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    La sorpresa di Giona. Evangelizzare in contesto plurireligioso


    Il disagio interpella la pastorale /4

    Evangelizzare in contesto plurireligioso

    Alberto Martelli [1] – Valentina Bellis

    (NPG 2011-02-60)


    La storia salesiana fin dalla sua origine è stata sempre caratterizzata da uno sguardo serio e competente sulla realtà giovanile e dalla volontà di interagire con soggetti pubblici e privati che, come don Bosco, abbiano a cuore il bene della gioventù.
    Senza mai perdersi in atteggiamenti servili e senza dimenticare il proprio precipuo scopo educativo ed evangelizzatore, don Bosco ha sempre mostrato sincera stima e fiducia verso chiunque potesse in qualche modo condividere i suoi obiettivi o lavorasse per il bene di quella parte così delicata e preziosa della società che è la gioventù, alleandosi con loro o quanto meno chiedendo in modo costante ed incisivo aiuto e sostegno.
    Uno dei primi bisogni che don Bosco individua nella realtà torinese del suo tempo sono i giovani immigrati, italiani, ma spesso di fatto stranieri (l’Italia politica è infatti ancora di là da venire) che confluiscono nella città nella speranza di un futuro migliore.
    È bello ricordare che la lettera più antica inviata dal nostro fondatore al Sindaco di Torino, chiamato allora Vicario di città, Michele Benso di Cavour, è del 13 marzo del 1846 e in essa il Santo sintetizza così il proprio lavoro: «Lo scopo di questo catechismo si è di raccogliere nei giorni festivi quei giovani che abbandonati a se stessi non intervengono ad alcuna chiesa. L’insegnamento si riduce precisamente a questo: 1° Amore al lavoro, 2° Frequenza dei Santi Sacramenti, 3° Rispetto ad ogni autorità». Questi giovani erano, tra il 1842 e il 1845, ragazzi e giovani di provenienza assai varia: savoiardi, valdostani, biellesi, novaresi, lombardi; giovanetti per lo più stranieri, i quali passano a Torino soltanto una parte dell’anno; scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori e altri che provenivano di lontani paesi.
    L’intento di don Bosco non era politico, ma eminentemente educativo: per dirla in chiave cattolica, salvifico: adoperarsi per far sì che queste masse giovanili potessero trovare, anche nelle difficoltà, anche nella assenza della propria famiglia, anche lontani dalla propria patria e dai propri affetti, una casa dove crescere, un padre che si occupasse di loro, una comunità a loro disposizione che potesse garantire ogni occasione possibile per una crescita armoniosa e completa, da buoni cristiani e da onesti cittadini.
    In un secolo e mezzo di storia, la realtà giovanile e salesiana si è molto evoluta, ma alcune costanti sono rimaste, tra queste la realtà dei giovani immigrati e il tentativo della Congregazione di far parte di quella rete di interventi pubblici e privati che, superando sterili discussioni e barriere, tentano di operare per il bene di questi ragazzi.
    La Congregazione salesiana a Torino su questo impegno c’è e continuerà ad esserci, perché «Basta che siate giovani perché vi ami», diceva don Bosco, e anche perché ci sembra bello ricordare che siamo parte di «un sistema Torino», integrato e in rete tra Istituzioni pubbliche, religiose e private, che tante altre città ci invidiano.
    Perché siamo coscienti delle difficoltà che questi ragazzi incontrano nella fase difficile dell’integrazione, del mettere insieme le loro diverse culture, quella di provenienza che non ha ragione di essere sradicata, ma anche quella di questa Città che dell’accoglienza e dell’integrazione di movimenti migratori si è sempre fatta carico. Forse perché i Santi sociali dell’800 ancora oggi continuano la loro protezione, e perché il carattere introverso e schivo dei «bôgianen» del torinese è anche scevro di eccessi di ostentazione, ma soprattutto carico di buon senso.
    Ragazzi tuttavia che se non si arriva prima (la prevenzione di don Bosco) qualcun altro ci pensa a intercettarli e irretirli in circuiti di facile benessere, ma, si sa, anche di rovina fisica e morale.
    Aiutarli a costruire un’identità formata dall’integrazione dei valori delle differenti culture, è una strategia non solo di sopravvivenza, che permette all’adolescente di mantenere la propria tradizione etnica e nello stesso tempo di stabilire il contatto con la cultura di accoglienza. È il nostro modo di «prendersi cura di loro».
    Tutto questo – siamo convinti – va nella linea del «dare di più a chi ha avuto di meno». [2]

