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    Si può educare il desiderio?



    I temi negati dell’educazione /2

    Mario Pollo

    (NPG 2010-05-42)


    Cosa è il desiderio? La risposta a questa domanda, apparentemente facile, addirittura banale, è molto complessa e richiede di compiere un piccolo viaggio il cui inizio è nel porto sicuro dell’etimologia della parola.

    Il desiderio

    Desiderio deriva dalla parola latina desiderium e indica il movimento della volontà verso una cosa che ci manca. Una suggestione affascinante, che allarga e approfondisce l’area del suo significato, è data dall’etimologia del verbo «desiderare» che è composto dalla particella de e da siderare (latino sidera) che significa fissare attentamente le stelle. Il de-siderare secondo alcuni indicherebbe perciò il togliere (de) lo sguardo dalle stelle per difetto di auguri e, quindi, per estensione indicherebbe il mancare della cosa o della persona bramata.
    È questo significato che fa sì che il desiderare si confonda con la parte irrazionale dell’appetire, ovvero con il volgersi dell’affetto verso la cosa che non si possiede e che piace.

    Questo significato di desiderio come parte irrazionale della funzione appetitiva è stato proposto da Aristotele per il quale, essendo l’anima formata da più parti, si può verificare che nell’uomo la ragione e il desiderio siano contrari perché «l’intelletto ordina di resistere in vista del futuro, mentre il desiderio comanda sulla base del presente, giacché ciò che è immediatamente piacevole gli appare piacevole in senso assoluto, per il fatto che non considera il futuro» [1].
    Nell’uomo questo contrasto si verifica perché è un essere che ha la percezione del tempo.
    Il desiderio è comunque nella prospettiva aristotelica ciò che spinge l’uomo all’azione.
    A differenza di Aristotele, Spinoza distingue invece gli appetiti dai desideri. Infatti, mentre definisce gli impulsi della fame, della sete, della curiosità e dell’esplorazione, del gioco e del sesso come appetiti, chiama la cognizione che gli individui coscienti hanno di essi desideri.
    Secondo Damasio «la parola appetito indica lo stato comportamentale di un organismo assorbito da un particolare impulso; la parola desiderio si riferisce invece al sentimento cosciente di avere un appetito e alla sua consumazione o al suo soffocamento finali» [2].
    Questa distinzione spinoziana è complementare a quella che Damasio propone tra emozioni e sentimenti. Distinzione secondo la quale le emozioni accadono nel corpo mentre i sentimenti nella mente. Questo fa sì che le emozioni siano pubbliche, visibili allo sguardo di un osservatore e che, invece, i sentimenti siano privati, invisibili dall’esterno.
    Le emozioni svolgono un ruolo regolatore che ha come fine la creazione di circostanze vantaggiose per l’organismo essendo il loro ruolo quello di assistere il corpo umano nella conservazione della vita. Oltre a questo occorre ricordare che tutte le emozioni, anche se la loro espressione è influenzata dall’apprendimento e dalla cultura sociale, sono biologicamente determinate e dipendenti da dispositivi cerebrali predisposti in modo innato. Questi dispositivi si possono innescare automaticamente senza una decisione cosciente. Infine, «tutte le emozioni usano il corpo come teatro (milieu interno, sistemi viscerale, vestibolare e muscolo-scheletrico), ma le emozioni influenzano anche la modalità di funzionamento di numerosi circuiti cerebrali: la varietà delle risposte emotive è responsabile dei profondi cambiamenti tanto del paesaggio del corpo quanto del paesaggio del cervello (p. 70).
    In modo semplice si può dire che le emozioni sono una sorta di kit di sopravvivenza che il genoma mette a disposizione di ogni essere umano.
    Ed è proprio all’interno della comunicazione della mente con il corpo che si originano i sentimenti. Infatti il sentimento può essere definito in larga misura come «l’idea che il corpo sia in un certo modo» (p. 107). I sentimenti nascono sia dalle emozioni vere e proprie – occorre a questo proposito ricordare che le emozioni precedono i sentimenti e ne rappresentano la base portante e che i sentimenti e le emozioni sono così profondamente legati che spesso vengono percepiti come un tutt’uno – sia dalle reazioni omeostatiche dell’organismo e sono la rappresentazione, per mezzo del linguaggio mentale, dello stato vitale in cui versa l’organismo (p. 107). In modo sintetico si può dire che «il sentimento di un’emozione è l’idea del corpo in cui esso è perturbato dall’emozione».
    Tuttavia la percezione dello stato corporeo da sola non è sufficiente a produrre un sentimento. Infatti il sentimento nasce solo se la percezione dello stato corporeo è associata a quella di un particolare stato della mente. Si può perciò affermare che i sentimenti sono le percezioni di un certo stato del corpo unite alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti (p. 108).
    Questa concezione dei sentimenti si oppone a quella che li considera come un insieme di pensieri con un contenuto particolare, come ad esempio quello della perdita di una persona cara. Questa concezione è rifiutata da Damasio, il quale afferma:
    Se i sentimenti fossero davvero insiemi di pensieri con determinati temi, come potrebbero distinguersi da altri pensieri?. […] A mio avviso, i sentimenti sono funzionalmente distinti perché la loro essenza consiste nei pensieri che rappresentano il corpo nel suo coinvolgimento in un processo reattivo. Togliete quell’essenza e il concetto di sentimento svanisce. Togliete quell’essenza e nessuno potrà più dire: «mi sento» felice, dovrà dire piuttosto: «penso» pensieri felici. Tutto questo però solleva una domanda cosa è che rende «felici» i pensieri? Se noi non sperimentassimo un certo stato corporeo caratterizzato da una certa qualità che chiamiamo piacere e che consideriamo «buona» e «positiva» nel contesto della nostra vita, non avremmo più alcuna ragione per considerare felice – o triste – qualsiasi pensiero (p. 109).
    Se i sentimenti nascono dalla percezione dello stato corporeo associata a quella di un particolare stato della mente ne consegue che essi non sono generati da oggetti ed eventi esterni al corpo ma interni al corpo.

