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    Una pastorale giovanile «con cuore»: accoglienza incondizionata e alfabetizzazione emotiva


    José Luis Moral

    (NPG 2011-09-06)


    Anni fa [NPG 2(2005), 34-42] scrissi sullo stesso tema, anche se da un altro punto di vista, quello dei desideri e i sentimenti in rapporto all’«esperienza di Dio» e, più concretamente, del suo amore gratuito e incondizionato come strada per superare sia il desiderio che soffoca la fede che la fede che uccide il desiderio. Allora, alla fin fine, proponevo il passaggio dalla cultura del desiderio alla cultura del cuore, immaginando la pastorale giovanile come una specie di «maieutica educativa».
    La nostra relazione con Dio necessariamente assomiglia al modo in cui viviamo i rapporti con noi stessi e con gli altri. In questa prospettiva, cerco adesso di approfondire il tema di quell’articolo a partire della vita dei giovani, dalla loro identità-affettività e la conseguente riposta «con cuore» che corrisponde alla pastorale giovanile.
    La struttura di quanto segue è abbastanza semplice:
    – uno sguardo alla vita dei giovani;
    – da dove scaturisce la sfida dell’«accoglienza incondizionata»;
    – come chiave per concretizzare alcuni elementi di una pastorale giovanile con cuore.
    Ovviamente non cerco di proporre cose «per» le nuove generazioni; intendo piuttosto pensare – nella misura possibile – «dal punto di vista dei giovani», «con» e «dalla parte loro»… nella speranza che tutti possiamo crescere e maturare insieme.[1]

    IDENTITÀ E LABIRINTI SENTIMENTALI

    Nel momento determinante nella costruzione dell’identità personale e di fronte al compito di imprimere la rotta vitale al proprio comportamento, la gioventù incrocia un contesto sociale che non favorisce per niente simili imprese.
    Nell’attuale «situazione di mercato del senso», anzitutto, e senza voler nascondere o negare la responsabilità delle scelte che ciascun ragazzo o ragazza fa, appare quasi naturale che le nuove generazioni propendano per un «presentismo vitalista», desiderando sperimentare, accedere a tutto direttamente e in modo immediato: ovvero, cercando la felicità «qui e adesso», e consumandola individualmente più che riferendola ad imprese collettive.

