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    Lui sì che ci sapeva fare


     

    Educare alla preghiera /2

    Gesù modello e maestro della nostra preghiera

    Gianfranco Venturi

    (NPG 2010-04-43)


    All’inizio del 2007 i giornali di tutto il mondo riportavano la notizia che ai limiti della giungla cambogiana era stata ritrovata una ragazza che si muoveva come una scimmia, con la pelle coperta di terra, gli «occhi rossi come quelli delle tigri»; fu scoperta mentre si intrufolava nelle piccole cascine per rubare1. Nella foto divulgata dalla stampa una coppia di genitori riconobbe la loro figlia smarrita 18 anni prima assieme alla sorellina di sei anni. La ragazza era vissuta a contatto solo con animali ed era incapace di spiccicare anche solo una parola; ormai non si abituava più alla nuova vita.
    Il fatto che non sapesse parlare è naturale: impariamo a parlare naturalmente, senza andare a scuola, semplicemente sentendo gli altri parlare. Così avviene anche per la preghiera: il bambino impara a pregare insieme con gli altri: si impara a parlare – e a pregare – sulle ginocchia della madre.

    Un maestro d’eccezione…

    Se non si è fatta l’esperienza della preghiera da bambini, allora c’è bisogno di una «scuola», come avviene per una lingua. Nel mondo di oggi non sono pochi coloro che, anche giovani, domandano che si insegni loro a pregare. La storia della spiritualità elenca molte scuole, maestri e tipi di preghiera.
    Anche gli apostoli un giorno fecero a Gesù una richiesta del genere. Era già da parecchio tempo che stavano con lui, certamente più di un anno. Lo avevano visto parecchie volte pregare da solo e probabilmente notarono che c’era in lui qualcosa di particolare che non avevano mai visto in altri maestri, ad esempio in Giovanni Battista. Per questo una volta, vedendolo pregare, gli si avvicinarono e, in un momento in cui lui sembrava prendersi un po’ di pausa, si fecero coraggio e gli dissero press’a poco così: «Signore, insegnaci a pregare come ci sai fare tu. Alcuni di noi sono stati da Giovanni Battista e hanno sentito e visto il suo stile di preghiera. Però in te ci sembra che ci sia un modo del tutto particolare di pregare, tutto tuo, che non abbiamo mai visto altrove».
    Allora non c’era il registratore, per cui non abbiano le parole esatte della risposta di Gesù alla loro richiesta. Gli apostoli ci conservarono il succo del suo discorso riassunto in una preghiera, quella del Padre nostro (Mt 6,9-13; Lc 11,2-4). Con quella preghiera molto semplice e breve, Gesù li introdusse nella sua relazione con Dio Padre, insegnò che nella preghiera si impara a vedere il mondo e la storia con gli occhi e le attese di Dio (prima parte), a non smarrirsi davanti a tante prove, pericoli, tentazioni (seconda parte). Più che una formula, Gesù insegnò un atteggiamento da avere.

    … per il suo continuo atteggiamento orante

    La richiesta degli apostoli è stata fatta a Gesù perché nel tempo trascorso insieme a lui avevano potuto vedere che tutta la sua vita era tessuta di preghiera. Scorrendo i vangeli, quello che più sorprende è il suo continuo atteggiamento «orante». È quanto mai significativo che la sua prima manifestazione a dodici anni avvenga in un luogo di preghiera, nel tempio, da lui definito più tardi «casa di preghiera»; lì egli afferma: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io debbo occuparmi delle cose che riguardano il Padre mio?» (Lc 2, 49).
    Con questa risposta a Maria e Giuseppe egli anticipa tutto il significato umano e spirituale della preghiera, che è un continuo «interpellare» Dio e «lasciarsi interpellare» da lui, per scoprire la sua volontà e aderirvi nell’amore: un «dialogo», dunque, non tanto o solo fatto di parole, quanto di «atteggiamenti vitali» che si alimentano alla luce e alla forza che vengono da Dio.
    Tutta la vita pubblica del Cristo, a cominciare dal suo digiuno dei quaranta fino alla sua morte, avviene sotto il segno di una ricerca costante della volontà del Padre, espressa ordinariamente nel raccoglimento della preghiera: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato» (Gv 4, 34). Gesù non verrà mai meno a quest’atteggiamento di radicale disponibilità verso il Padre, anche se l’attuarlo gli costerà la lacerazione del suo stesso essere umano.