    Esiste dunque una sorta di parallelismo tra appetiti e emozioni, e tra desideri e sentimenti.
    Se il desiderio possiede la stessa natura dei sentimenti, si può affermare che esso accade nella mente, e che in esso è presente, quindi, un’interpretazione simbolica degli appetiti che accadono nel corpo. Ciò significa che esso è «educabile» e che possiede una dimensione culturale.
    Per questo motivo è necessario osservare qual è il rapporto dell’attuale cultura sociale con il desiderio.

    Il desiderio nella cultura sociale contemporanea

    Per prima cosa è importante rilevare che molti modelli teorici e pratici elaborati dalla cultura sociale odierna non solo hanno di fatto demolito molti dei limiti che tradizionalmente segnavano la vita individuale e sociale, ma hanno addirittura delegittimato il valore del limite nella vita umana.
    Una conseguenza ed esemplificazione è l’assioma generalizzato: «tutto ciò che esiste può essere consumato».
    Gli abitanti delle società più ricche consumano infatti a dismisura cibo, vestiti, automobili, viaggi e vacanze, informazioni, spettacoli, cultura, sentimenti e, persino, l’ambiente naturale in cui abitano. Questo porta le persone a non selezionare più le offerte di consumo che la vita quotidiana propone loro, e fa nascere nella loro coscienza la convinzione che è lecito e normale consumare tutto, in quanto è l’esistenza stessa dell’offerta che legittima il consumo.
    Basta possedere le risorse economiche necessarie e ogni desiderio può essere legittimamente e prontamente soddisfatto. Ma non solo. Il consumismo è anche, nella sua forma più esasperata, una sorta di distruttività che vuole ridurre al niente l’oggetto del desiderio. E questa forma del consumare distruttiva non si applica solo agli oggetti materiali, all’ambiente naturale ma anche ai sentimenti. In molti casi il desiderio, l’affetto per una persona si manifestano in un possesso così globale da distruggere questa stessa persona. Le fiction televisive e cinematografiche e la stessa cronaca della vita quotidiana propongono continuamente espressioni di questi sentimenti di possesso che negano la libertà, l’autonomia e l’integrità morale a chi, purtroppo, ne è l’oggetto.
    Vivere secondo il paradigma del consumismo vuol dire, di fatto, vivere senza progetto, ma accettando di costruire la propria vita giorno per giorno a seconda delle offerte di consumo che si incontrano e basando la soddisfazione della propria sete di felicità aut piacere sulla distruzione degli oggetti del proprio desiderio.
    Il policentrismo delle società complesse poi è all’origine dell’atteggiamento a-progettuale nei confronti della propria vita. Esso infatti rende l’universo sociale frastagliato e disaggregato in molti luoghi autonomi ostacolando l’identificazione della società come un tutto unitario.
    In questo insieme complesso che sono le società industriali avanzate, ogni concezione del mondo e della vita, ogni posizione etica, magari aberrante, ha diritto di esistenza e rivendica pari dignità con quelle più diffuse e ricche di validazioni storiche, culturali e sociali.
    Questo fa sì che i giovani siano spesso prigionieri delle spire del relativismo. Relativismo che fa sperimentare a una gran parte dei giovani l’impossibilità di acquisire la certezza che i valori che sono loro proposti, o che hanno già scelto come fondamento del proprio agire siano veri, importanti e giusti, perché essi formano soltanto uno dei tanti sistemi valoriali presenti con pari dignità nella vita sociale che abitano.