    Dieci anni di progettazioni

    A questa convinzione di fondo si lega l’idea di riscoprire l’oratorio salesiano secondo le sue originali caratteristiche: essere casa, scuola, parrocchia e cortile, non solo simbolici, ma effettivi, per i molti giovani poveri e abbandonati che abitano la nostra città.
    Accanto alle molte azioni già in essere a sostegno di nuove e vecchie emergenze sociali che colpiscono la gioventù torinese, si affaccia nell’ultimo decennio un nuovo fronte educativo: la realtà dei giovani immigrati non accompagnati.
    I minori stranieri non accompagnati costituiscono una realtà con cui chi, come noi, opera quotidianamente in stretta relazione con il mondo giovanile, viene continuamente a contatto. Si tratta di ragazzi provenienti per lo più dal Maghreb o dall’Europa dell’Est, ma anche dall’Africa sub-sahariana, dal sud America, che si rivolgono ai nostri centri alla ricerca di un appoggio che consenta loro di recuperare parte delle sicurezze perdute con la partenza verso un paese straniero.
    In molti casi si tratta anche di ragazzi che hanno già subito l’esperienza del carcere o dell’emarginazione, o l’esperienza dell’essere coinvolti in reti malavitose che li sfruttano in vari modi e che fanno loro balenare futuri tanto rosei quanto improbabili.
    Sono ragazzi quindi che da un lato vengono spontaneamente a bussare ai nostri cancelli (quanti lo fanno anche per i bisogni fondamentali di cibo, di un tetto, di un posto in cui lavarsi) o che qui vengono condotti dalla forza pubblica e dalle strutture sociali del Comune e dello Stato alla ricerca di un luogo in cui possano trovare non punizione, ma una «casa che accoglie».
    Come salesiani, specialmente attraverso l’esperienza degli oratori (il baluardo più aperto alla strada e all’emergenza), ma anche, non dimentichiamo, dei Centri di Formazione Professionale, da anni abbiamo preso coscienza di questa nuova realtà, e gli interventi di sostegno, specie ai minori immigrati, si accompagnano con una seria riflessione sul fenomeno. Siamo convinti che l’immigrazione non è un fatto emergenziale ma un fenomeno che interroga e con cui ci dovremo misurare per generazioni. L’immigrazione è un’iniezione di risorse per il nostro territorio, ma è anche un fenomeno irto di difficoltà e di problemi.
    È un’emergenza quotidiana che ci stimola e ci ha costretti a lavorare a più livelli:
    – la formazione degli operatori: non si tratta soltanto di inventare delle azioni, ma soprattutto di lavorare sulle Comunità educative. L’immigrato ci interpella in prima persona proprio nel cuore della nostra identità. Lo fa con la sua cultura, mettendo a dura prova la nostra disponibilità e flessibilità, la nostra capacità di dialogo e comprensione; ma ci interpella anche come comunità cristiane, da sempre aperte allo «straniero», da sempre missionarie, ma anche da sempre costrette a conversione proprio dalla missione che portano avanti;
    – la conoscenza scientifica della realtà. Non basta affrontare l’emergenza, occorre cercare di capire in profondità i fenomeni che la originano e le conseguenze che porta; occorre una seria ricerca sociologica, psicologica e multiculturale perché in questo caso operatori educativi e evangelizzatori non ci si improvvisa;
    – la creazione di una rete: il problema dell’immigrazione è realtà complessa, per questo una sola risposta non basta; non bastano neanche più risposte accostate, occorre lottare e lavorare affinché tutti coloro che si sentono stimolati dalla questione dei giovani non accompagnati si sentano in grado di fare rete e di mettere insieme le risorse di personale, di conoscenza e economiche per creare una alleanza educativa e un sistema educativo preventivo complesso e completo;
    – lavorare per l’integrazione sociale: anzi forse sarebbe meglio dire lavorare per la creazione di una nuova società, facilitando la conoscenza reciproca tra italiani e non, tra varie etnie, tra varie lingue; facilitando il dialogo concreto con corsi di alfabetizzazione e di avviamento al lavoro;
    – lavorare per le famiglie e per il futuro. Dai giovani immigrati non accompagnati si cerca di arrivare alle famiglie, quelle che riescono a fare l’agognato ricongiungimento che con difficoltà il nostro stato italiano concede, e anche con le famiglie rimaste nei paesi di origine provando a mettere in contatti i figli con i genitori, gli zii, i parenti più prossimi perché non siano del tutto sradicati e dispersi.

