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    Le regole: fragranza della misura



    Incanti di libertà o passioni tristi? /6

    Paolo Zini

    (NPG 2012-02-52)


    La segnano le carte antiche dei corsari
    … l'isola da-trovarsi?... l'isola Pellegrina?...
    È l’isola fatata che scivola sui mari;
    talora i naviganti la vedono vicina…
    S’annuncia col profumo,
    come una cortigiana, l’Isola Non-Trovata…
    Ma, se il pilota avanza, rapida si dilegua

    come una parvenza vana,
    si tinge dell’azzurro color di lontananza…[1]

    L’atmosfera struggente e fatata dei versi di Gozzano [2] non è riducibile ad una finzione artistica riuscita; e le risultano stretti i confini di un’antologia, riservata all’intrattenimento estetico di qualche cultore di poesia.
    Quei versi esprimono invece in modo efficace qualcosa di essenziale all’esperienza umana: la fatica di abitare uno spazio e il sogno di trasfigurarne i confini, onde farne una dimora coerente con una figura ideale di sé.
    Quando l’esistenza umana è animata dalla libertà del desiderio, piuttosto che lacerata dalle zuffe delle voglie, avverte il fascino dell’ideale, nella cui luce la realtà si presenta come possibilità, come compito, come sfida, come impegno.
    Solo una severa disciplina assicura però al desiderio un’autentica fecondità, consentendogli di rispondere alla promessa della realtà, ipotecandovi un futuro credibile di novità e di pienezza.
    Quella disciplina, come è emerso nei precedenti passaggi di questa riflessione, non si realizza soltanto nell’emancipazione del volere dalla dittatura delle voglie che lo frantumano, ma anche nell’affascinante tirocinio del sentire, vera apertura al valore del mondo, soccorsa sovente dal rigore delle proibizioni, obbedendo alle quali la libertà non diviene una minaccia per ciò che di più prezioso la realtà le presenta.
    Ma, se l’affinarsi del sentire, rendendo possibile l’apprezzamento e il rispetto dei valori, accompagna e sostiene il compito della libertà, questa è pure chiamata al compimento di sé, attraverso una sorta di diuturna ricapitalizzazione del valore del mondo.
    L’uomo vive così; mentre trasforma il mondo e, nella relazione con gli altri, modifica se stesso, mira a valori che sono insieme riconosciuti e intesi come possibilità e compiti di futuro.
    Ma ogni realizzazione di sé, come ogni relazione umana o rapporto mondano, può essere di segno positivo o negativo e quindi principio di maturazioni o regressioni, di rispetto o violazioni, di progresso o distruzioni.
    Questo è l’affascinante potere della libertà, e anche il suo compito esigente, e la sua inaggirabile responsabilità.
    E tutto ha origine nella concretezza, unico orizzonte disponibile all’uomo.
    Ma pure tutto si compie nella luce dell’ideale, grazie al desiderio, in virtù del quale la promessa inscritta nella libertà e nel mondo si compiono.
    L’isola descritta da Gozzano mostra esattamente l’autonomia del desiderio rispetto agli orizzonti della realtà, ma del desiderio può anche indicare la patologia; quello struggimento capace di mutarsi in paralisi, in nostalgia sterile, in fuga onirica, che arriva a conoscere un degrado assai prossimo a quello delle voglie: non la condanna ad un consumo febbrile, ma una inanità disperata, ugualmente costretta dentro ossessioni fantasmatiche e stranianti rispetto alla realtà.
    Occorre allora procedere nella riflessione sulla libertà: chiamata a vincere la tentazione della fuga dalla realtà ma anche a liberarsi dalla prigionia dell’immutabilità, che vorrebbe lasciare le cose come stanno.
    Chiamata ad aprirsi alla realtà attraverso un sentire che conduce a rispettarne e custodirne il valore, ma anche a promuoverne la trasformazione, in ossequio a quella promessa di senso che, per la libertà stessa, deve divenire cimento.
    Sono le ragioni e le forme di questo cimento a chiedere ora attenzione, vista la loro importanza, ma anche la loro difficoltà. La libertà prende infatti una forma buona riconoscendo la forma buona del mondo e compiendola secondo le proprie possibilità, secondo un ordine e una misura che rendono il mondo più ospitale e le relazioni affidabili.
    Ma questo riconoscimento e questo compimento non sempre si realizzano, e, non di rado, la libertà imbocca la via di qualche sua patologia.
    Perché questo accade?
    È inevitabile questa sorte fallimentare della vocazione umana nel mondo?