    Tale relativismo va ben oltre, frammentando il tessuto culturale della società, per cui il giovane nel corso del suo quotidiano vivere sperimenta luoghi differenti che, sovente, gli offrono valori, modelli di vita, codici e norme assai diversi tra di loro quando non addirittura antagonisti.
    Ad esempio, il passaggio quotidiano del giovane dalla famiglia alla scuola, al lavoro, al gruppo dei pari, alle associazioni, alle polisportive e ai mass media è l’esperienza di un cammino in una realtà sociale disomogenea e frammentata che lo invita a vivere in modo pragmatico ed a-progettuale, ad evitare scelte coerenti se vuole poter usufruire di tutte le promesse che ogni luogo che attraversa gli fa e, quindi, godere delle opportunità di appagamento dei suoi desideri e bisogni che la realtà sociale gli offre. In questo contesto culturale lo spazio di espressione del desiderio appare, quindi, molto più ampio che nel passato così come il rifiuto di codici normativi entro cui definire il proprio spazio esistenziale.
    Questa ipertrofia del desiderio accompagnata da una vera e propria crisi del limite si manifesta nella vita di molti giovani come ricerca ossessiva dell’eccesso, quasi che l’appagamento della loro sete di vita, di godimento e di felicità possa avvenire solo attraverso forme che si collocano al di là dei limiti, attraverso cui la cultura sociale si propone di difendere se stessa unitamente all’integrità biopsichica delle persone.
    La ricerca dell’eccesso avviene perciò, solitamente, sia nella trasgressione e nella ricerca del rischio, sia nello spreco di risorse materiali ed immateriali, interne e esterne al giovane.
    A questo punto, dopo aver sommariamente constatato le derive del desiderio nella società contemporanea è necessario analizzare il ruolo che esso svolge nella vita dell’essere umano, in particolare nei processi formativi che sono oggetto dell’animazione culturale.

    ANIMARE IL DESIDERIO

    Il desiderio nella prospettiva dell’animazione culturale è l’energia che consente di aprire l’uomo alla vita e alla sua ricchezza e complessità. Senza desiderio, ovvero gli appetiti e la loro interpretazione simbolica, l’uomo non potrebbe utilizzare l’energia offerta dalla ricerca di soddisfazione degli appetiti per costruire la propria umanità e il mondo della cultura che abita.
    Tuttavia se il desiderio è necessario all’uomo per trasformare la propria animalità in umanità, esso può anche abbassarlo al di sotto dell’animalità. E ciò accade quando esso non incontra una forma finita in cui dirsi, in cui esprimersi all’interno della costrizione del limite.
    Il limite, ovvero i modelli, le norme, le regole e le consuetudini che regolano la vita di una cultura sociale, non va dunque inteso negativamente, ma positivamente come la forma che consente la manifestazione del desiderio.
    Questo significa che occorre educare i giovani a prendere atto, riconoscere e, soprattutto, sopportare la tensione fra i loro desideri e i limiti che quotidianamente essi sperimentano. Tra l’altro, è solo in questa tensione, non raramente dolorosa, che essi possono aprirsi alla «invocazione».
    In questa prospettiva l’educazione al limite deve essere intesa come una vera e propria educazione dell’anima. Dove la capacità di confrontare il desiderio con il limite non è affatto un impoverimento, una riduzione dell’efficacia del desiderio, ma è dare terra all’orizzonte, è consentire allo sguardo umano l’intuizione del punto in cui balena la presenza della speranza data dalla vita di Gesù al mondo.