    Identità e relazioni: vittime, più che colpevoli

    Viviamo ormai con un nuovo «stato di coscienza»[2] che, tra tante altre cose, si forgia lentamente e al quale non mancano avversità. La maggiore: la società attuale rende difficile – e perciò più urgente – la ricerca dell’identità
    «perché propugna una individualizzazione feroce. Non esistono i ruoli sociali, né identità strutturate; non ci sono modelli etici, esiste un contrastante politeismo di valori… Il tipo occidentale di società individualizzata costringe a ricercare soluzioni biografiche a contraddizioni sistematiche. Per esempio, non esiste un’idea chiara per comprendere in cosa consiste essere uomo o essere donna, e l’unica soluzione appare quella di ‘ciascuno risolva il problema a modo suo’. […] Mai si è chiesto tanto all’individuo come adesso. Per possedere più libertà, per essere obbligato a inventare la sua vita senza manuale d’istruzioni, dovrà rimanere in uno stato permanente di scelta e (in)decisione. Per tale motivo, risulta così urgente che i nostri ragazzi imparino a vivere quest’autonomia, piena di possibilità e di rischi».[3]
    A ragione si può affermare che la società moderna si è trasformata in una rischiosa «società dell’azzardo», dove – tra gli aspetti relativi al nostro tema – si esalta il protagonismo simbolico dello «stile di vita giovane» che, «come uno tsunami gigantesco, ha invaso le strade e le piazze, i luoghi di festa e divertimento, le abitazioni familiari e le stanze dei ragazzi, e tanti altri spazi sociali; senza dimenticare lo stesso corpo giovanile e il suo abbigliamento o scarsità del medesimo».[4]
    Lo stile di vita, in principio, rappresenta l’insieme di forme alternative nel vivere della gente quando è libera dalle restrizioni del lavoro e può stabilire relazioni sociali o fare qualcosa di «spontaneo e con senso» nella propria esistenza. In buona misura, ciò appare come il risultato globale del sistema di valori e atteggiamenti di una persona: M. Weber presentò lo stile di vita come la forma privilegiata per esprimere lo status o la posizione sociale; Th.B. Veblen completò la definizione situandolo nell’orizzonte di un «consumo ostentativo».
    Oggi più che mai, in definitiva, abbiamo deciso che «la vita è giovane!» e, quindi, ci troviamo in un costante processo di giovanilismo che si spande ovunque. Parallelamente – e burlescamente – abbiamo provocato una ingiusta e impudica svalutazione dei giovani: assegniamo loro un’identità, ma ne occultiamo l’entità; vendiamo dovunque la «figura giovane», ma i giovani non possiedono nessuno spazio sociale proprio. Se nel passato le persone si truccavano per apparire più vecchie, in questo momento succede proprio il contrario: la «forma giovane» si è trasformata in uno dei grandi referenti, quasi mitologici, della nostra cultura, forse l’unico modello socialmente disponibile per tutti.
    Stereotipi a parte, è ovvio che il giovanilismo nasconde una società piuttosto invecchiata e immedesimata nella glorificazione culturale dell’«essere giovane»; una società dunque che porta male il suo invecchiamento, per la semplice ragione di limitare il valore della persona pressoché alla sola efficacia, alla redditività e all’esito. Tuttavia, non risiede qua l’aspetto più deprecabile della vicenda, ma nello sfruttamento dei giovani che tutto ciò comporta.
    Qui sta il punto: il primato simbolico dello stile di vita giovanile maschera una società che, nella pratica, abbandona i ragazzi alla loro sorte, li rilega agli ultimi posti nella gerarchia degli interessi che la muovono; basterebbe un’occhiata ai numeri paurosi della disoccupazione giovanile per convalidare questo dato così palese. Ma altrettanto evidenti risultano fatti come i seguenti: 1/ la fragilità della famiglia e le sue ripercussioni sia per l’equilibrio affettivo che comportamentale dei ragazzi; 2/ le dinamiche consumiste, strettamente legate al mondo della pubblicità, innalzate al rango di traccia essenziale per l’identità e l’integrazione sociale; 3/ il desiderio dei giovani, tante volte frustrato, di sentirsi necessari, di sapere che qualcuno ha bisogno e conta su di loro.
    La relegazione sociale delle nuove generazioni li obbliga a prolungare ogni volta di più l’«età giovanile» e, in tale situazione, subentra la cosiddetta «sindrome di Peter Pan», ovvero del ragazzino che non vuole o non lo lasciano crescere. Questo scenario produce un forte impatto sulla formazione del senso della responsabilità, poiché si rinvia indefinitamente la presa di decisioni, situando una buona maggioranza degli adolescenti e dei giovani nella prospettiva di spettatori permanenti, anziché renderli partecipi e responsabili attivi della loro vita personale e dell’ambiente sociale.[5] Di conseguenza, gli stili di vita dei giovani si identificano con i loro modi di vivere il tempo libero e l’ozio, dove il gruppo dei pari impone la sua legge: una legge (o tirannia) del piacere puro e duro fino al godimento del corpo, della sua bellezza e della sua forza, senza escludere la violenza.
    Già negli anni Sessanta del secolo scorso, T. Parsons segnalava che l’agitazione e l’ansia di fronte alle questioni dell’identità costituiva la cifra più significativa della vita giovanile. E. Erikson affermò a ragione che l’identità (self) si presenta sia sotto forma di concetto che di esperienza di sé. Non pretendendo di entrare nelle profondità teoriche dell’argomento, indico unicamente l’importanza determinante della situazione socio-culturale nella ricerca dell’identità da parte dei giovani: 1/ non pochi di loro, disorientati dallo sconcerto originato dalla struttura sociale, si trovano a non sapere in quale progetto umano imbarcarsi, sia per mancanza di motivi, ideali o modelli, sia perché non trovano un lavoro stabile; 2/ il clima culturale postmoderno, per tutte le ragioni suddette, finisce per privare le nuove generazioni di quadri di riferimento e del «muscolo etico» con cui acquisire la fortezza interiore, necessaria per affrontare la costruzione della propria personalità.
    La complessità storica che caratterizza il nostro tempo, d’altro canto, comporta cambiamenti assiologici, conviviali e comportamentali di uno spessore tuttora difficile da precisare. In ogni caso, la rotta dei sopraccennati cambiamenti pare siglata dai venti del soggettivismo. L’asserzione si adegua alla realtà, in modo particolare nel caso dei giovani. Essi infatti reagiscono di fronte alla complessità sociale e culturale rinchiudendosi con esercizi ricorrenti di soggettivismo: ognuno si erige a padrone del bene e del male; padrone, inoltre, senza un minimo di identità stabile o comunque con un’identità fragile e malleabile, debole, precaria. L’attuale generazione giovane, in questo senso, viene battezzata giustamente «generazione silenziosa», isolata e del menefreghismo; «degenerazione puntuale» o generazione di «giovani che si trovano condannati ad essere giovani».[6]
    Infine, la raffigurazione o l’immagine che di se stessi hanno i ragazzi non è troppo lusinghiera. Tolta la tolleranza e – fino ad un certo punto – l’assenza di pregiudizi, il consumo e l’indipendenza si sono trasformati nei loro primi segni d’identità. Per di più, l’indipendenza giovanile non si identifica con autonomia o emancipazione, ma con la difesa del privato quale spazio di creazione del proprio carattere, di nuove forme di vita e di sperimentazione. Ed è il consumo, non guasta ripeterlo, il tratto principale dell’identità: consumo e più consumo, «soprattutto nell’ambito del divertimento e dei hobby tipicamente giovanili, la musica in prima fila».[7]