    LA PREGHIERA DI GESÙ

    La novità della preghiera di Gesù

    Gesù non propone formule di preghiera se si eccettua il Padre nostro, che è un modello più che una formula. Egli stesso, e i suoi seguaci dopo di lui, continuano (fino ad oggi) a usare le forme di preghiera della Bibbia ebraica, specialmente i salmi. Né Gesù elabora nuove tecniche per pregare.
    Le tecniche di preghiera sono ben poco sviluppate nel cristianesimo (se confrontate, ad esempio, con l’induismo o il buddismo). Invece, Gesù ci propone un nuovo atteggiamento nella preghiera, che scaturisce da una nuova esperienza di Dio. Tutta la preghiera di Gesù, e ogni suo insegnamento su di essa, sono il frutto della sua esperienza di Dio come abbà. Questo fatto spiega l’orientamento specifico della preghiera di Gesù, e dà ragione anche della sua sconcertante noncuranza delle «tecniche» in favore dell’«atteggiamento».
    Gesù, infatti, fa esperienza di Dio non come dell’Assoluto che pervade ogni cosa (brahman), che è l’«io» (atman) reale del cosmo e di tutto quanto è in esso, ma come del genitore che ama (abbà), che ha fatto dono di sé, nell’amore, all’umanità. Dio quindi lo si incontra non attraverso la «meditazione», vale a dire tramite una forte consapevolezza introspettiva che conduce alla percezione dell’«Io nell’io» (Bhagvadgita VI, 20); bensì attraverso la «preghiera», vale a dire, tramite una «conversazione» interpersonale con Dio, nella quale l’amore è sperimentato e dato, e in cui si crea un rapporto di intimità.
    La meditazione può aver bisogno di tecniche altamente raffinate, ma di solito le tecniche non aiutano molto in una conversazione, eccetto forse all’inizio, per avviarla. Una volta iniziata, prende il sopravvento la dinamica dell’interazione personale, e non c’è più bisogno di una tecnica, bensì di un atteggiamento di mutua apertura e fiducia.
    L’atteggiamento fondamentale della preghiera per Gesù è stato espresso da lui nella figura del bambino. «In verità vi dico», afferma con solennità, «chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Mc 10,15; Lc 18,17). Accogliere il regno di Dio come un bambino significa accettare l’amore salvifico di Dio con l’apertura, la fiducia, la libertà e la spontaneità con la quale un bambino risponde alla vita.
    Significa accettare pienamente (come fanno i bambini) la vita come dono senza contare sui propri meriti, come fa invece il fariseo in preghiera nella parabola di Gesù (Lc 18,9 14); senza attaccarsi ai propri beni, come fa il giovane ricco che esprime l’intenzione di seguire Gesù nel racconto evangelico (Mc 10,17 22); significa essere semplici, non egoisti, fiduciosi e liberi.
    Gesù esige questo atteggiamento dai suoi perché esso appartiene all’esperienza particolare di Dio che egli ha comunicato a loro. All’esperienza cristiana fondante di Dio come un padre che ama (abbà) corrisponde (dialetticamente) l’atteggiamento cristiano fondamentale di accoglienza del regno come un bambino. Alla continua esperienza cristiana della premura assolutamente paterna, o ancor meglio, materna di Dio (giacché è la madre, non il padre, che nutre e veste) corrisponde (dialetticamente) l’atteggiamento cristiano incessante di una fiducia libera da preoccupazioni e simile a quella dei bambini, che non si preoccupa del domani (Mt 6,25 34).
    L’esperienza e l’atteggiamento interiore sono in tal modo rapportati l’una all’altro, dialetticamente. Dio è sperimentato come un genitore pieno di amore e di premura soltanto quando accogliamo il regno di Dio (il suo amore salvifico) con la fiducia di un bambino. Ma possiamo accogliere il regno di Dio come un bambino soltanto se abbiamo fatto esperienza dell’amore provvidente di Dio.
    La preghiera cristiana scaturisce da questa dialettica di esperienza e di atteggiamento. Poiché il cristiano fa esperienza di Dio come di un genitore premuroso, e si rapporta a lui come un bambino pieno di fiducia, la preghiera cristiana sarà la preghiera di un bambino.
    Tale preghiera sarà anzitutto una preghiera di domanda e di ringraziamento, perché chiedere e ringraziare (e specialmente chiedere) sono le forme normali della conversazione del bambino.
    Capiamo allora perché l’insegnamento di Gesù sulla preghiera, così com’è rivelato nei vangeli sinottici, insista con tanta energia sulla petizione e (in misura minore) sul ringraziamento.

