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    Dramma e fascino del volere


    Incanti di libertà o passioni tristi? /2

    Paolo Zini

    (NPG 2011-04-38)


    «Tu mi torcevi su me stesso, mi strappavi da dietro le mie spalle, dove m’ero rifugiato per non guardarmi in faccia, e mi denunciavi ai miei stessi occhi».[1]
    Sono di grande efficacia queste espressioni, con le quali Agostino si rivolge a Dio mentre fa memoria della propria conversione; in esse viene a parola un aspetto fondamentale del mistero umano: quello di un’identità che pare sdoppiata.
    E questo sdoppiamento, ci insegna ancora Agostino, davanti a quel tratto di strada che separa l’uomo dalla felicità – così abbiamo chiamato la libertà – può diventare tentazione, tentazione di giocare a rimpiattino con se stessi.
    Non è un artificio poetico e letterario, quello di Agostino; è una descrizione fedele e riuscita del vivere, impresa che chiede all’uomo di fare i conti con le sue lacerazioni, capaci di rendere sofferta anzitutto l’esperienza del volere.
    Proprio il desiderio di felicità accende infatti il contrasto interiore, spingendo, anche in modo scomposto, ogni fibra del volere a buttarsi su ciò che sembra promettere maggiore appagamento; di qui il dissidio interno alla volontà, dissidio dimenticato dalla famosa espressione volere è potere.
    Certo che in molte circostanze volere è potere, ma quanto è impegnativo volere! Sovente, a dispetto dell’impegno personale, è proprio il volere a sfuggire di mano all’uomo: verrebbe da concludere che davvero volere sarebbe potere, se solo però l’uomo avesse pieno potere sul proprio volere.
    Neanche quelli che abbiamo richiamato sono meri giochi di parole; sono piuttosto i dinamismi più faticosi ed enigmatici nei quali si produce la vita, trova spazio la libertà, accade la ricerca della felicità.
    Avere un pieno potere sul proprio volere è così la sfida più impegnativa nella quale si imbatte ogni uomo che voglia onorare la promessa della propria umanità.
    Soffermarsi allora sulle forme di elaborazione di tale sfida, icasticamente descritte da alcuni capolavori della letteratura o della filosofia, può essere assai utile per maturare una consapevolezza più pertinente e profonda della posta in gioco di ogni esistenza umana.

