A tu per tu con Dio /5
Paolo Zini
(NPG 2010-03-03)
Volano di vittoria in vittoria, i profanatori delle culle e gli incendiari degli asili! È raro che dimentichino di invocare l’Essere supremo, massacrando in nome di Allah in Algeria, distruggendo la Cecenia con la benedizione congiunta della Chiesa ortodossa e del Partito comunista russi. Alle autorità religiose e morali del pianeta tocca distogliere lo sguardo, avallare le professioni di fede e occuparsi degli affari correnti come se niente fosse, come se Dio non fosse crocifisso nella periferia di Algeri o fatto a pezzi vivo tra le braccia di una madre a Grozny. In che modo una divinità poco coinvolta da questi avvenimenti ci potrebbe coinvolgere?
Spietato il referto di A. Glucksmann, un autorevole interprete delle contraddizioni del nostro tempo, che con queste affermazioni chiude il suo testo La terza morte di Dio. Come è possibile che il nome di Dio sia pronunciato per giustificare i crimini più orrendi? Non è questo sufficiente a screditare quel Nome, fino a temere la perversione dell’umano bisogno di Lui? E poi, se il Nome di Dio concorre all’incremento del dolore, come parlare della sua bellezza o della sua capacità di suscitarne? Se ha una bellezza la forza che affronta la sofferenza facendovi trionfare l’amore, si tratta di una bellezza che si oppone al potere distruttivo, separatore, disperante del dolore. Nessuna bellezza ha, invece, la produzione intenzionale del dolore, l’accanimento che viola e calpesta gli altri e il mondo. E, se una simile produzione fa appello a Dio per giustificarsi, moltiplica inesorabilmente il proprio orrore.
Nome di Dio o nichilismo?
Occorre riflettere con attenzione però su cosa nasconda l’appello al Nome di Dio che vorrebbe produrre e giustificare violenza. Ecco, da un testo sui crimini del fondamentalismo religioso in Algeria, la descrizione agghiacciante di un terrorista a terra, ormai esanime:
Un metro e ottantacinque, venticinque anni, i capelli tagliati alla moda, short Nike, scarpe Nike, era rosso di sangue dalla testa ai piedi… da quel che mi hanno detto gli scampati, si trovava in mezzo ai lotti, in una corte, gli altri gli gettavano i bambini dall’alto e lui in basso li giustiziava. Questo ragazzo non aveva la barba, neanche un filo. Mi sono chiesto come un bambino – perché uno a venticinque anni è un bambino – come può arrivare dunque un bambino a tagliare la gola ai neonati. Ho una risposta. Solo «facendosi» di integralismo, e non di una droga qualsiasi, no, di integralismo, si può arrivare a questo.
L’integralismo viene descritto nei termini di droga; e una simile indicazione ci permette di vedere più chiaro dentro questo inquietante miscuglio di religione e violenza, che sembra oggi essere in grado di minacciare le sorti del mondo. Se vale l’analogia della droga, anche il fondamentalismo vende sicurezza al prezzo di identità, vende eccitazione al prezzo di dipendenza. Inquieta, una simile operazione, per la sua negatività: una causa abbracciata al prezzo di una rinuncia al proprio volto, e l’obbligo di guardare gli altri e il mondo non nell’epifania del loro volto ma attraverso il diaframma di una causa accecante. Un assoluto che chiede un servizio cieco, che pone un legame senza storia, prima di giustificare la violenza ha già operato violenza, nei confronti dei suoi stessi guerrieri: semplicemente ne ha annientate le identità, come una droga, appunto. La conseguenza è inevitabile: la violenza perpetrata in nome di Dio deve produrre, per prodursi, un territorio al di là del bene e del male. Solo un simile territorio, senza confini né legge, può autorizzare ed esigere la violenza più cinica e gratuita. Triste feudo, ma qui solo e così soltanto può regnare il dio dei fondamentalisti. Un feudo dove nessuno e nulla fermano la mano degli assassini, dove valgono nulla la vita e il dolore uma no, non ha nulla però a che fare con un mondo di volti da incontrare e conoscere, di volti che possono esprimere la gratitudine per il rispetto e lo sgomento per le prevaricazioni. Siamo al punto: che diritto ha la pretesa fondamentalista? Il nostro pianeta è un mondo di volti, dunque, o un feudo d’anonimati? Per la consuetudine che ha con un mondo di volti, una coscienza umana vigile non può riconoscere la legittimità di un feudo di anonimati, e per questo non può che sdegnarsi per ingiunzioni criminali, a maggior ragione se urlate in nome di dio. E questo, prima