    Pregare è entrare nella tenerezza di Dio: ecco ciò che fa la differenza nella preghiera cristiana.
    «Mi ricordo d’un musulmano di Tunisi, professore nella Grande Moschea, a cui i Padri Bianchi avevano chiesto di voler tradurre in arabo il testo evangelico della parabola del figliol prodigo. Questo musulmano era un uomo religioso e aveva un senso elevato della trascendenza divina. Quando riportò la sua traduzione, egli piangeva leggendola: non aveva sospettato fino allora che vi potesse essere in Dio una simile tenerezza per l’UOMO».
    René Voillaume, Con Gesù nel deserto, Morcelliana, pag. 50.

    PER GESÙ PREGARE...

    … è sentirsi Figlio di un Padre

    La preghiera di Gesù nasce dalla sua profonda relazione con Dio Padre.
    La prima parola che i vangeli riportano come detta da Gesù è «Padre»: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose che riguardano il Padre mio?» (Lc 2, 49). «Padre» è anche l’ultima parola prima di spirare: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
    Nel corso della vita ripeterà spesso, come leit motiv di una misteriosa sinfonia, espressioni che lasciano intravvedere qualche squarcio di questa stupenda realtà: «Il Padre mi ama… Come il Padre ha amato me, così io amo voi».
    Solo il Padre costituisce il suo mondo, la sua realtà, la sua vita. Solo col Padre la sua solitudine diventa comunione di vita fecondissima. Frequentemente l’evangelista Giovanni ricorda le parole significative di Gesù: «Io non sono solo» (Gv 8, 16.29). L’ultima volta, vicino a morire, dice: « Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete, ciascuno per conto suo, e mi lascerete solo. Ma io non sono solo, perché il Padre è con me « (Gv 16, 32).
    La preghiera di Gesù non è altro che una sempre rinnovata comunicazione col Padre, una felice necessità di immergere e fondere il proprio «io» nel «Tu» del Padre. Il Padre che invoca gli appartiene in un senso affatto speciale. La preghiera di Gesù è unica, perché è il raccogliersi del Figlio con il Padre2.
    La preghiera di Gesù nasce dalla sua profonda consapevolezza di essere Figlio.
    Quando Gesù prega con parole proprie, chiama sempre Dio con il nome di «Padre». Per cogliere il valore di questo appellativo, è indispensabile risalire all’aramaico Abba (attestato da Marco e indirettamente da Romani 8,15 e Galati 4,6 che documentano il perdurare di queste invocazioni nella preghiera cristiana). È stato osservato che un tal modo di rivolgersi a Dio è del tutto insolito presso gli Ebrei: Abba è il diminutivo familiare che adopera il bambino quando parla al suo papà, al suo «papi». Il comportamento di Gesù si stacca quindi da qualsiasi consuetudine: è suo peculiarissimo privilegio, parlare a Dio con un tono di familiarità e d’intimità che nessun altro può permettersi.
    Al Figlio che prega contemplando l’amore del Padre, il Padre risponde dichiarando non solo il suo amore ma la sua predilezione per il Figlio. Nel Battesimo e nella Trasfigurazione il Padre si fa sentire e dice: «Questi è il mio Figlio diletto nel quale ho posto le mie compiacenze: ascoltatelo». La preghiera è questo scambio di «amorosi sensi»: l’orante non si stanca di contemplare l’amore del Padre e il Padre che ripete eternamente: «ti amo».