    Legione e le sue maschere

    Abbandonarsi alla seduzione della molteplicità, consentendo alla frantumazione del proprio volere, è una prima possibilità offerta all’uomo dalla sua stessa vita.
    Goethe esprime molto bene questo sogno dello spirito umano, descrivendo la decisione di Faust, sollecitata dagli ammiccamenti di Mefistofele, di abbandonarsi al molteplice quale via di soluzione dell’enigma dell’esistere.
    «Io mi consacro al tumulto: al godimento, ch’è tutt’uno col dolore, all’odio che nasce dall’amore, al tedio che ristora. […] Quel che è toccato in sorte a tutta l’umanità, io lo voglio godere dentro me stesso. Voglio con lo spirito attingerla, quell’umanità, nel più alto e nel più profondo, e che il suo bene e il suo male s’addensino entro il mio petto. E dilatare me stesso sino al suo se stesso; e alla fine, come lei e con lei, fare naufragio!».[2]
    Provare tutto, percorrendo ogni contraddizione, attraversando ogni lacerazione, peregrinando di alternativa in alternativa è, anche oggi, qualcosa di più che una possibile forma di vita; la cultura sembra infatti riconoscere questo nomadismo dell’incoerenza come unico possibile rapporto dell’uomo con il proprio volere.
    Non fa poi troppa differenza che una simile opzione sia raccomandata come opportunità esaltante o sia giustificata come destino inevitabile o sia suggerita come risposta altezzosa e sprezzante di un uomo troppo grande rispetto all’insopportabile meschinità del vivere.
    Al genio di Kierkegaard dobbiamo però un’efficace descrizione dell’esito di questo nomadismo dell’incoerenza, che rende la vita umana prigioniera di un volere capriccioso e ingovernabile.
    Secondo Kierkegaard il miraggio dell’istante sa ammaliare chi gioca con la vita, facendone un inquieto trasformista; però, oltre i falsi lustrini dell’apparenza, la seduzione dell’istante può solo incentivare fino al parossismo due atteggiamenti contrapposti: il consumo bulimico di esperienze, e il rigetto risentito di ogni legame, finendo con il perpetuare il vuoto dell’animo umano.
    Quando il volere si abbandona alle lusinghe del trasformismo e dell’ambiguità finisce col disfare l’uomo, condannandolo alla mancanza di identità, di solidità, di affidabilità, di riconoscibilità.
    In Aut-Aut, Kierkegaard affronta in modo diretto chi vuole giocare a questo modo con la vita, anticipandogli l’esito del suo folle e fallimentare sogno:
    «La vita è una mascherata, tu dici, e questo per te è fonte inesauribile di divertimento, e sei così abile che ancora non è riuscito a nessuno di smascherarti: poiché ogni manifestazione tua è sempre un inganno; solo in questo modo tu puoi respirare e far sì che la gente non si serri intorno a te e ostacoli la tua respirazione, in questo sta la tua attività, nel mantenere il tuo nascondiglio, e questo ti riesce, perché la tua maschera è la più misteriosa di tutte; infatti non sei nulla, e sei sempre soltanto in relazione agli altri, e ciò che tu sei lo sei soltanto per questa relazione (…). Non sai che giungerà l’ora della mezzanotte in cui ognuno dovrà smascherarsi? Credi che si possa sempre scherzare con la vita? Credi che si possa di nascosto sgattaiolare via un po’ prima della mezzanotte per sfuggirla? Non inorridisci a questo pensiero? Nella vita ho visto persone che tradirono tanto a lungo gli altri che alla fine il loro vero essere non poteva più manifestarsi: ho visto persone che per tanto tempo giocarono a nascondersi, che alla fine in essi la pazzia ributtantemente mostrava agli altri quei segreti pensieri che essi, fino ad allora, avevano tenuto orgogliosamente celati.
    O puoi pensare qualche cosa di più terribile di ciò, che alla fine il tuo essere si disfi in una molteplicità, che tu veramente divenga più esseri, divenga una legione come gli infelici essere demoniaci, e che così tu perda ciò che è più intimo, più sacro nell’uomo, il potere che lega insieme la personalità?».[3]