    La dialettica desiderio/limite nella relazione educativa dell’animazione

    Per questo motivo l’educazione del giovane proposta dall’animazione culturale si fonda sullo svolgersi della dialettica desiderio/limite.
    È forse necessario ricordare che sin dalle origini della storia umana questa dialettica si è svolta con il giovane nel ruolo dell’espressione del desiderio e con l’adulto in quello dell’inevitabile presenza del limite. Ciò autorizza a parlare di naturalezza per quanto attiene alla caratterizzazione dei ruoli dell’adulto e del giovane nello svolgersi della dialettica desiderio/limite, e ad affermare con una certa sicurezza che se l’adulto non accetta il ruolo che la tradizione gli assegna, la dialettica desiderio/limite non potrà svolgersi in modo efficace e, quindi, che il desiderio non potrà manifestare il suo potenziale creativo in nuove forme di vita ma, viceversa, tenderà ad evidenziare la sua carica distruttiva, in seguito ai fallimenti o alle crisi che produrrà nella vita del giovane.
    Se l’adulto non si pone come il testimone che il desiderio può realizzarsi, nonostante il limite, non fa il suo dovere, non svolge il suo amore per il giovane, anzi di fatto manifesterà il suo odio.
    L’adulto educatore come testimone della speranza nonostante il limite è anche una solida garanzia che il giovane si radichi in uno spazio-tempo esistenziale in cui risuona non solo il presente, ma anche il passato e il futuro di una storia aperta alla salvezza.

    La dialettica desiderio/limite come energia della vita e apertura al trascendente

    La scelta dell’educazione fondata sulla dialettica desiderio-limite nasce dalla consapevolezza che la vita umana si esprime e trova la sua energia creatrice nell’incontro/scontro tra la potenza del desiderio, che può essere considerato il motore dell’esistenza umana, l’energia che spinge l’uomo verso la vita intesa come ampliamento di sé e degli spazi esperienziali, e la costrizione del limite, ovvero dell’insieme di norme, di codici e, quindi, di forme che fissano l’insieme delle possibilità legittime in cui l’azione umana può manifestarsi.
    Se il desiderio viene lasciato libero di esprimersi e non incontra delle costrizioni che lo incanalano all’interno di particolari forme di vita, esso rivelerà la sua ombra, ovvero la sua devastante potenza distruttrice che abita l’illimitato.
    A questo proposito occorre ricordare che il concetto di «limite» con il suo opposto, «illimitato» è, sin dalle origini, alla base del discorso intorno alla vita umana e alla civiltà, sia dell’occidente che dell’oriente.