    Il labirinto sentimentale dei giovani

    Il vecchio paradigma moderno prospettava un ideale di ragione svincolata (liberata?) dagli impulsi dell’emozione; il nuovo, in cambio, propone di armonizzare la testa e il cuore. Non molto tempo fa arrivavamo a concludere che i sentimenti sono indispensabili per la presa razionale di decisioni. «In un certo senso – riconosce D. Goleman – abbiamo due cervelli e due menti o due diversi tipi di intelligenza: quella razionale e quella emotiva. Il nostro modo di comportarci nella vita è determinato da entrambe […]. Di fatto, l’intelletto non può funzionare al meglio senza il concorso dell’intelligenza emotiva».[8]
    La cultura attuale, d’altro canto, si basa sull’esaltazione del mondo affettivo-emotivo, soprattutto del desiderio e della sua soddisfazione. Mercato, pubblicità, ansietà, depressione, violenza, ecc., si alleano con l’onnipresente consumo, «quel mondo sociale delle appetenze e quel regno momentaneo dei capricci […]: siamo nella moda dei desideri «usa e getta», effimeri, intensi e urgenti che ha contagiato il nostro mondo affettivo, il quale si ritrova fragile perché incita ad un edonismo inquieto e abbastanza scettico».[9] Di conseguenza, gli educatori debbono essere più che consapevoli che la strategia pedagogica primaria consiste nell’agganciare la loro proposta ad alcuni dei desideri basilari dei giovani; c’è di più: entra qui l’aspetto dell’«educazione della volontà» che, purtroppo, ancora non gode dell’attenzione prestata all’«educazione dell’intelligenza».
    Dopo tante ricerche sulla gioventù, siamo ormai arrivati a collocare alcune tessere importanti del puzzle affettivo ed emotivo dei ragazzi. Le ricordo, enumerandole con un pizzico d’ironia e senza altri commenti:[10] 1/ crescono, in genere, senza avere la garanzia di un «clima affettivo» adeguato, indispensabile per l’equilibrio dei sentimenti, e con un deficit significativo di modelli, di autorità e di maestri per «imparare a vivere»; 2/ la loro denuncia dell’esclusione sociale che subiscono o i loro desideri di «sentirsi necessari», più spesso di quanto sia auspicabile, affogano negli oceani del divertimento, del sentirsi a loro agio; 3/ tanto le relazioni con la famiglia quanto, specialmente, con i loro pari riescono a poco più che facilitare la costruzione di una nicchia, di un rifugio dove gestire il «proprio tempo», riscoprire il corpo e gli affetti. In sostanza, a consumare e concludere senza sapere bene quello che vogliono, perché (tra l’altro) il tutto si va sfumando e i progetti o gli ideali si confondono fino a non sapere nemmeno quello che possono, che sono in grado di conquistare. Tale ignoranza si riferisce soprattutto alle proprie qualità e, parallelamente, a quanto possono aspettarsi o a quello che veramente vale nella vita.
    Visto dal di fuori, è possibile parlare di una specie di puzzle; dal di dentro, i giovani vivono in un ingarbugliato labirinto affettivo-emozionale.
    Il nostro primo rapporto con il mondo è affettivo. Al riguardo, se la meteorologia familiare delle nuove generazioni non è troppo benevola, il contesto socio-culturale neanche aiuta. Al contrario: predominano temperature torride e soffocanti, ovvero apoteosi dei sensi, furia delle pulsioni e manipolazione, senza scrupoli, dei desideri. Così stiamo costruendo una «società di eterni adolescenti», con una pericolosa mollezza emotiva che inocula nei giovani il virus del «volere che non arriva a forgiare» solidamente. Per questo fatto, scarseggia la ricerca del «costruire sulla roccia». La plasticità affettiva può facilitare la costruzione di persone flessibili, comprensive, dialoganti, piacevoli e aperte, eppure sempre esposte a finire alla mercé del vento, a lasciarsi tarlare la speranza, a ridurre il dialogo ad un semplice rumore di parole, a non volere o non sapere fronteggiare le salite della vita.[11]
    Ancor di più: uno dei maggiori paradossi della nostra società, da un lato consiste nel far crescere i bambini troppo rapidamente, accorciando l’infanzia per obbligarli poi a rimanere in una quasi perenne mistura di adolescenza e gioventù; dall’altro, se in questo modo li si vuole rendere in fretta autonomi, la cultura e l’educazione contemporanee non cessano di produrre esseri dipendenti, attaccati oltre misura alle persone e alle cose. Risultato: rimangono più o meno imbrigliati in una cultura narcisista, ossia dell’«amore liquido» (Z. Bauman) condito con una sessualità, in pratica, equiparata a genitalità. Vale la pena aggiungere che simile imbroglio comporta un analfabetismo affettivo che intorpidisce assai l’obbligo di riempire la propria vita psicologica o, meglio, la necessità che ogni giovane conquisti e occupi il suo spazio interiore.
    In fin dei conti, tutto spinge i giovani a sperimentare senza altra preoccupazione, per così dire, che non sia quella di godersi il momento presente; l’indomani, oltre ad essere incerto, è piuttosto lontano. Perciò, oggi e ora, sentimento, cioè lasciarsi sedurre dai desideri, dalle emozioni, ecc.; domani, più tardi, sarà la volta della ragione, ovvero dell’impostare sul serio la vita. La società, la famiglia e gli amici convalidano questo disegno giovanile, sebbene – in buona misura – si vada avanti alla cieca, provando, sperimentando, togliendo e ponendo. E così ci imbattiamo in persone carenti di ideali collettivi e altruistici, ogni volta più omogeneizzate attraverso una concezione edonista e narcisista dell’esistenza, puntellate da una cultura della soddisfazione egoistica.
    Tanta soddisfazione finisce per accecare, soprattutto quando arriva il tempo di pensare ad un progetto di vita. Inoltre, essendo così incerto il futuro, «carpe diem!» – sembra esclamare visceralmente la gioventù odierna. Il presentismo è un sintomo chiaro di come sono chiusi gli orizzonti mentali e vitali. Simile mancanza di orizzonti, più che un netto segno d’identità, forse è la reazione naturale di fronte alla paura del futuro.[12]