    Il progetto «Casa che accoglie»

    A partire dal 1998 e poi più decisamente nei primi anni del nuovo millennio, ci siamo accorti che un sola accoglienza diurna di questi giovani non poteva bastare. Il processo è stato simile al don Bosco delle origini: se volevamo veramente aiutare questi ragazzi ad uscire dalla loro situazione di povertà e di emergenza e offrirgli la possibilità di un reale cambiamento, non bastavano poche ore al giorno di permanenza nei nostri cortili e di vicinanza, ma occorreva fare casa con loro.
    È nato così, insieme al Comune di Torino il Progetto «Casa che accoglie».
    Praticamente, tre oratori di Torino si sono mostrati disposti a ristrutturare alcuni spazi e farli diventare una vera e propria casa per giovani immigrati non accompagnati, non sotto forma di comunità per minori, ma come una semplice convivenza dove, pur con l’aiuto di educatori e degli stessi salesiani, i ragazzi potessero essere i veri protagonisti in casa propria.
    In concreto: i servizi sociali o il centro di giustizia minorile (CGM) affidano alla comunità salesiana alcuni giovani (solitamente dai 6 ai 12 ragazzi) di varie nazionalità, che permangono in casa fino alla maggiore età e durante la loro permanenza completano il proprio ciclo di studi con la formazione professionale e conseguono un lavoro stabile, in modo da garantirsi, una volta maggiorenni, la possibilità di un permesso di soggiorno e di una vita indipendente. L’obiettivo non è soltanto la formazione professionale, ma l’educazione integrale della persona stimolando i ragazzi alla convivenza, all’aiuto reciproco, al prendersi cura della casa, alla gestione del denaro…
    Proprio perché non è una comunità «terapeutica», i ragazzi non sono per forza assistiti ogni ora del giorno da un educatore, ma si cerca di fare in modo che possano essere sempre più indipendenti, pur avendo personale qualificato a loro disposizione per ogni evenienza: è un passaggio «accompagnato» verso l’autonomia totale che questi ragazzi devono obbligatoriamente raggiungere con il compimento della maggiore età.
    Il responsabile salesiano ha in affidamento i minori stranieri non accompagnati e si occupa, anche di fronte allo Stato, della loro educazione, formazione e comportamento oltre alla regolarizzazione di tutti i permessi per il soggiorno legale nel nostro Paese.

    Alcuni punti fermi di salesianità

    Questo progetto ha chiesto ovviamente la rivisitazione di ciò che era prima l’oratorio e soprattutto una seria programmazione e formazione affinché non si perdesse di vista l’identità e anche la finalità stessa dell’ambiente salesiano.
    Di fatto l’oratorio si è allargato fino a diventare una vera e propria casa, dove gli ospiti erano ragazzi non italiani e non cattolici, che quindi chiedeva una specializzazione di intervento che finora non era stata progettata. Per far sì che il tutto funzionasse si sono dovuti sviluppare una serie di paletti che hanno permesso di mantenere l’identità salesiana dell’intervento educativo.
    – La costruzione di una équipe educativa: non bastava che alcuni singoli fossero impegnati in interventi di emergenza o che questo progetto fosse voluto dalla comunità religiosa salesiana, occorreva che l’intera CEP fosse preparata alla cosa. Non si può fare casa, senza che ci sia una famiglia, a più dimensioni, che si occupa di tenerla viva e di riempirla. Per far questo i salesiani si sono dovuti affiancare educatori e professionisti specializzati e gruppi di volontari che insieme potessero formare non solo una équipe di lavoro, ma una équipe di cuore e di pensiero.
    – La formazione: non si affronta a cuor leggero il nuovo e la diversità, occorreva cambiare i modi di vedere la vita. Spesso infatti questi ragazzi hanno messo in difficoltà gli operatori perché vedevano il mondo in modo diverso e dunque trovavano una grande fatica al colloquio e al lavoro insieme. L’équipe educativa ha dovuto rimettersi nei banchi per studiare e capire, per non lavorare sull’integrazione, ma sulla creazione di una nuova cultura.
    – L’integrazione tra comunità, oratorio e strada: non solo casa che accoglie, non solo cortile, non solo un ponte tra la strada e la chiesa, ma tutte e tre le cose insieme. L’oratorio ha dovuto aprire i propri confini anche alla strada, per andare in cerca di questi ragazzi e per capire il loro mondo, per intervenire prima che la strada stessa li porti su vie tanto accattivanti quanto malate; ma allo stesso tempo la strada e la casa che accoglie, hanno bisogno di un cortile, ossia di un luogo in cui lo straniero non sia ghetto, ma si senta parte di una realtà multietnica e multiculturale che con la naturalezza del gioco e delle relazioni costruisce ogni giorno un nuovo modo di stare insieme.
    – Una chiara identità salesiana: accogliere tutti senza dimenticare chi siamo, senza offendere nessuno, ma anche senza far finta di non avere una identità forte che per questo ci stimola ad andare incontro a tutti. Le équipe educative hanno dovuto così convertirsi a propria volta alla salesianità e al cristianesimo per recuperare le più profonde motivazioni del proprio operare.
    – Missionarietà e dialogo: il punto di partenza non è il proselitismo, ma l’amore missionario e la cura educativa per tutti, facendo della casa salesiana un laboratorio di dialogo interculturale e religioso competente e continuo.
    – La capacità di far rete: con le scuole, i centri di formazione professionale, i servizi sociali, le altre agenzie e associazioni presenti sul territorio perché i giovani vivono la propria vita a più dimensioni e con più appartenenze e dunque occorre che la casa che costruiamo per loro sia fatta allo stesso modo.