    La preghiera migliore è quella in cui è maggiore la consapevolezza dell’amore di Dio Padre. Per noi, il problema non è tanto d’essere convinti nella fede che Dio ha mandato suo Figlio per salvare il mondo perché questo lo crediamo in maniera generale, crediamo che il Signore ama il mondo e tutti gli uomini, ma piuttosto di credere sufficientemente che siamo amati, personalmente: «Io credo che sia più difficile per noi di quel che non si pensi abitualmente, credere d’essere amati, credere di essere oggetto d’un amore immenso. È forse più difficile crederlo, che credere all’amore che nutriamo noi per il Signore. È più difficile sapersi amati che amare, e vi sono nel cuore dei cristiani e nel cammino spirituale molte debolezze, molta stanchezza che provengono dal fatto che questi cristiani non sanno più di essere amati».
    René Voillaume, Con Gesù nel deserto, Morcelliana, pag. 51.

    … è lodare e dire grazie

    Gesù è certo dell’amore del Padre, per cui dà molto spazio alla lode e al ringraziamento: «Padre, ti ringrazio perché mi hai esaudito» (Gv 11, 25) è la sua preghiera non di un momento ma di sempre. Egli «rende grazie» prima di moltiplicare il pane nel deserto, istituendo l’Eucaristia…
    In occasione della risurrezione di Lazzaro, così Gesù prega: «Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato. Io sapevo che mi dai sempre ascolto; ma l’ho detto per la gente che ci sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato» (Gv 11, 41-42).
    Esempio di questa lode è la bellissima preghiera di «giubilo» e di esaltazione al Padre per aver svelato il suo «mistero» ai semplici: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza» (Mt 11, 25-26).
    In Gesù, il più grande orante della storia, la preghiera è soprattutto lode e ringraziamento perché tale è la psicologia dell’amore. La preghiera è amore. Ora nell’amore «dire grazie» è più importante che chiedere grazie.
    Nella preghiera si può partire dalla domanda. Ma si deve finire con la riconoscenza. Come avviene nel miracolo della guarigione dei dieci lebbrosi di cui parla Luca (17, 11-19).

    «La misura di ogni felicità è la riconoscenza... I bambini sono grati alla befana che mette nelle loro calze doni di giocattoli o di dolci. Posso io non essere riconoscente alla Befana che mi ha messo nelle calze il dono di due miracolose gambe? Si ringraziano gli amici che ci regalano una scatola di sigari o un paio di pantofole per il nostro genetliaco. Posso io ringraziare qualcuno che per il mio genetliaco mi ha regalato la vita?... L’esistenza è una sorpresa, ma una sorpresa piacevole. Tutte le mie convinzioni sono rappresentate da un indovinello che mi colpì fin da bambino. L’indovinello dice: «Che disse il primo ranocchio?» E la risposta è questa: «Signore, come mi fai saltare bene». In succinto c’è tutto quello che sto dicendo. Dio fa saltellare il ranocchio e il ranocchio è contento di saltellare» (Chesterton).

    … è contemplare il Padre che opera nella natura

    «Il Padre opera, io pure opero» (Gv 5, 17).
    Per Gesù il Padre non riposa mai (Gv 9, 4). È Lui che manda il sole e la pioggia (Mt 5, 45). È Lui che veste i gigli del campo (Mt 6, 3) e nutre i corvi (Lc 12, 24). Nessun passero cade senza che il Padre lo sappia (Mt 10, 29) e tutti i capelli del capo sono contati (Mt 10, 30).
    «Di qui il modo realistico, generoso, intimo di considerare la natura che Gesù ha e che tiene tanto del moderno... L’amore per la natura e per le cose naturali non è in lui ebbrezza di beatitudine sentimentale come un poeta romantico. Gesù non si culla di un mero culto della natura. La natura è piuttosto per lui la volontà divina vivente e plasticamente formata. Il suo amore per la natura non è che un atteggiamento particolare del suo amore per Dio e per il suo volere».