    Geografie dell’inospitalità?

    Alcune voci autorevoli della cultura del XX secolo piuttosto che elaborare trasfigurazioni artistiche del mondo hanno lavorato per denunciarne l’inospitalità paralizzante rispetto alle aspirazioni e ai progetti della libertà.
    Da questo punto di vista risulta molto provocatoria l’opera di Kafka,[3] cassa di risonanza autorevolissima del travaglio della coscienza dell’uomo contemporaneo.
    I protagonisti di alcune sue opere incarnano l’estraneità dell’uomo rispetto al mondo, estraneità espressa attraverso le iperboli dell’incommensurabilità sfiancante, della smisuratezza inospitale, delle distanze e delle prossimità minacciose.
    Una figura emblematica di questa estraneità è l’agrimensore K., protagonista de Il Castello.
    Desideroso di esercitare la propria professione, K. tenta in ogni modo di raggiungere un misterioso castello che, forse, l’ha convocato per avvalersi della sua professionalità, salvo poi impedirgli il contatto con la sua stessa amministrazione, attraverso disperanti strettoie burocratiche.
    K. si trova così a soggiornare in un villaggio sovrastato dal profilo attraente e minaccioso del castello, nel quale si muovono abitanti diffidenti, quando non ostili, nei confronti del forestiero, comunque coinvolto nei loro intrecci di vita.
    K. deve progressivamente riconoscersi vittima delle sue stesse aspirazioni – forse neppure del tutto sue, stando ai passaggi del racconto nei quali si allude ad una originaria convocazione giunta all’agrimensore dall’amministrazione del castello –; non gli rimane pertanto che il ruolo tragico di testimone impotente di una distanza impercorribile che lo separa dalla realizzazione del suo progetto, complice un diaframma burocratico e sociale tanto magmatico quanto – insieme – escludente ed invischiante.
    Stare al mondo è per K. subire la costrizione del non senso, dell’inabitabilità dello spazio, della contraddittorietà dei sogni, delle aspirazioni e dei compiti della libertà:
    «In alto il Castello, già stranamente scuro, che K. aveva sperato di raggiungere in giornata, s’allontanava di nuovo. Ma come un cenno di temporaneo commiato squillò lassù un tocco di campana, alato e giocondo, un tocco che faceva tremare il cuore almeno per un istante, quasi lo minacciasse – perché il tocco era anche doloroso – l’adempimento dei suoi incerti desideri».[4]
    Il romanzo di Kafka restituisce così questa misteriosa ed inquietante sproporzione tra gli intenti e le possibilità di K., condannato dagli altri e dal mondo ad un’incomprensibile e reiterata frustrazione.
    Un’altra geografia disperante è offerta da Kafka nel racconto Il messaggio dell’imperatore, nel quale la vicenda de Il Castello è riproposta in forma speculare, ma con analogo significato ed effetto.
    «L’imperatore – così si racconta – ha inviato a te, a un singolo, a un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze dal sole imperiale, proprio a te l’imperatore ha inviato un messaggio dal suo letto di morte. Ha fatto inginocchiare il messaggero al letto, sussurrandogli il messaggio all’orecchio. […] E dinanzi a tutti coloro che assistevano alla sua morte […] dinanzi a tutti loro ha congedato il messaggero. Questi s’è messo subito in moto. […] Ma la folla è così enorme; e le sue dimore non hanno fine. Se avesse via libera, all’aperto, come volerebbe! […] Ma invece come si stanca inutilmente! ancora cerca di farsi largo nelle stanze del palazzo più interno; non riuscirà mai a superarle; e anche se gli riuscisse non si sarebbe a nulla: dovrebbe aprirsi un varco scendendo tutte le scale; e anche se gli riuscisse, non si sarebbe a nulla: c’è ancora da attraversare tutti i cortili; e dietro a loro il secondo palazzo e così via per millenni; e anche se riuscisse a precipitarsi fuori dell’ultima porta – ma questo non potrà mai e poi mai avvenire – c’è tutta la città imperiale davanti a lui, il centro del mondo, ripieno di tutti i suoi rifiuti. Nessuno riesce a passare di lì e tanto meno col messaggio di un morto. Ma tu stai alla finestra e ne sogni, quando giunge la sera».[5]
    In questo racconto, irraggiungibile è il suddito, impossibilitato ad udire il messaggio fondamentale della sua esistenza, che lo garantisce del suo valore agli occhi dell’imperatore.
    Kafka ribadisce qui il suo convincimento: il mondo si rivela essere il luogo ove l’uomo è tenuto ad una crudele ed insuperabile distanza dalle chiavi del proprio mistero.
    I tentativi di accesso a tali chiavi sono condannati allo scacco e annodano all’insensatezza del mondo il fallimento e la contraddittorietà della vicenda umana.