ancora che per la propria sensibilità morale, per quello che il Nome di Dio sembra custodire da sempre. Non può venire dal Creatore un appello alla distruzione, salvo non si tratti di distruzione, o salvo non si tratti di Creatore. Il Nome di Dio non può avere alcunché da spartire con la violenza, la distruzione, la follia egoista e cieca. Se questo Nome nasce infatti dalla sorpresa per il mondo, e rende nominabile il gesto generoso dal quale il mondo stesso proviene, come può appartenere ad un satrapo sanguinario che ispira i supplizi più atroci per distruggere i volti di uomini e cose? La creazione, che per ogni coscienza religiosa è espressione di un disegno di Dio, diventa incomprensibile quando in essa le devastazioni più barbare si giustificano in nome di dio. Ma vale anche l’affermazione complementare: un’onnipotenza crudele e senza scrupoli rende incomprensibile la bellezza del mondo, o co stringe a riconoscere, di quella bellezza, un’origine altra dall’onnipotenza priva di scrupoli. Se il nome di dio appartiene ad un egoismo senza confini, non può appartenere alla generosità posta alla radice del mondo, e viceversa. La conclusione si impone: produrre violenza in nome di dio significa annunciarne un volto brutale, e fare della stessa creazione, a dispetto di ogni apparenza, un raffinato strumento di tortura ideato da un folle. Allora la violenza prodotta nel nome di dio potrebbe solo comprendersi come partecipazione deliberata ad un disegno criminale; ai guerrieri di dio è impossibile parlare di bene, di utilità delle loro battaglie: non sarebbe che una crudeltà menzognera, o una menzogna crudele. Ecco la verità: la violenza compiuta in nome di dio è un non senso che, per prodursi, deve distruggere il senso del mondo; è senza futuro, è senza meta, è l’abisso del senza, del non, del no, del nulla. Ma la distruttività del non senso, che deve scatenarsi sul mondo distruggendo il senso che c’è, e che la bellezza dei volti del mondo custodisce, questa distruttività non ha il Nome di Dio dalla propria parte; la distruttività che si afferma distruggendo manca lei stessa di un nome, perché ha l’inquietante nome del niente: nichilismo. Il nichilismo, per il quale non vi sono valori, per il quale non esiste il bene e, dunque, nulla è male, per il quale esiste solo la forza, cieca e senza ragioni, può fare largo alla violenza, che non cerca ragioni, non ne può trovare e neppure ne vuole. L’assoluto che questo agire privo di senso vorrebbe servire non è nient’altro che se stesso: il baratro di un egoismo che si afferma come distruzione. Ma qui della religione, del Nome di Dio e della bellezza del mondo non si conosce proprio nulla.
Madame Bovary, o come nasce un nichilista
Il nichilismo, dunque. Se le cose stessero così rischierebbe di rivelarsi sterile l’accorata censura dei fondamentalismi religiosi che insanguinano casa d’altri, mentre s’accorda divertita accoglienza al nichilismo atmosferico che inquina casa propria. Con l’aiuto delle fini descrizioni di Flaubert, che creano le vicende di Madame Bovary, è forse possibile aprire gli occhi sulla tentazione nichilista, con la sua seduzione strisciante e devastante, e dai pesanti effetti domestici. E se il nichilismo domestico, nei suoi effetti, risulta meno appariscente della violenza religiosa, a quella e ad ogni violenza fa da staffetta infallibile, solo più o meno remota. Madame Bovary, allora. Una figura femminile singolare, che viene da un’educazione religiosa acquisita nell’infanzia, ma nutre con le sue letture, progressivamente e dentro di sé, un mondo fantasioso, al quale dà misura con il proprio sogno, mentre quel sogno si fa fantasticamente smisurato. Così diventa assoluto un miraggio senza volto: quello di un godimento leggero ed esasperato, che affoghi la noia nel piacere, costi quel che co sti. Allora, con disinvolta frenesia, Madame Bovary moltiplica le menzogne, gli inganni, le altrui sofferenze: una vita che si crea in una progressiva distruzione, in una raffinata elaborazione del male, che si sazia soltanto della propria insaziabilità. Glucksmann dice che Madame Bovary è relativista perché
«vive la propria vita senza preoccuparsi dei danni che va seminando dietro di sé e delle sofferenze che infligge, seguendo così la china del vero nichilismo. L’eroina di Flaubert è confondente. Essa unisce il caldo fascino di una liberazione brutale con la fredda audacia di una brutalità liberata».