    RAGIONE COMPASSIONEVOLE E ACCOGLIENZA INCONDIZIONATA

    Davanti alle nuove generazioni, specialmente se si tiene conto della realtà attuale delle loro vite, la prima condizione per l’annuncio del Vangelo passa attraverso il «sentire con loro», ossia attraverso la compassione (patire cum) e l’empatia: solo una «ragione compassionevole» o un intellectus misericordiae (J. Sobrino) avvertirà come i giovani, purtroppo, più che immagine e prefigurazione del futuro, sono un fedele riflesso degli spropositi socio-culturali del presente.
    Qui di seguito, indico semplicemente alcuni atteggiamenti di base che, coscienti della situazione, debbono presiedere tanto l’identità della pastorale giovanile come, soprattutto, il lavoro degli animatori con i giovani.

    Nuova alleanza con i giovani

    Affermava G.K. Chesterton che l’uomo moderno è come un viaggiatore che ha dimenticato dove sta andando e che per verificare la sua destinazione deve tornare al luogo di partenza. È un po’ quello che capita anche riguardo ai compiti della prassi cristiana con i giovani. Il mondo attuale obbliga a fare le cose in maniera precipitosa. Siamo intossicati dalla fretta. Non abbiamo la tranquillità sufficiente per constatare quanto meravigliosamente misteriosa sia la vita. Tutti avvertiamo, in fondo, che questa è la verità e non il suo contrario.
    L’impegno educativo proprio della pastorale giovanile dovrebbe proporsi un cambio di ritmo e, soprattutto, una specie di nuovo patto o alleanza con i ragazzi.
    Più che amore, alleanza: mentre l’amore o la carità accentuano il protagonismo di chi vuol bene all’altro, la parola alleanza – oltre alle risonanze bibliche che contiene – sposta l’accento verso la reciprocità del rapporto – coniugando l’amore con il rispetto e il diritto alla differenza di quelli che amiamo –, mentre sottolinea il vincolo, la promessa e l’impegno. La prima cosa da fare, quindi, è porci gratuitamente e incondizionatamente dalla parte dei giovani: allo stesso modo in cui Dio promette di «essere con» il suo popolo: nonostante le infedeltà con cui Israele vive l’alleanza, così anche noi dobbiamo «essere con e dalla parte» dei giovani.
    Quest’alleanza richiede, dunque, l’accoglienza incondizionata come atteggiamento educativo di base.

    La profezia della accoglienza incondizionata

    Nel contesto in cui viviamo risulta specialmente urgente un «profetismo della denuncia» (I. Ellacuaría) che tracci le vie dell’utopia del Regno, a partire dall’opzione fondamentale per i poveri e seguendo il filo rosso della profezia storica di Gesù: «Che abbiano la vita, e l’abbiano in abbondanza!». La profezia di cui ha bisogno la pastorale giovanile non è lontana da queste impostazioni; con l’aggiunta di una essenziale particolarità: più che di un profetismo di denuncia, i giovani necessitano primariamente di un profetismo dell’accoglienza incondizionata.
    Salta subito agli occhi l’attualità e l’urgenza di un enunciato del genere. In una società dove tutto assume i toni dell’utilità, dove tutto si compera e si vende, dove più che amicizia esiste scambio – perché quello che conta sono i «rapporti buoni» più che i «buoni amici» –, come non riconoscere che abbiamo bisogno soprattutto di gratuità, di accoglienza, di apertura incondizionata verso il prossimo, verso i giovani?
    L’utopia è, quindi, l’orizzonte del cuore; l’accoglienza incondizionata, il metodo educativo primordiale: l’«utopia del Regno» per comunicare speranza; il «metodo dell’accoglienza» per disarmare. Un’accoglienza capace di restituire vita ai giovani lasciati dalla nostra società in balia delle intemperie e dei venti che li trascinano di qua e di là.[13]

    «Decentrarsi»