    Per quanto riguarda l’occidente basta riandare al pensiero greco antico e al concetto di a´peiron, che spesso viene tradotto impropriamente con infinito, ma che, più propriamente, significa ciò che non ha limite, e che è, quindi, illimitato.
    L’illimitato, diversamente dall’infinito, come ricorda Aristotele nella fisica, «non è ciò al di fuori di cui non c’è nulla, ma ciò al di fuori di cui c’è sempre qualcosa» [3].
    Questo significa che l’illimitato è per sua natura incompleto, oltre ad essere una «potenzialità non attuata e non attuabile» [4], perché solo ciò che ha un limite, che è, quindi, limitato, è completo e ha una sua attualità.
    Un oggetto per esistere nel dominio dello spazio e del tempo deve essere perciò finito, rinchiuso nel confine del limite.
    Tuttavia se esistesse solo il limite, non esisterebbe il divenire e, quindi, la storia, né alcuna evoluzione, perché la tendenza di ogni oggetto è di permanere rigidamente all’interno dei confini di esistenza imposti dal limite (p. 15).
    L’illimitato, essendo, invece, il principio che tende a «ricondurre la realtà a uno stato informe e disorganizzato, ove ogni cosa perde la sua riconoscibilità come ente concreto e gli eventi appaiono slegati, imprevedibili e suscettibili di una evoluzione priva di logica» (p. 15), dissolve l’ordine imposto dal limite creando una situazione fluida, che può però essere nuovamente solidificata dall’introduzione di un nuovo limite. Il divenire richiede perciò una sintesi del limite e dell’illimitato o, meglio, una sorta di dialettica continua tra il limitato e l’illimitato, in cui l’illimitato tenta continuamente di dissolvere il limite, ma questi si ricostituisce continuamente assumendo nuove forme.
    È a questa dialettica che allude Musil, quando nel romanzo «L’uomo senza qualità» fa dire ad un personaggio: «L’attitudine al bene, la quale in qualche modo è pur presente in noi, corrode subito le pareti se la si rinchiude in una forma fissa, e attraverso quella fessura si butta subito al male!… I sentimenti non sopportano di essere legati» [5].
    In altre culture, tra cui in particolare quelle dell’oriente, il discorso intorno all’illimitato si manifesta attraverso la figura del mito, assumendo il volto della notte, del caos o di antiche divinità come la babilonese Tiâmat o la indù Mr¸tyu.
    Tiâmat resasi colpevole di connivenza col Male, viene confinata dal dio Marduk al ruolo di estremo residuo cosmico e Mr¸tyu, la dea della morte e della fame, subisce la stessa sorte per mano dei Deva. Ma dai confini del Mondo, il Nulla e l’Indefinito, così arginati, continuano a svolgere un ruolo ineliminabile di avvolgimento (l’a´peirou di Anassimandro è avvolgente: to´ perie´cou) e sostentamento di tutte le cose, e ad essi tutto tende a ricondursi alla fine di ogni ciclo cosmico [6].
    Anche nell’antica tradizione cinese confluita nel «Tao tê ching», in termini decisamente più concettuali, viene descritto il ruolo dell’illimitato nella vita umana, laddove si dice che è «grazie al costante alternarsi del Non-essere e dell’Essere che si vedranno dell’uno il prodigio, dell’altro i confini» [7].

    È comunque all’interno del confine, nel regno dell’Essere, che la vita ha luogo, e il prodigio che si può manifestare nell’oltrepassamento del confine è comunque sempre sul punto di smarrirsi nella disgregazione distruttrice.
    È questo il rischio della vita umana, del suo evolversi in forme di civilizzazione sempre nuove. La distruttività è sempre il volto oscuro, latente al di sotto di ogni progresso.
    Se il limite senza il suo opposto, l’illimitato, non produce storia ed evoluzione, la sua assenza produce il decadimento dell’uomo dalla condizione umana e lo introduce nel regno della distruttività e della morte.
    L’illimitato è come un veleno, che preso in piccolissime dosi e nel momento appropriato cura, ma che – se preso in dosi troppo grandi e nei tempi inappropriati – uccide.
    La vita, come si è già accennato, non può esistere senza il limite, anche se esso per continuare a svolgere la sua funzione ha bisogno dell’incontro/scontro con il potere inquietante dell’illimitato.
    Nella consapevolezza dell’oriente e dell’occidente il limite rappresenta il profondo fondamento morale dell’uomo, come magistralmente indica il già citato personaggio di «l’uomo senza qualità» in un’altra parte del romanzo.

    Onestà, continenza, cavalleria, musica, la morale, la poesia, la forma, il divieto, tutto ciò non ha altro scopo più profondo che dare alla vita una forma limitata e precisa […] La felicità senza limiti non esiste. Non vi è grande felicità senza grandi divieti. Anche negli affari non si può correre dietro a qualunque profitto, se non si approda a nulla. Il confine costituisce l’arcano del fenomeno, il segreto della forza, della fortuna della fede e del problema di sostenersi, uomo microscopico, nell’universo sconfinato [8].

    Una civiltà che smarrisce il valore del limite si condanna all’autodistruzione, o comunque a piombare nella notte del caos, da cui solo il limite potrà trarla a nuova vita.