Il personaggio di Flaubert e la lettura di Glucksmann aiutano a capire la banalità infida del nichilismo, socialmente accettato in molte sue manifestazioni, e poi non riconosciuto in quelle eclatanti e drammatiche che da lui sono venute: le violenze che torturano il mondo, piccole e grandi, sempre giustificate dal niente, persino quando il niente ha il nome roboante di dio. Il nichilista nasce perdendo il contatto con il volto, proprio, altrui, delle cose: non conosce nessuno, non ha occhi per le persone e per il mondo; gli sono estranei i punti cardinali, della terra come del cuore. È alle prese solo con un anonimato assoluto. Ecco il vincolo, potente e inosservato, che stringe Madame Bovary, i criminali religiosi, e il nichilismo strisciante del mondo, dal quale il cuore dell’uomo è spesso sopraffatto. Anonimato assoluto, assoluto anonimo, deserto di volti e di relazioni, dove i confini non devono rendere conto che a se stessi, si fanno e si disfano, senza rendere ragione a niente e a nessuno; basta essere di qua o di là, per essere carnefici o vittime, sfruttatori o sfruttati, eletti o maledetti, per essere comunque nessuno, senza storia, né valore, né futuro. Il nichilismo è il rapace più subdolo del nostro tempo, affamato e invisibile: divora i volti e le relazioni, conquista gli spazi anonimi, senza terra né legge, dei cartelli d’interesse, minuscoli come l’egoismo di un cuore vuoto o cosmici come le multinazionali del terrore globale.
Il Nome di Dio e l’Assoluto della relazione
Il fanatismo violento in nome di dio è dunque nichilismo, e non ha niente di religioso; quando vuole fregiarsi del nome di dio si fregia di una contraddizione, oppure svela la sua opzione per un mondo di violenza ordito su una trama diabolica. Il Nome di Dio è piuttosto antidoto assoluto, l’unico efficace e credibile, contro il nichilismo violento e fanatico. Perché Dio è il Nome assoluto della relazione: la relazione che accorda consistenza al mondo, che pone le differenze per nessuna altra ragione che stia oltre il suo gesto gratuito e la loro bellezza. E la gratuità che genera la bellezza delle differenze fonda misteri di identità da scoprire, e così pone i confini inviolabili del rispetto. È allora il vigore creativo della generosità, che condanna senza appello la forza brutale dell’egoismo. Se poi il mondo al quale l’Assoluto, che si chiama relazione, assegna consistenza è un mondo di volti, in esso l’anonimato può venire solo da un’astrazione, da una sconfitta, o da una rapina.
Il Nome di Dio fiorisce sulle labbra di chi si lascia sorprendere dai volti del mondo, la cui ragione e il cui mistero stanno nell’essere se stesso di ciascuno, e il mistero di quel se stesso viene da una relazione generosa che dona consistenza, fisionomia, identità. L’incontro con Dio di una coscienza religiosa è mediato dall’incontro con persone e cose, e ciascuna a suo modo ha un volto, un’unicità che ne dice l’importanza, il valore. L’assolutezza di Dio è così incontrata come l’assolutezza che fa essere altro, che conferisce lineamenti, che produce volti, ciascuno epifania e custodia di un mistero. Riconoscere Dio significa riconoscere il Nome cui sono annodati i volti del mondo, il Nome che ha nominato le straordinarie differenze che rendono bello l’esistere. Annodati a quel Nome i nomi del mondo si ordinano, fuori dall’anonimato e dall’intercambiabilità, fuori dalla sacrificabilità ottusa e divoratrice dei teoremi e dei principi anonimi. È la scelta di quel Nome assoluto, di farsi garante della dignità di tutto ciò che, perché nominato da Lui, ha un’identità, a costituire il baluardo contro il nichilismo. Mai quel Nome, al quale solo attraverso il mistero del nome di ogni cosa e persona si può giungere, potrà essere nominato per cancellare identità, spegnere nomi, violandone il mistero. Solo fuori dalla conoscenza di quel Nome è possibile brandire l’arma devastante dell’anonimato che crea il nemico, l’avversario, l’infedele. Non di creazione però si tratta, ma di distruzione, o di negazione, come direbbe Goethe. Ma allora non saremmo più nella luce dell’Assoluto che fa essere e conferisce volti, ma nell’oscurità dello «spirito che sempre nega», sibillina identità di sé, svelata da Mefistofele a Faust.
Dunque?
La droga del fondamentalismo religioso non ha niente a che vedere con la verità dell’esperienza religiosa: è dottrina e accecamento. Non può nascere una dottrina violenta senza l’accecamento dell’uomo rispetto al mistero delle cose, all’identità precisa e differente di ciascuna di esse, identità che reclama rispetto e conoscenza e che può essere soltanto distrutta dall’anonimato. Alla deprecazione dei crimini commessi in nome di Dio, perché sia credibile e non sterile, occorre allora accompagnare la lotta contro il nichilismo, il nichilismo che tenta l’animo di ogni uomo. Quel nichilismo vive di mille dipendenze: quando l’uomo, incapace di cercare il proprio volto e di sorprendersi di quello altrui, rende assoluto un sogno anonimo ed egoista, da realizzare a qualunque costo. Il fondamentalismo è sempre egoista, come l’egoismo è sempre fondamentalista: per la sua cecità non può vedere se stesso, gli altri, Dio, e per il suo mutismo non può nominare nessuno, può solo imporre brutalmente e senza ragione se stesso. Il pericolo è sempre alla porta del mondo, alla porta di casa, soprattutto alla porta del cuore. Per scongiurarlo, all’uomo è dato di invocare il Nome di Dio.