    Lo straniero è davvero tale?

    Commentando la storia biblica del libro di Rut, Donatella Scaiola concludendo il proprio discorso afferma:
    «Il messaggio che l’autore vuole mandare ai suoi lettori, che probabilmente vivevano nel periodo postesilico e che erano tentati di chiudere i confini agli stranieri (anzi, di rimandare a casa le donne straniere che erano state sposate in precedenza), è chiaro: se ci si chiude di fronte all’altro ritenendolo, a priori, una minaccia, un nemico, ci si priva della possibilità di far nascere il Messia».[3]
    E verrebbe allora da commentare: chi è il vero straniero? Chi è estraneo a chi per noi cristiani?
    L’accoglienza di questi giovani, nella quasi totalità dei casi musulmani, spesso ha interpellato le nostre comunità: dando per scontato, o quasi, che difficilmente il risultato del nostro lavoro sarà l’evangelizzazione, è giusto continuare quello che stiamo facendo o dobbiamo lasciare ad altre agenzie questo intervento e concentrarci su altri fronti?
    Crediamo che la domanda abbia una risposta su due fronti.
    – Innanzitutto il fronte della CEP stessa: non dando per scontato che evangelizzare sia sempre una azione ad extra, come se noi stessi fossimo già pienamente evangelizzati, aprire la nostra casa all’accoglienza ha voluto dire in primo luogo evangelizzare noi stessi, alla maniera del buon samaritano, anche per affrontare quella domanda che prima o poi molti di questi giovani ci fanno: «Ma voi perché lo fate?». Questo ha significato rimettersi in gioco non solo come educatori, ma come comunità cristiana e comunità religiosa salesiana.
    Si è trattato di superare la diffidenza e il pregiudizio, anche se si è dovuto valicare un confine interiore che spesso assumeva la forma di una barriera invalicabile. Un superamento che è diventato punto di partenza di un cammino non automatico, ma che ha permesso l’attivazione di risorse esteriori e interiori a volte insospettabili.
    «Dallo stupore generato dal fatto che l’altro sia una risorsa oltre che – o invece di – rappresentare un problema, può nascere anche il desiderio di un incontro che si preannuncia ricco di sorprese, come avvenne a Giona, il quale fu mandato a Ninive e là fu costretto a scoprire, suo malgrado, che gli odiati Niniviti, pagani e nemici, non solo davano credito alle sue parole, ma anche che avevano cambiato vita ben prima di lui!»[4] scoprendo così che il nemico è eliminato e lo straniero diventa un fratello.
    – E questo ci porta al secondo fronte del nostro discorso: l’accoglienza è diventato l’altro nome della evangelizzazione. Forse essa non prenderà mai la forma di una adesione esplicita alla comunità cristiana sotto la forma del battesimo, ma sicuramente può essere l’esperienza di una comunione nata da una fede cristiana che non si nasconde, ma allo stesso tempo mantiene salda la propria gratuità e disponibilità senza contropartite e senza costrizioni.
    Per tutti coloro che sono ospitati in casa salesiana è chiara la motivazione per cui tale casa è aperta, motivazione che trova espressione anche in gesti quotidiani, come la preghiera quotidiana in cortile o le feste salesiane, perché il dialogo tra culture e religioni non avvenga per negazione, ma alla maniera del buon samaritano, giocando la propria vita per il bene dell’altro.


    NOTE

    [1] Delegato di Pastorale Giovanile – Piemonte e Valle d’Aosta; Presidente AGS per il territorio.
    [2] Don Pasqual Chavez, Conferimento della cittadinanza onoraria della Città di Torino. Indirizzo di ringraziamento, Torino, 18 dicembre 2009.
    [3] Donatella Scaiola, Identità e accoglienza. Due figure bibliche di straniero, in La Rivista del Clero Italiano, n. 6, giugno 2010, Anno XCI, p. 448.
    [4] Ibidem, p. 452-453.


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