    La funzione dell’eccesso

    Nella dialettica tra il limitato e l’illimitato l’eccesso svolge una funzione centrale. Infatti, questa funzione può essere considerata quella che dissolvendo il limite apre la via all’irruzione nella dimensione del finito del caos, delle acque primordiali in cui la creazione non si è ancora separata dalla distruzione. L’eccesso appare, quindi, essere la via che l’illimitato può seguire per irrompere nel tranquillo territorio del limitato o, con un altro linguaggio, che il non-essere percorre per scompigliare il regno dell’Essere.
    A causa della potenza distruttrice, ma anche creatrice, dell’illimitato, ogni civiltà umana ha in qualche modo cercato – al fine di proteggere la propria identità e la propria esistenza – di codificare, istituire il rapporto con esso e, quindi, di controllare le forme dell’eccesso.

    Nelle società più conservatrici l’eccesso era confinato in alcuni momenti sociali ritualizzati, come, ad esempio, il carnevale, il sabba, i culti orfici, la guerra, ecc. In questi momenti le normali regole sociali erano abolite e il disordine e il caos potevano, per un periodo di tempo limitato, dissolvere i tradizionali limiti della vita sociale e individuale delle persone.
    L’eccesso poteva anche essere riservato ad alcune categorie particolari di persone, la cui condizione di sacralità le poneva al di fuori dell’ordinario, dei limiti della vita profana, nel territorio del proibito.
    L’uomo invaso dalla follia poteva, in alcune culture, essere riconosciuto come il portatore della sacralità, della diversità che è al di là dei confini, nel luogo proibito dell’illimitato.
    Nelle società più aperte all’innovazione esiste un margine di tolleranza che rende possibile, anche se stigmatizzata, la pratica dell’eccesso, solitamente a una parte minoritaria dei suoi membri, all’interno della sua vita quotidiana.
    Normalmente le società reali hanno un mix dei due tipi di controllo dell’eccesso, con la prevalenza relativa di uno dei due.
    Tutte queste forme di controllo tentano, a volte riuscendoci ma spesso fallendo, di usufruire della potenza creatrice dell’illimitato senza il costo del disordine, del caos e della distruzione che esso può innescare nella vita della società e degli individui.
    Non si dà mai tuttavia una situazione in cui l’eccesso non lasci alle proprie spalle una striscia di distruttività, magari riferita a una piccola minoranza di persone e di situazioni. Ogni forma codificata o spontanea di eccesso comporta sempre un qualche costo in termini di vite umane perdute o incompiutamente realizzate.

    Tuttavia nessuna società può evolversi e trasformarsi senza l’esperienza del superamento del limite. Questo significa che il desiderio in alcune situazioni e in alcune persone deve essere la spinta a esplorare ciò che è oltre il confine delle norme, delle regole e dei modelli codificati e cristallizzati dal conformismo. Tuttavia, è necessario sottolineare come in questo tipo di società la conservazione, o più precisamente la crisi di progettualità e di apertura al futuro, più che dalla forza del limite è prodotta dalla sua debolezza.

    La dialettica desiderio/limite come apertura all’invocazione

    Il gioco desiderio/limite non serve solo a far fiorire la vita nella sua felicità, serve anche ad aprire la vita al senso del mistero e all’invocazione di ciò che non è dicibile, all’interno della vita stessa. Il limite, infatti, afferma che la vita è possibile solo al suo interno. Il desiderio afferma che la vita è oltre i limiti. Questa contraddizione, irrisolvibile anche se produttrice di vita, segna l’esperienza umana del mondo. Essa però rilancia continuamente lo sguardo dell’uomo a ciò che esiste oltre il confine del limite. Essa fa nascere anche la consapevolezza che la contraddizione si può risolvere in una sintesi non distruttiva, solo al di fuori del mondo umano, dei confini e delle necessità del limite stesso. Che c’è, cioè, un punto di vista, oltre quello della logica umana, dal quale le contraddizioni e i conflitti della esistenza umana possono essere condotti all’unità di senso.
    La dialettica desiderio/limite apre, con la sua paradossale utilità, la mente umana all’invocazione di ciò che è oltre l’orizzonte del mondo individuale, sociale e naturale che cade sotto il dominio diretto dei sensi.
    Essa rimanda l’uomo alla consapevolezza che la spiegazione del mistero della vita, come sosteneva L. Wittgenstein [9], la si ha solo quando la vita svanisce, e che la soluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo si trova al di fuori dello spazio e del tempo. L’espandersi del desiderio, il resistere del limite, il suo riformularsi aprono l’uomo al mistero della contraddizione che nutre di energia la vita umana, che ne costituisce la natura stessa e contro cui si infrange ogni tentativo di spiegazione razionale.
    Si apre allora la porta della fede, della conoscenza senza nome attraverso cui il trascendente si manifesta nella vita umana e, per i cristiani, di una esperienza storica concreta di salvezza. Educare alla dialettica vivificante desiderio/limite non è solo educazione alla vita piena, ma anche predisposizione alla fessura attraverso cui il trascendente può parlare all’uomo nella sua vita quotidiana.