    Pensare l’esperienza cristiana con e dai giovani, indubbiamente, ci «decentra» o, meglio, ci sconcerta. È abituale nei nostri ambienti affrontare i problemi incominciando – affermiamo solitamente – «da dove si deve sempre incominciare», cioè: pregando, ascoltando la Parola di Dio, ritirandoci a riflettere e discernere, esaminando i criteri e altri orientamenti della Chiesa o della propria istituzione religiosa; e, infine, mettendoci davanti al tabernacolo affinché sia Dio ad orientarci e dirigerci.
    Tutte cose buone e consigliate. Tuttavia, trattandosi della prassi, non opportune da scegliere come punto di partenza, giacché possono impedirci di mettere a fuoco i problemi: dislocandoli o mistificandoli (prima di analizzare la situazione e le persone all’interno di essa, gli sforzi si concentrano nell’applicazione della «dottrina» o nel trasferire «orientamenti» da una parte all’altra) e spiritualizzandoli (le situazioni vengono sostituite progressivamente dagli aiuti, cioè, dal bene che si può e si deve fare in tali circostanze).
    Quelli che si dedicano alla riflessione pastorale o alla pastorale giovanile non cercano di interpretare la parola di Dio e la tradizione della Chiesa per organizzare o suggerire i contenuti dei progetti…; ma piuttosto seguono un cammino contrario: partono con e dalla parte dei giovani, dal contatto diretto con la loro vita; sono i loro volti il «campo base» e il punto di partenza per «educare alla fede». In principio, si tratta di riflettere a fondo «con» loro come e perché trovano così difficile o persino impossibile credere, e di ricostruire poi con sincerità radicale (ripensando a quanto ci segnala la Scrittura e la tradizione) quello che vogliamo dire loro nel momento di parlare di Dio, di Cristo, dello Spirito e della salvezza. Solo così potremo andare incontro a molti giovani cristiani che non sono in grado di sintonizzare le loro ricerche di senso con quanto offre la comunità ecclesiale.

    Tempi, spazi e temi

    Questo decentrarci, quindi, deve condurci a incontrare e condividere con le nuove generazioni luoghi, tempi e temi:
    – i tempi della vita quotidiana, il tempo libero e il tempo interiore;
    – gli spazi della casa e della scuola, della strada e dell’interiorità;
    – i temi del senso, dell’identità vincolata alla solidarietà, della paura e dell’invocazione.
    La prima realtà da condividere educativamente con gli adolescenti e i giovani, soprattutto da parte dei genitori e degli educatori, è il tempo della vita quotidiana – negli spazi della casa e della scuola – per mettere sul tavolo il tema del senso. L’educazione consiste essenzialmente nell’insegnare-imparare a vivere, nel guidare affinché ognuno capisca come condurre il treno della propria vita su binari umani.[14]
    Ciononostante, l’educazione dei giovani si gioca più fuori che dentro la scuola. Il tempo libero e il gruppo dei pari marcano i confini di quello che considerano anzitutto il loro territorio. Gli spazi si distribuiscono un po’ dovunque (la loro cameretta, la strada, le zone d’incontro, ecc.) e sono sempre attraversati da un criterio unificatore: relazionarsi, stare insieme. Qui, in questo tempo e spazio, avvengono le negoziazioni fondamentali sull’identità. Ed è tra queste negoziazioni che dobbiamo introdurre la solidarietà, tramite le relazioni educative mantenute attorno a progetti che li aiutino a liberare questo tempo considerato (falsamente) libero.
    Ci manca, infine, il tempo e lo spazio più spinoso, dinanzi ai quali sovente abbiamo un po’ di paura e dei quali è solito fuggire: il tempo e il luogo interiori, quel «tempo senza tempo» e quel «autentico non luogo» che attraversano e sono sempre presenti in qualsiasi istante della nostra vita, accompagnati da un vissuto ugualmente onnipresente, la solitudine. Da entrambi, tutti cerchiamo di scappare. Nel caso dei ragazzi, attraverso il recupero e l’educazione dell’interiorità, dovremmo risvegliare con prudenza le paure che abitano questo tempo per fronteggiarle e, magari, scoprire quello che sta più in là di quanto si vede.

    ORIZZONTE DI UNA PASTORALE CON CUORE

    Oggi più che mai, se fosse possibile, «alla gente piace sentire. Sia quello che sia» (V. Woolf). Il labirinto sentimentale non è solo un’esperienza alla moda, né indica soltanto che ci interessano i nostri sentimenti, ma che i sentimenti sono gli organi attraverso i quali percepiamo quello che è interessante, quello che ci importa. Per questa strada passa una chiave essenziale che condiziona in modo particolare e profondo la vita delle persone (per ragioni ovvie, soprattutto quella degli adolescenti e giovani): il nostro contatto di base con la realtà è sentimentale e pratico. In effetti, sentimenti e desideri sono quelli che ci trasmettono la prima e fondamentale informazione circa noi stessi e il mondo che abitiamo, così come costituiscono anche il trampolino per saltare aldilà di entrambe le realtà.