    Le fortificazioni del timore

    Nei testi sin qui considerati Kafka fornisce una lettura dell’esistenza umana a partire dall’ostilità dello spazio con le sue dimensioni, incommensurabili con le esigenze e le possibilità della libertà; ne La tana, invece, l’esperienza del mondo viene ridotta alla tortura della minacciosità, attraverso il singolare monologo di un animale intento a scavarsi un rifugio di cunicoli intricati, vie di fuga, depositi di cibo.
    In questo racconto, lo scavo febbrile, il bisogno di protezione, l’assillo dell’insicurezza, il timore per la precarietà delle difese e il sentore dell’insidiosità dei nemici raffigurano l’esistenza come lotta logorante, tesa a rinviare il proprio soccombere a un nemico invisibile, implacabile, invincibile.
    A differenza delle geografie disperate per le distanze impercorribili tipiche de Il castello e di Un messaggio dell’imperatore, qui è la prossimità a generare angoscia, una prossimità che rende l’altro insopportabilmente vicino:
    «In ogni caso, però, devo avere la sicurezza che in qualche luogo ci sia un’uscita aperta, facilmente raggiungibile, dove io non debba più lavorare per uscire all’aperto, di modo che, mentre vi sto scavando da disperato, sia pure in un ammasso friabile, non mi avvenga a un tratto – il Cielo non voglia! – di sentirmi nelle gambe le zanne dell’inseguitore. E a minacciarmi non sono soltanto i nemici di fuori. Ce ne sono anche nell’interno della terra. Non li ho mai visti, ma ne parlano le leggende e io ci credo fermamente. Sono esseri sotterranei e nemmeno la leggenda è in grado di descriverli. Persino le loro vittime sono riuscite appena a vederli; essi vengono, si sente il raspare dei loro artigli immediatamente sotto di sé nella terra che è il loro elemento, e già si è perduti. E non vale essere nella propria casa, in realtà si è già nella loro».[6]
    Kafka, attraverso l’immagine della tana, stringe in un reciproco riferimento il bisogno dell’uomo di fare dello spazio un rifugio e il timore suscitato dalla minacciosità che trasforma ogni fortificazione in trappola.
    Le rassicurazioni che la tana dovrebbe offrire al proprio artefice si mutano così nel loro opposto; a dominare è l’inquietudine, nutrita dal senso di prigionia, a sua volta generato proprio dal rifugio faticosamente costruito e tanto impenetrabile da mutarsi in spazio dal quale non si dà scampo.
    Se le immagini di Kafka rivelassero la verità ultima del mondo, occorrerebbe concludere che alla libertà sono negati luoghi credibili per una dedicazione sensata di sé e per la costruzione di un futuro desiderabile per gli altri.
    Ad un mondo crudelmente ostile rispetto ad ogni aspirazione umana, ad uno spazio capace di celare insidie ma non di custodire promesse, la libertà non potrebbe volgersi con operosa e fiduciosa speranza.
    Se le cose stessero così, diverrebbe non solo comprensibile, ma giustificata e raccomandabile la capitolazione del volere umano alle voglie, o la fuga dimissionaria della mente e del cuore nell’inconcludenza dei sogni o nella rassegnazione dell’apatia.
    Forse il pessimismo inquieto di Kafka, mentre descrive magistralmente la possibile perversione della convivenza umana, che trascina persino lo spazio in un destino di invivibile inospitalità, tace sull’originario rapporto dell’uomo al mondo.
    È questo rapporto originario, di segno forse diverso da quello tematizzato da Kafka, a legittimare una solida speranza esistenziale, fondamento autentico della responsabilità che chiama la libertà umana al proprio cimento nel mondo.