    COME EDUCARE AL LIMITE

    L’educazione al limite non è fondata, come sostiene il titolo di un libro di successo, sulla capacità dell’educatore di dire dei no, di porre dei divieti e far rispettare rigorosamente le norme, come sostenevano antichi e da molti rimpianti modelli di educazione fondati sull’autoritarismo, ma sull’offerta al giovane di forme in cui egli possa esprimere, canalizzare il desiderio.
    In questo modo le regole non sono percepite come ciò che impedisce, ma ciò che consente di realizzare le potenzialità della propria umanità, di dare forma, anima alla materia bruta da cui nascono gli appetiti.
    Una delle esperienze più importanti che i bambini fanno di questo tipo di educazione al limite è rappresentata dal gioco, in particolare dai giochi strutturati di competizione che richiedono a chi li pratica abilità particolari. L’esempio più noto di questo tipo di gioco è quello dello sport.
    Questi giochi richiedono, infatti, ai giocatori di incanalare il loro desiderio di gioia, divertimento e vittoria all’interno di gesti che, per essere efficaci, debbono essere strutturati, organizzati da un insieme di regole «tecniche» e «relazionali». Solo quando il giocatore incanala i suoi «appetiti» aut impulsi attraverso questi gesti strutturati da regole, egli riesce a giocare bene e a raggiungere le mete che il suo desiderio gli indicava.
    Lo stesso tipo di discorso può essere fatto nei confronti della vita di relazione all’interno di un gruppo. Ad esempio, il desiderio di essere riconosciuti e accettati dagli altri così come si è, può realizzarsi solo se i membri del gruppo si relazionano agli altri all’interno del sistema di norme, sociali e di gruppo, che regolano la vita del gruppo.
    Seguendo questo particolare punto di vista, la stessa sanzione aut punizione, non sarà percepita come il risultato della violazione di norme più o meno astratte, ma come il sostegno a superare una incompleta realizzazione del proprio desiderio e, quindi, delle proprie potenzialità umane.
    Comunque, tutto questo per accadere richiede che l’animatore divenga un «modello» ovvero un adulto che nonostante la sua radicale finitudine agisce per incanalare l’espressione del desiderio all’interno del limite delle forme che sono socialmente accettate, ma che, tuttavia, è anche in grado di uscire dalle paludi mortifere del conformismo rischiando l’esplorazione di quei di quei terreni sconosciuti che consentiranno al desiderio di tutti il raggiungimento di una realizzazione umana più evoluta: come si è detto nel precedente articolo l'animatore deve diventare oggetto del «desiderio mimetico».


    NOTE

    1) Aristotele, L’anima, G 10, 433 b 5.
    2) Damasio, La ricerca di Spinoza, Adelphi, Milano, 2003, p. 47.
    3) Aristotele, Fisica. Del cielo, Laterza, Bari, 1973, 203 b 20.
    4) Zellini P., Breve storia dell’infinito, Adelphi, Milano, 1980, p.14.
    5) Musil R., L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino, 1962, p. 731.
    6) Zellini P., Breve storia dell'infinito, cit., p. 18.
    7) Tao tê ching, Mondadori, Milano, 1973, p. 27.
    8) Musil R., L’uomo senza qualità, cit., p.488.
    9) L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1973, p. 81.


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