    Cultura del desiderio e cultura del cuore

    Tento di annodare alcuni dei fili precedenti. In buona misura, almeno dal punto di vista psicologico, il desiderio appare come madre della fede:[15] credere, tra le altre cose, significa disporre di una fiducia fondamentale nella vita, vale a dire, essere sicuri – con una certezza che non è dimostrabile – che la vita e il mondo possiedono un senso e una logica che, in ultima istanza ed esplicitato con il termine che forse esprime come nessun altro l’essenza della religione, permette di «sentirci salvati». Insomma, credere rimette alla fiducia che alla fine, capiti quel che capiti, non affonderemo in un pozzo senza fondo, bensì saremo accolti e sostenuti per non finire nel nulla.
    Siamo una pluralità di desideri e, alle volte, di desideri opposti. Il contesto attuale di «apoteosi delle pulsioni» e «manipolazione dei desideri» complica oltremodo questa stessa identità. Cosicché, per la vita in genere – e per l’esperienza religiosa in particolare – la questione fondamentale che si pone è quella di ordinare i desideri, di incontrare, cioè, un asse in grado di strutturare e organizzare l’insieme degli aneliti e aspirazioni che muovono l’esistenza di ogni persona.
    Qui non posso entrare nei dettagli; il primo momento nel processo di organizzazione dei desideri, però, consiste nel riconciliarci con loro, riconoscerli e assumerli; siamo esseri di desiderio, quindi, e grazie ad essi ci configuriamo come persone capaci di amare e di progettarci più in là di quanto siamo. La cultura del desiderio non è cattiva in quanto incita a desiderare, ma in quanto disorienta e porta a coltivare una forma egoista di desiderare.
    Il desiderio è sempre triangolare, ovvero, necessita di «un terzo» che possa mediare tra noi e quello che desideriamo. Ebbene, per tanti motivi, la cultura attuale ha trasformato il desiderio da mezzo a fine: quando il desiderio dovrebbe servire per «essere così», in fondo si è mutato in puro stimolo del desiderare per desiderare (e sempre consumare). Per riconciliarci e ricuperare la mediazione del desiderio, bisogna passare alla cultura del cuore: solo in essa saremo capaci di riconoscere i desideri che ci permettono di amare e di sapere dove andare. A ragione, consideriamo più umano lasciarci sedurre dal cuore che non dal mero desiderio, in quanto il primo ci permette di capire il fine e il senso del secondo.
    Lasciarci sedurre dal cuore comporta, dunque, cercare di acquisire la capacità di svegliare i sensi interni per scoprire il vero oggetto di desiderio in grado di dare senso all’esistenza.

    Alfabetizzazione ed educazione emotiva

    Il labirinto sentimentale delle nuove generazioni ha una delle sue radici nell’analfabetismo emotivo in cui vivono. Perciò, la famiglia e la scuola sono chiamate in causa per prime; oltre a che nella crisi di entrambe (possiamo pensare, per esempio, ai cambi radicali nella concezione del matrimonio e della sessualità) risiede ugualmente una delle ragioni fondamentali di questo ambiente labirintico. A nessuno sfugge che le difficoltà della famiglia e della scuola determinano in grande misura gli argomenti sviluppati in precedenza; tuttavia, entrare nei dettagli va oltre le possibilità di queste righe.[16]
    Gli assurdi più terribili della nostra società forse si trovano qui: siamo praticamente arrivati a considerare come «dati normali» quelli che finora venivano considerati i più allarmanti. Mi riferisco, senza esaustività, al triplicarsi del numero dei bambini che hanno bisogno di aiuto o sostegno psicologico (perché già a partire dai primi anni si manifestano disfunzioni fino a poco fa sconosciute, e incominciano malattie mentali, l’ansia e la depressione), all’aumento della violenza e del suicidio negli adolescenti e nei giovani, ai disordini alimentari, all’alcolismo e alla droga.
    Insieme ai problemi di attenzione e di ragionamento, da una parte, o alla delinquenza e all’aggressività, dall’altra, il ritratto delle nuove generazioni, purtroppo, include i toni oscuri delle ansietà e delle depressioni che si vanno impossessando di tante giovani vite. Ciò è così palese da far affermare senza dubbio che il secolo XX si è caratterizzato come l’«era dell’ansietà» e, se nessuno lo rimedia, il nuovo millennio si trasformerà nell’«era della malinconia». Molti dati, infatti, sembrano indirizzare verso una epidemia di depressione a scala mondiale, cioè verso una specie di virus prodotto dall’espansione dello stile di vita contemporaneo.
    Famiglia e scuola, per tanti motivi, stanno perdendo quei terreni che devono riconquistare con urgenza: in primo luogo, la fiducia basica nella vita da trasmettere ai ragazzi; poi, una tradizione con senso, la fortezza d’animo e la volontà affinché i giovani costruiscano se stessi; e quindi l’humus dell’accoglienza incondizionata perché non si secchino i cuori o compaiano quei deserti emotivi che avvelenano la crescita delle nuove generazioni.
    Ciò riconosciuto, bisogna aver conto di altri due aspetti importanti: 1/ la questione centrale dell’«apprendimento dell’amicizia»; 2/ il problema dei mezzi de comunicazione e delle nuove tecnologie che, con troppa frequenza, neutralizzano la differenza fra interiorità ed esteriorità (si legga «reality show», «grande fratello»… e la loro impresentabile ostentazione dell’intimità, confusa con la sincerità) oppure, quando si tratta di Internet, omologano realtà e virtualità.
    L’alfabetizzazione emotiva che spetta, in particolare, tanto alla famiglia come alla scuola, deve organizzarsi attorno al passo «dai desideri ai progetti», azione distintiva dell’essere umano (che ci umanizza!) dipendente tanto dall’intelligenza come dalla volontà (tenendo conto della situazione, si può aggiungere: più dall’ultima).
    Tale alfabetizzazione è strettamente legata all’educazione della volontà, senza la quale ci diventerà ogni volta più impraticabile imparare a vivere e a convivere. In conclusione, oltre al ruolo imprescindibile delle famiglie, è necessario «scolarizzare le emozioni»: «L’apprendimento non avviene a prescindere dai sentimenti dei ragazzi. Ai fini dell’apprendimento, l’alfabetizzazione emozionale è importante come la matematica o la lettura».[17]
    Ho già avvertito dell’importanza capitale di agganciare l’educazione ai desideri fondamentali; d’altro canto, la relazione dei desideri con la cultura sempre è duplice: la cultura è la progettazione o, meglio, il prolungamento umano dei desideri e, nel contempo, determina questi stessi desideri proponendo modi concreti di soddisfarli.[18]
    In principio, i processi di alfabetizzazione e, in genere, quelli educativi devono identificare l’avventura della crescita con le idee di base della personalità, ossia con la realizzazione di ogni essere umano attraverso una concreta definizione del carattere (abiti affettivi), l’intelligenza (abiti cognitivi) e la «prassi» (abiti operativi).[19] Simile impresa si riferisce all’acquisizione di una identità consistente; inoltre, l’identità deve costruirsi a partire del «riconoscimento dell’altro», sotto pena di buttare più legna al fuoco dei soggettivismi, degli individualismi e degli egoismi.