    Senso della misura e misura del senso

    Se l’intelligenza indaga il rapporto fondamentale che la libertà istituisce con il mondo, ha di che sorprendersi, anzitutto per il modo in cui le intenzioni umane sono confermate nei loro azzardi proprio dalla prossimità promettente della realtà.
    Il cosmo suscita la meraviglia dell’uomo per la misura dalla quale è abitato; persino le sue smisuratezze non provocano quale unica reazione possibile il senso dell’angoscia, tanto sottolineata da Kafka, piuttosto aprono la coscienza allo stupore per il sublime, vera misura ed armonia della dismisura.
    La vertigine che il cosmo produce nell’uomo non riflette, allora, l’angoscia per una sproporzione, ma la sorpresa per una destinazione gratuita, della quale la libertà fa costantemente esperienza: il mondo si rende disponibile a dare corpo alle intenzioni più intime e proprie dell’animo umano.
    Proprio perché destinata all’uomo, la misura del mondo ne suscita l’iniziativa, il coraggio, la perseveranza, per poi custodire l’efficacia creativa dei suoi gesti.
    Questa è la vera radice del realismo e della serietà della libertà.
    La stessa misura della libertà, prima di assumere i caratteri del gesto riuscito ed efficace, ha il volto del desiderio, formato dalla misura del mondo.
    Se il mondo non anticipasse il desiderio, conferendogli forma e animando l’audacia della libertà, non si comprenderebbe e non si darebbe l’effettività della sua presa sulla realtà.
    Comprendere la struttura della libertà a partire dalle misure del mondo che le danno forma, concretezza e consistenza, permette di uscire dall’equivoco di una libertà audace e protagonista solo se sregolata.
    Piuttosto, la libertà si irrobustisce perché nutrita dalla misura, dal senso del mondo, che ne suscita l’iniziativa, ne ispira i progetti e di questi promette il compimento.
    Basta osservare ogni figlio dell’uomo alle prime armi con la ricchezza del mondo, per riconoscere, nella sequenza delle sorprese che accompagnano le sue esplorazioni, una risposta all’incanto della realtà nel suo ordine, nella sua misura, nella sua ospitalità per la libertà, che si stupisce di potervi avere presa ricevendo in dono la conferma delle proprie iniziative.
    Nutrita dalla misura del mondo, che le si offre come regola, e alla cui scuola deve ogni sua competenza, arte e industria, la libertà non è generata nell’angoscia per la smisuratezza dell’ambiente in cui vive, né cresce nella protervia di una sregolatezza impudente.
    La libertà umana è generata e cresce nella scoperta del reciproco convenire di uomo e cosmo; e di qui accede all’evidenza della regola come grazia e della misura come dono.
    Ispirata a queste evidenze, una riflessione sulla natura ultima delle regole potrebbe prodursi fuori dagli equivoci del convenzionalismo o del libertarismo, che tanto lusingano la cultura contemporanea.
    Un’insidiosa retorica ideologica vorrebbe far risalire ogni norma alle pattuizioni opportunistiche di libertà costrette a convivere e interessate a limitare le intemperanze dell’arbitrio e la violenza di reciproche ostilità.
    Non così nascono le norme: le norme capitalizzano le competenze della libertà, tesaurizzano le sue misure, apprese attraverso l’accoglienza delle misure promettenti della realtà.
    E proprio il capitale di ordine e misura custodito dalle norme, se alla realtà assicura la novità del futuro che la libertà è in grado di produrvi, alla libertà semplicemente assicura vita, nella prospettiva di un compimento felice.
    Di qui la contraddizione, lesiva della dignità umana, quando le convenzioni o gli arbitrii interessati, di pochi o di molti, si appropriano della costitutiva vocazione della libertà ad accogliere la regola e a prodursi secondo misura, per farne strumento di schiavitù e di ingiustizia.
    Proprio la possibilità di una degenerazione tanto delle norme che del ricorso civile e sociale ad esse non giustifica una loro comprensione equivoca o un’indebita diffidenza circa il loro valore.
    Scoprirne piuttosto la verità ultima, nei termini di dono essenziale alla genesi e al compimento della libertà, non onora soltanto l’obbligo dell’onestà intellettuale, ma offre una speranza più autentica ad una rinnovata educazione morale.