    Il delirio del dr. Jekyll

    Lo stile di vita colpito dalla severa lettura di Kierkegaard è meno appetibile di quanto possa apparire in prima battuta; e questo non solo per il nulla riservato a chi si abbandona alla bulimia dell’istante ma anche perché, acconsentendo alle divisioni della volontà, all’uomo è impossibile trovare tranquillità e soddisfazione.
    Solo in apparenza è più facile accondiscendere alle contraddizioni dell’arbitrio che venirne a capo attraverso la disciplina della coerenza; ma il volere umano, misteriosamente, mentre vuole cose tra loro incompatibili, insieme non vuole la propria divisione, non può volerla, addirittura non riesce a sopportarla.
    Incuriosisce l’esperienza del volere, ma sono innegabili tanto la sua pretesa d’unità quanto la sua inclinazione alla lacerazione; per questo non c’è tranquillità nel volere due cose contrastanti: l’accondiscendere di una parte della volontà alla prima non è indifferente al consenso dell’altra parte del volere alla seconda.
    Va meditata questa evidenza dolorosa e innegabile: il travaglio del volere scisso può portare l’uomo ad obbedire all’attrazione del bene come del male; ma – insieme – il volere attratto dal bene affronta quella parte di volere impegnata nel male e non la vuole, proprio mentre – suo malgrado – si sente combattuto come volontà di bene da quella parte maligna del volere che, non paga di gettarsi sul proprio oggetto, pure non vuole abbia qualche potere il volere orientato al bene.
    Il volere può dividersi, ma se dapprima la divisione lo tenta, poi inaugura una guerra tra le parti, che non possono non importunarsi, rendendo la vita molto complicata, sofferta, spesso impossibile.
    Siamo davanti ad un mistero: come possono vivere nello stesso uomo l’aspirazione all’integrità del volere, l’inclinazione insuperabile alla sua lacerazione e l’arte studiatissima delle reciproche recriminazioni tra voleri contrastanti che si combattono nel medesimo animo?
    A questo punto, non sarebbe più semplice la vita se il volere si potesse lacerare fino in fondo, consentendo ad ogni propria fibra di scegliere il proprio orientamento, nella perfetta indifferenza rispetto agli investimenti delle altre fibre?
    Questa illusione impossibile, come scorciatoia per una tranquillità interiore, è ben interpretata dall’estro letterario di R.L. Stevenson.[4] Un suo celebre romanzo descrive il dr. Jekyll – uomo perbene, capace di nobili interessi e di apprezzato altruismo – alle prese con esperimenti scientifici che gli permettono di trasformarsi nell’inquietante mr. Hyde, coacervo di passioni turpi e omicide.
    Stevenson affida osservazioni molto significative alla penna del dr. Jekill, ritornato alla sua identità dopo esser divenuto mr. Hyde, e alle prese con la spiegazione delle ragioni e delle modalità del suo esperimento.
    «Benché profondamente duplice, io non ero affatto un ipocrita; tutt’e due i miei lati erano estremamente sinceri; io ero sempre me stesso, sia che mettessi da parte qualsiasi riserbo e sprofondassi nella vergogna, sia che mi affaticassi, alla luce del giorno, per il progresso della scienza o per il sollievo dai dolori e dalle sofferenze. Ogni giorno, e secondo i due impulsi del mio animo, morale e intellettuale, io mi avvicinai così a quella verità, la scoperta parziale della quale mi ha trascinato a una così orribile catastrofe: e cioè che l’uomo non è in verità unico ma duplice. […] Fu studiando il lato morale della mia stessa persona che imparai a riconoscere la profonda e primitiva dualità dell’uomo; ho visto che, delle due nature che lottavano nel campo della mia coscienza, anche se potevo dire giustamente di essere l’una o l’altra, appartenevo in realtà radicalmente a tutt’e due; e sin dagli inizi, anche prima che il corso delle mie scoperte scientifiche avesse cominciato a suggerirmi la possibilità di un simile miracolo, avevo appreso a compiacermi, come in un bel sogno, al pensiero della separazione di quegli elementi. Se ciascuno di essi, dicevo a me stesso, potesse solamente essere riposto in identità separate, la vita sarebbe alleviata di tutto quanto ha d’insopportabile; l’ingiusto potrebbe andarsene per la sua strada, liberato dalle aspirazioni e dal rimorso del suo gemello più onesto; e il giusto potrebbe camminare tranquillo e sicuro per la sua strada elevata, compiendo il bene in cui trova il suo piacere, non più esposto alla vergogna e al pentimento a causa del male a lui estraneo. Era la maledizione del genere umano, il fatto che quei due elementi contrastanti fossero così legati insieme, che nel seno agonizzante della coscienza, questi due poli dovessero essere in continua lotta. Come dissociarli allora?».[5]
    Le inverosimili trasformazioni del dr. Jekyll in mr. Hyde, e viceversa, sono riuscite drammatizzazioni del conflitto caratteristico del volere, conflitto che, per sciogliere la propria angoscia, sembra accarezzare il sogno folle di una scissione totale dell’uomo, del suo decidere, del suo operare, del suo essere.
    La volontà non può infatti rassegnarsi al travaglio delle sue frantumazioni, essendole impedita la moltiplicazione delle proprie polarizzazioni in regime di reciproca estraneità; valorizzando l’evocazione evangelica di Kierkegaard si potrebbe dire che per l’uomo è impossibile diventare allegramente, godibilmente e pacificamente Legione.
    Di qui il segreto desiderio che Stevenson attribuisce al dr. Jekill: quello di un perfetto sdoppiamento della persona, per una radicalizzazione della frattura interiore che conduca ad una risoluzione di ogni contesa interiore: tanto il dr. Jekyll che mr. Hyde – se lo sdoppiamento riuscisse completamente – non vivrebbero alcuna lacerazione, ma potrebbero, rispettivamente e pienamente, abbandonarsi al bene e al male.