    Allungare o progettare i desideri: cittadinanza cosmopolita e responsabile

    Sentimenti ed emozioni – mi si permetta la semplificazione – dipendono dal desiderio, sebbene possano anche causare nuovi desideri. Qui risiede il quid: diversamente dagli altri esseri vivi, l’intelligenza umana è in grado di «allungare i desideri» nei progetti, proiettandoli cioè verso il futuro o costruendo un progetto. Il desiderio, in qualche maniera, sorge dalla spaccatura del circuito animale dell’azione; perciò, in senso stretto, il desiderio è una «esclusiva umana» e implica la rottura della catena «stimolo-risposta» con l’inserimento della libertà nel progettare la risposta, senza che questa sia determinata automaticamente dallo stimolo.
    In fin dei conti, dobbiamo «educar-ci» con la realtà, qui e ora!, affrontando le sfide attuali della vita collettiva. Al riguardo e di fronte a diverse alternative fallimentari, pare che oggi possiamo trovare nell’«idea di cittadinanza» la chiave educativa che ci permetta di diventare ciò che siamo. Sicuramente, educarci per progettare i nostri desideri, per raggiungere davvero quello che siamo – esseri umani! – si può riassumere nell’esercizio dei valori della cittadinanza: essere un buon cittadino o cittadina esprime fedelmente ciò che ci fa umani.[20]
    Adela Cortina ha delineato dettagliatamente il termine, insieme alle dimensioni e ai nuclei fondamentali di quei valori che ci permettono di educare ad essere «cittadini del mondo» a partire dalla propria terra, per vivere in un modo che sia al medesimo tempo locale e globale. In questo senso, lei parla di un «cosmopolitismo radicato», ossia di uno stare nel mondo consapevole delle proprie radici – «la cittadinanza è primariamente una relazione politica fra un individuo e una comunità politica» – e, insieme, del suo senso cosmopolita – «assumere l’universalismo di chi sa e si sente parte dell’umanità per cui niente di quanto lo tocca può rimanergli estraneo» –, giacché «quanto costruisce la comunità non è riferito soltanto all’avere vincoli ascrittivi comuni, ma avere piuttosto una causa comune».[21]