    Nella storia della spiritualità, ebraica prima e cristiana poi, c’è tutto un filone che sviluppa la preghiera di contemplazione, di ammirazione, di estasi di fronte alla natura vista come espressione dell’amore di Dio. Negli ultimi giorni della sua vita san Francesco di Assisi aveva gli occhi gravemente malati. Un chirurgo pensò di guarirlo applicandogli bottoni di fuoco alle tempie. Alla vista del ferro rovente, i compagni raccapricciarono, ma Francesco parlò al fuoco come a un amico, anzi come a un fratello: «Sii benigno in quest’ora, verso di me, fratello fuoco; sii con me gentile, giacché ti ho amato nel Signore».
    Forse dopo Gesù, nessuno al mondo ha saputo amare le creature nel Signore, come s. Francesco d’Assisi. Egli amava il creato non per sé, ma per chi l’aveva prodotto. Il sentimento cristiano gli muoveva la fantasia. Si affezionava alle creature e ne faceva idoli d’amore per il loro Fattore.
    Quando incontrava un agnello, pensava subito a Gesù agnello divino e piangeva. La sua immaginativa fulminea aboliva tutti i passaggi logici e allegorici. Egli era così pieno, così compiutamente cristiano, che a ogni piccolo urto versava la sua immaginazione sulle creature. L’incontro con le creature accadeva come per urto. «Non vedi – disse una volta al suo compagno – non vedi quella pecora che va così mansueta tra le capre e i montoni? Proprio così, ti dico, il Signore nostro Gesù Cristo doveva camminare umile e mite tra i farisei e i principi dei sacerdoti».

    … è contemplare il Padre che opera nella storia

    Per Gesù pregare non è solo contemplare il Padre che agisce nella natura, ma è anche contemplare il Padre che agisce nella storia umana: « Il Padre opera, anch’io opero» (Gv 5, 17).
    È soprattutto nell’uomo che Gesù riconosce l’agire di Dio Padre. L’uomo, qualunque uomo «giusto» o « ingiusto», è figlio del Padre, al cui egli manda il sole e la pioggia (Mt 5, 45).
    L’uomo sta così vicino al cuore del Padre che chi accoglie il volere di Dio deve accogliere anche il desiderio dell’uomo, si tratti di un samaritano o di un giudeo, di un malato o di un sano, di un giusto o di un peccatore.
    Il servizio al prossimo è posto al cuore della religione, così che una religione senza amor del prossimo non è tale: «Perciò, quando vi mettete a pregare, perdonate, se avete qualcosa contro qualcuno, perché anche il Padre vostro che è nei cieli vi perdoni» (Mc 11, 25); «Va’ prima a riconciliarti con i tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono» (Mt 5, 23 24).
    Il fariseo che, pregando, giudica con una «pia» occhiata il pubblicano nell’angolo del tempio, se ne va «ingiustificato» (Lc 18, 14). Tutta l’intimità con il Padre che Gesù realizza nella sua preghiera, si traduce immediatamente in amore del prossimo e rifluisce in forza redentrice e letificante sui poveri, sugli malati, sui peccatori.
    Si diventa quello che si contempla. Contemplando nella preghiera il Padre che ama tutti gli uomini e manda il sole sui buoni e sui cattivi, si diventa anche noi creature capaci di amare tutti i buoni, i meno buoni, i cattivi, gli amici e i nemici.

    … è lasciarsi interpellare dalla volontà del Padre per attuarla

    La lettera agli Ebrei descrive così l’ingresso di Gesù nel mondo: «Entrando nel Cristo dice: tu non hai voluto né sacrificio, né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco io vengo – poiché di sta scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà» (Ebr 10, 5 7).
    La prima parola che dice a dodici anni quando è ritrovato nel tempio, si riferisce alla volontà del Padre. Nel momento drammatico della Passione ripete la stessa preghiera: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice; però non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26, 39).
    Per Gesù la preghiera non è tanto un rifugiarsi in Dio per trovare consolazione al proprio spirito, quanto un interrogarlo per conoscere il suo disegno su di noi, che potrebbe anche essere un disegno di martirio, che ci farà profondamente soffrire; la consolazione nascerà solo dal sapere che tale è la volontà del Padre e noi l’abbracceremo anche se è una volontà che ci crocefigge.
    A questo riguardo, sempre nella Lettera agli Ebrei leggiamo: «Nei giorni della sua vita terrena, egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo dalla morte, e, per il suo pieno abbandono, venne esaudito. E pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì, e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti quelli che gli obbediscono» (Ebr 5, 7 9).
    Lungo tutta la sua vita Gesù ripete l’unità tra il pregare e il fare la volontà del Padre:
    «Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato» (Gv 6, 38; vedi 3, 17; 4, 34; 5, 28 29. 30. 36).