    Quante pene durai per uno farne…

    Le censure di Kierkegaard come la finzione letteraria di Stevenson, mentre illuminano la scissione interna all’arbitrio umano, forniscono istruzioni preziose per riconoscere nell’unificazione del volere il compito fondamentale dell’esistere.
    Viene da chiedersi allora se siano sogni meritevoli di tale nome tanto la frantumazione dell’io quanto la doppiezza interessata a rendere reciprocamente estranei il volere il male e il volere il bene per escludere dall’agire i patimenti del conflitto.
    Se sogni non fossero, se il fondo di questi miraggi covasse una tristissima minaccia, allora l’accantonarli sarebbe un primo passo verso l’autentica fioritura della persona.
    L’animo umano intuisce il pericolo di questi miraggi, perché avverte, scritta dentro il proprio volere, appello all’unificazione, all’integrità di sé, e, negli echi drammatici di ogni scissione interiore, riconosce operante l’insidia, tutt’altro che remota, dell’autodistruzione. Occorre allora restituire dignità ad una verità fondamentale del vivere: quella di un volere fatto per esprimere e costruire l’unità della persona, l’unità del cuore, l’unità della vita, ma insieme chiamato a riconoscere la lacerazione come proprio umanissimo corredo, da vincere con serio realismo.
    Potremmo prendere a prestito alcuni versi di Saba – sapendo di prescindere dal loro senso autobiografico – per esprimere il compito dell’unificazione del volere, nel suo fascino e nella sua durezza:
    «O mio cuore dal nascere in due scisso,
    quante pene durai per uno farne!
    Quante rose a nascondere un abisso!» [6]
    L’uomo non può capitolare alla divisione del volere, senza blandire la propria rovina; ma prendere atto della fatica richiesta dall’unificazione del volere e della vita potrebbe divenire disperante, fino a ispirare la pratica imbarazzata e intristita dell’ipocrisia, del compromesso, del perbenismo: l’appariscenza delle rose per occultare l’abisso.
    Forse, con buona pace di tante presuntuose espressioni di autarchismo morale, la lacerazione del volere e il fascino severo dell’impegno d’una sua unificazione potrebbero diventare il luogo dove cogliere in modo singolarmente evidente una innegabile verità dell’uomo: la sua povertà, radicata proprio al cuore del volere, volere che non per questo smette di essere una misteriosa fortificazione della sua dignità, della sua responsabilità, della sua vocazione alla libertà.
    Non è che tale povertà, attraversando il volere, mentre rende l’uomo vulnerabile al male, pure lo orienta all’invocazione del bene?
    Il cuore non è forse condotto a riconoscere, proprio dentro la sua nostalgia d’integrità, la promessa di un soccorso indispensabile, addirittura l’anticipazione di un possibile, sorprendente riscatto della libertà?
    Nelle rime di Michelangelo troviamo un’accorata espressione di questa speranza del volere umano di venire a capo del proprio mistero andando ben oltre se stesso:
    «Vivo al peccato, a me morendo vivo;
    vita già mia non son, ma del peccato:
    mie ben dal ciel, mie mal da me m’è dato,
    dal mie sciolto voler, di ch’io son privo.
    Serva mie libertà, mortal mie divo
    a me s’è fatto. O infelice stato!
    A che miseria, a che viver son nato!»[7]
    L’enigma del volere lacerato è forse la più intima evidenza di cui l’uomo dispone per scoprire che la vita è affidata e insieme sottratta al suo protagonismo. L’asimmetria che rende il dono del volere più grande della sua ferita impedisce di negare la responsabilità che da quel dono viene, e insieme vieta di sottovalutare il rischio del suo fallimento: vengono di qui la bellezza, il vigore, il senso dell’invocazione umana della salvezza.
    Agostino insegna che vive in modo pieno chi articola questa invocazione, cosciente della grandezza del dono del volere e della responsabilità che vi è stata seminata dalla generosità del suo Autore.
    L’invocazione salvifica, germogliata nelle ferite del volere, lacerato dalle sirene del male, secondo Agostino, è ispirata da quella nostalgia di integrità che proprio il volere custodisce, a dispetto di ogni sua frattura. E la resistenza del dono, pur tra le ferite dell’esistere, ne mostra la qualità, e testimonia l’inossidabile credibilità del suo Principio.
    Con piena fiducia, a questo Principio si rivolge Agostino, certo che Chi ha acceso dentro il volere la speranza dell’integrità sa vincere ogni insidia che vorrebbe smentirne il compimento:
    «Tu felice dolcezza senza angosce.
    Che mi raccogli dalla dispersione
    e ricomponi i mille pezzi
    in cui mi sono frantumato,
    quando volgendo le spalle all’uno
    – a te –
    sono svanito nel molteplice.[8]