    NOTE

    [1] Riscrivo per NPG l’articolo che pubblicai recentemente su «Misión Joven» [n. 413(2011), 23-32].
    [2] Cf C. Geffré, El cristianismo ante el riesgo de la interpretación, Cristiandad, Madrid 1994, 205-227 (qui possiamo trovare un buon disegno dello «stato di coscienza» al quale è giunto l’essere umano contemporaneo). In definitiva, la modernità ha provocato un cambio radicale nell’immagine dell’uomo e del mondo: mondo adesso definito più come storia che come natura, con la conseguente caduta della classica visione stabile e gerarchizzata – che inculcava e sembrava propria del pensiero cattolico –; uomo come essere in perpetua creazione di se stesso, con la conseguente trasformazione delle strutture di credibilità, spostate verso il valore assoluto della persona, l’autonomia della coscienza, la creatività, la libertà e il pluralismo di progetti.
    [3] J.A. Marina, Aprender a vivir, Ariel, Barcelona 2004, 182 s.
    [4] J. González-Anleo–J.M. González-Anleo, La juventud actual. Verbo Divino, Estella 2008, 44 (cf. U. Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2000).
    [5] Cf C. Buzzi-A. Cavalli-A. de Lillo (a cura di), Rapporto giovani. Sesta indagine dell’Istituto IARD sulla condizione giovanile in Italia, Il Mulino, Bologna 2007, 33-47.
    [6] Cf J. González-Anleo–J.M. González-Anleo, La juventud actual, o.c., pp. 78 ss.; C. Buzzi-A. Cavalli-A. de Lillo (a cura di), Rapporto giovani, o.c., pp. 175-198 e 355-366.
    [7] Cf J. González-Anleo–J.M. González-Anleo, La juventud actual, o.c., p. 83 (cf. anche: H. Béjar, El ámbito privado. Privacidad, individualismo y modernidad, Alianza, Madrid 1990, 68 ss.).
    [8] D. Goleman, Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano 192008, 48; e cf. C. Castilla del Pino, Teoría de los sentimientos, Tusquets, Barcelona 2000.
    [9] J.A. Marina, Las arquitecturas del deseo, Anagrama, Barcelona 2007, 23 s. (cf anche: Id., El laberinto sentimental, Anagrama, Barcelona 1996; Id., El misterio de la voluntad perdida, Anagrama, Barcelona 1997; J.A. Marina–M. López, Diccionario de los sentimientos, Anagrama, Barcelona 1999; J. Ferrero, Las experiencias del deseo, Anagrama, Barcelona 2009).
    [10] Ho studiato l’argomento in altre parti: cf, per esempio, J.L. Moral, Giovani senza fede? Manuale di pronto soccorso per ricostruire con i giovani la fede e la religione, Elledici, Leumann (To) 2007, 73-145; Id., Giovani e Chiesa. Ripensare la prassi cristiana con i giovani, Elledici, Leumann (To) 2010, 152-181.
    [11] Cf R. Bly, La società degli eterni adolescenti, Red, Como 2000.
    [12] Cf U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 2007, 25-30.
    [13] Non è esagerato, in questa prospettiva, presentare la sfida delle nuove generazioni alla Chiesa col simbolo delle due facce del suo futuro: Dio e i giovani, dove il rapporto reciproco è più stretto di quello esistente fra cause ed effetti. L’una sta sempre nell’altra, come accade col diritto e il rovescio delle monete: qualsiasi trasformazione in una delle due cambia anche il valore e il significato dell’altra. E si potrebbe addirittura concludere che senza i giovani non solo diventa difficile il futuro della Chiesa, ma che rischiamo pian piano di oscurare quei tratti di Dio di cui abbiamo maggiore bisogno per scoprire le persone del nostro tempo (cf. J.L. Moral, Giovani senza fede?, o.c., pp. 126-129).
    [14] Orbene, se non vogliamo ingannarci sull’essere umano, non dobbiamo dimenticare il suo mistero. L’educazione deve risuscitare costantemente la questione del senso, sollevando nella vita di ogni giorno i grandi temi del fine e del destino ultimo dell’esistenza umana. Attorno ad essi vanno tessuti i piani concreti del vivere quotidiano che derivano dalle proposte educative. Educare, riferendoci alle istanze basilari della famiglia e della scuola, consiste nell’abilitare tutti a fare-avere un progetto umano di esistenza. In tale senso, occorre che la solidarietà e la libertà a cui aspira la nostra società abbiano un supporto educativo fondamentale: promuovere con decisione valori e atteggiamenti di convivenza e uno sviluppo integrale e armonico della personalità. In questo orizzonte, l’azione educativa deve puntare su due obiettivi essenziali: restituire dignità alla vita dei giovani, attraverso strategie specifiche, e restituire serietà a quella stessa vita e alla vita umana in genere. D’altra parte, la necessità di imparare a conoscere e a fare, ad essere e a vivere, ci spingono anche a cambiare il paradigma educativo, collocando la vita al centro, come perno di tutta la cultura pedagogica, facendo girare gli ingranaggi della famiglia e della scuola attorno alle questioni del senso e della qualità (Cf J.L. Moral, Giovani senza fede?, o.c., pp. 130-135).
    [15] Cf A. Vergote, Psicologia religiosa, Borla, Torino 1967.
    [16] Cf. A. Giddens, Un mundo desbocado, Taurus, Madrid 2000; U. Beck–E.B. Gersheim, Il normale caos dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino 1996; J.A. Marina, El rompecabezas de la sexualidad, Anagrama, Barcelona 2000; G. Pastor Ramos, Sociología de la familia. Enfoque institucional y grupal, Sígueme, Salamanca 1997.
    [17] D. Goleman, Intelligenza emotiva, o.c., p. 303 s.
    [18] Cf J.A. Marina, Las arquitecturas del deseo, o.c., pp. 83-109.
    [19] Al rispetto, una adeguata concrezione educativa è quella sviluppata da J.A. Marina in tante saggi e progetti: cf. J.A. Marina, Aprender a vivir, o.c.; Id., Aprender a convivir, Ariel, Barcelona 2006.
    [20] Ho sviluppato il tema in un altro luogo: cf. J.L. Moral, Giovani e Chiesa, o.c., pp. 231-258.
    [21] A. Cortina, Hacia un concepto de ciudadanía activa para el siglo XXI, «Misión Joven» 314(2003), 17-24; nell’articolo offre un buon riassunto di quanto ha scritto ampiamente in diversi libri: cf A. Cortina, Ciudadanos del mundo, Alianza, Madrid 1997; Id, Alianza y contrato, Trotta, Madrid 2001; Id., Por una ética del consumo, Taurus, Madrid 2002.


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