna condotta giusta che possa colmare tale scarto. All’amore per Dio non si arriva attraverso una credenza, né attraverso le opere. Il bambino si nutre al seno della madre per un atto di fede. Pietro esorta: «Come bambini appena nati bramate il puro latte spirituale, affinché cresciate con esso in vista della salvezza» [1Pie 2, 2].
    Il problema dell’uomo è la crescita, e quando, per qualunque motivo, questa subisce un arresto si crea una scissione tra quel che di noi sentiamo proiettato nell’«Io sarò» e quel che sentiamo “qui e ora”.
    Senza fede non è possibile alcun processo evolutivo; lo stesso attaccamento del bambino alla madre è sostenuto dal sentimento della fiducia. La fiducia preesiste alla vita ed è un a priori assoluto. Senza fede non è possibile stabilire alcuna relazione tra i membri di una specie; senza fede neppure la prima generazione sarebbe sopravvissuta. Senza fede nessuna forma di consorzio umano è possibile, nessuna società può sussistere, nessuna comunicazione ha significato, nessun atto di amore è credibile.
    La scienza stessa è un atto di fede, e si fonda sulla speranza della conoscenza. La razionalità più limpida e schietta ha senso nella fiducia di una comprensione razionale di cose ed eventi, e genera nel razionalista il sentimento del sottile piacere di sentirsi razionale e razionalmente compreso e apprezzato. Anche le nostre scelte razionali possono essere suggerite da sentimenti non soggetti alla razionalità. L’uomo nasce come materia che sente e su questa base avviene il suo intero sviluppo.
    Nella Bibbia, subito dopo la creazione dell’uomo, maschio e femmina, sono impartiti da Dio due comandamenti, che sono anche le prime parole rivolte all’uomo: «Crescete e moltiplicate» [Gen 1, 28]. I due termini ebraici utilizzati sono פרה e רבה (paràh e rabàh) due sinonimi che potremmo tradurre con «crescete e crescete», oppure con «moltiplicate e moltiplicate». Pure, una differenza tra loro esiste. Paràh indica il crescere e il moltiplicare con riferimento alle piante. Nella Bibbia l’uomo è sovente paragonato ad una pianta da frutto, perciò paràh si può tradurre con “germogliate”, o “fruttificate”, e rabàh con “diventate grandi”, cioè “potenti”.
    Portare frutto comporta un programma evolutivo scritto nel codice genetico. Ogni pianta porta il suo frutto contenente il seme della propria specie [Gen 1, 12]. L’uomo non può sottrarsi al suo destino, che è quello di fiorire e di fruttificare, vale a dire di spargere “profumo” (simbolo della fede) e donare “sapore” (simbolo delle opere). Rabàh si riferisce alla crescita che ha come fine lo spiegamento della forza o del potere dell’uomo adulto, potere da esercitare per assoggettare (lett. calpestare) la terra, e non come comunemente è inteso, ossia nell’esercizio di un dominio degli uni sugli altri. Dio non concede all’uomo di dominare, o governare sui propri simili, ma «sui pesci del mare, sui volatili del cielo e sugli animali che si muovono sulla terra» [Gen 1, 28]. Diventare grande acquista così il significato di sviluppare tutte le potenzialità intellettive per amministrare la creazione di Dio. Nei primi due imperativi rivolti all’uomo troviamo quindi sia la crescita del sentimento dal quale si sprigiona profumo e sapore, sia la crescita dei processi di pensiero.
    Ma l’uomo ha scelto la conoscenza prima della vita, e non la vita prima della conoscenza. Ora vi è una conoscenza in ogni processo di vita a tutti i livelli d’espressione, dagli atomi alle cellule. Il bambino non ha conoscenza del seno, né del latte, né della madre, eppure la sua bocca conosce il capezzolo, il suo palato e la sua lingua conoscono il latte, l’intero suo corpo ha una conoscenza della madre che nessun pensiero umano può concepire. Questa conoscenza funziona con la fede nella vita. Cosa aggiunge alla vita una conoscenza senza fede? La paura! Mediante la conoscenza si è sostituita alla fede la diffidenza, alla speranza il dubbio, alla verità il sospetto, alla libertà la scelta, alla volontà il desiderio, alla giustizia la ribellione, all’amore la paura.
    Un astratto disimpasto è dunque avvenuto tra fede e conoscenza, e due modi di concepire l’uomo e la vita si sono idealmente estremizzati. Eliminato ogni principio di vita, la conoscenza ha infine generato il suo frutto: un uomo che ha racchiuso nel presente visibile e tangibile l’intera sua esistenza, la cui speranza non va oltre il sorgere degli astri, la cui verità è un composto chimico mosso da forze meccaniche. Contro una tale visione dell’uomo si erge ancora oggi la visione dell’uomo Gesù, che ci mostra un cammino di vita che procede lungo il continuum del sentimento che ha due estremi: «il terrore senza nome» [Bion, 1962], ossia la condizione dell’estremo grado d’angoscia vissuta dal lattante in una situazione di assoluto dis-senso e «l’Amore senza Nome», «che supera ogni conoscenza» [Ef 3, 19].

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    * L’autore è docente di psicologia dinamica e psicologia dello sviluppo all’Università di Torino, e, nell’ambito religioso, autore dei libri editi da EDB e Borla

     13-03-44


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