    Dunque?

    L’enigma della libertà si presenta nella sua profondità dentro il dinamismo del volere.
    Nulla quanto il volere fa dell’uomo l’arbitro del proprio destino, ma nulla quanto la scissione del volere sovente riduce l’uomo a vittima sconcertata di se stesso.
    Tanto è drammatica la divisione della volontà – raggiunta dal fascino del bene come dalla seduzione del male – da accreditare persino un radicale sdoppiamento del volere e del cuore quale soluzione di una lotta logorante l’esistenza.
    Persino la rappresentazione letteraria di questo sdoppiamento non può prodursi però fuori dagli estremi di un’unità dalla quale inquietamente proviene e alla quale tragicamente si dirige.
    Se dunque la volontà non sa resistere alla propria frantumazione, ma neanche può soffocare la nostalgia di un’originaria integrità e la speranza di una definitiva unificazione, in essa l’uomo si scopre consegnato a se stesso, ma anche aperto all’invocazione di Chi lo possa salvare dalla sua divisione.


    NOTE

    1) Agostino, Confessioni, Garzanti, Milano 1990, VIII.7.16.
    2) J.W. Goethe (G. Manacorda ed.), Il Faust, Mondadori, Milano 19353, 55.
    3) S. Kierkegaard, Aut-Aut. Estetica ed etica nella formazione della personalità (Oscar Saggi Mondadori), Mondadori, Milano 1981, 35-36.
    4) Robert Louis Stevenson (Edimburgo 1850-1894), romanziere e saggista scozzese, apprezzato dalla critica per i suoi romanzi d’avventura, nell’opera valorizzata da queste note, attraverso una trama riuscita dal punto di vista dell’originalità e dell’efficacia narrativa, offre una descrizione pregevole dell’animo umano e delle sue fondamentali sfide morali.
    5) R.L. Stevenson, Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, BUR, Milano 1952, 102-103.
    6) U. Saba, Secondo congedo, da Id., Preludio e fughe: 1928-1929 (Lo specchio. I poeti del nostro tempo), Mondadori, Milano 1961.
    7) Michelangiolo Buonarroti, Rime (Universale Laterza 55), Laterza, Bari 1967, XXXII. 43
    8) Agostino, Confessioni, Garzanti, Milano 1990, II.1.1.


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