    Dunque?

    La drammatizzazione dello sconcerto umano di fronte alle misure del mondo ha impegnato la fatica letteraria di molti autori del Novecento, a riprova della serietà di una sfida collocata al cuore dell’esistere.
    Riconoscersi posta nel mondo non dalla casualità di un destino cieco o dalla beffa di un disegno crudele, ma dalla convocazione di una promessa di senso, è per la libertà un dato, la cui appropriazione ha il carattere affascinante e severo di un compito.
    Di un compito che vale la vita.
    Ad istruire la coscienza sulla proporzione che il cosmo manifesta rispetto alle sue istanze è proprio l’esperienza. Un’esperienza che può essere negata soltanto dagli strabismi di un arbitrio smisurato, o ottenebrata da un timore che confina la libertà nell’angustia del proprio sospetto.
    Una libertà educata invece a dare la parola al mondo, si lascia generare alla propria misura dalla misura di quanto le si dona, e, sorpresa dalla grazia di questo misterioso e felice convenire reciproco, trova in esso le ragioni della sua audacia e del suo vigore.


    NOTE

    [1] G. Gozzano, La più bella, in Id., Poesie (Biblioteca Universale Rizzoli – Classici), Rizzoli, Milano 1977, 381.
    [2] La fatica umana di elaborare un rapporto felice con la realtà è motivo ispiratore dell’intera opera poetica di Guido Gozzano (Torino 1883-1916), nella quale affiorano tratti tipici delle poetiche crepuscolari del primo Novecento: dall’urgenza di una trasfigurazione del mondo per farne una dimora più congeniale alle aspirazioni dell’animo, al desiderio di adesione alle consuetudini più feriali dell’esistere, per godere della loro semplicità.
    [3] Tra le voci più tormentate della cultura del Novecento certamente quella di Franza Kafka (Praga 1883-1924) si segnala per l’insistenza con la quale sottolinea non soltanto l’assurdità dell’esistere umano, ma il suo essere in balia di trame maligne e beffarde che si accanirebbero nel determinarne un destino infelice e perennemente angosciato.
    [4] F. Kafka, Il castello (Oscar Mondadori 966), Mondadori, Milano 1979, 55.
    [5] F. Kafka, Un messaggio dell’imperatore, in Id., Tutti i racconti (Oscar Mondadori 951-952), 2 voll., Mondadori, Milano 1979, qui I, 235-236.
    [6] F. Kafka, La tana, in Id., Tutti i racconti…, II, 225.


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