    «L’aspro, l’eroico sta nel volere intimamente, lealmente, fortemente quello che Dio vuole. È pertanto un mero atto dell’uomo interiore, nato solo a questo; qualcosa che io debbo porre sempre di nuovo, quando si manifesta il volere di Dio: sia come permissione, sia come positiva richiesta. Ed è pure qualcosa di molto semplice nella sua espressione esterna: pur tuttavia, nella sua intima esistenza, è qualcosa che esige «violenza». Non si tratta invero di prender notizia tranquillamente della permissione o dell’esigenza come ineluttabile volere divino, di considerarla come una specie di fatalità a cui ci si deve bene o male adattare. E non si tratta pertanto di una sopportazione stanca e inerte, di un lasciare che il volere divino si svolga in noi, bensì di un rapporto vivo e operoso con esso.
    Consentendo io intimamente a ciò che Dio vuole, io voglio con la stessa intimità e pienezza tutto ciò che, attraverso la sua ineluttabilità e inevitabilità, attraverso l’assolutezza della sua esigenza, si rivela chiaramente come volontà divina. Un siffatto volere interiore, una siffatta adesione pura e schietta alla volontà divina è tanto più difficile, quanto più estranea e inconcepibile mi riesce codesta volontà, quanto meno in essa riesco a scoprire finalità, sapienza, bontà».
    Karl Adam, Cristo nostro fratello, Morcelliana, pag. 20.

    … è assumere una totale disponibilità al sacrificio

    C’è una profonda unità tra preghiera e sacrifico.
    Non si può pregare se non a condizione di essere in un sincero atteggiamento sacrificale. La preghiera di Gesù raggiunge la sua massima espressione nella cosiddetta: «preghiera sacerdotale» in cui Gesù dice: «Per loro io consacro (sacrifico) me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità» (Gv 14,19). In questo contesto egli si sacrifica nel segno del pane e del vino.

    «Il ‘mondo’ non è un incantato giardino di fiorì e di frutti, lì pronti per essere gustati e assaporati dal primo che passa; esso è piuttosto una foresta, in cui insieme al frutto gustoso c’è anche la pianta che porta frutti velenosi o fiori nauseanti. Solo chi non si abbandona all’ebbrezza indiscriminata del primo contatto con questa realtà» ‘ambigua’ «che è il mondo, può uscirne indenne. Il cristiano pertanto è colui che è sempre in atteggiamento di scelta ‘critica’: e quando si sceglie, è ben risaputo che si deve sempre sacrificare qualcosa».
    Settimio Cipriani, La preghiera del Nuovo Testamento, ed. OR, pag. 21

    «Se avete paura dell’amore... non dite mai messa. La Messa farà riversare sulla vostra anima un torrente di sofferenza interiore, che ha un’unica funzione di spaccarvi in due, affinché tutta la gente del mondo possa entrare nel vostro cuore. Se avete paura della gente, non dite mai messa! Perché quando incominciate a dire messa, lo Spirito di Dio si sveglia come un gigante dentro di voi, e infrange le serrature del vostro santuario privato e chiama tutta la gente del mondo affinché entri nel vostro cuore. Se dite messa, condannate la vostra anima al tormento di un amore che è così vasto e così insaziabile che non riuscirete mai a sopportarlo da soli. Quell’amore è l’amore del Cuore di Gesù, che arde dentro il vostro miserabile cuore, e fa cadere su di voi l’immenso peso della sua pietà per tutti i peccati del mondo!
    Sapete che cosa quell’amore vi farà, se lo lascerete lavorare nella vostra anima, se non gli resisterete? Vi divorerà. Vi ucciderà? Spezzerà il vostro cuore».
    Thomas Merton, Dove ho incontrato Cristo, a cura di J. A. Brien, Morcelliana.

    … è assumere su di sé la situazione del peccatore

    C’è stata una preghiera che Gesù non ha potuto fare: la preghiera per i suoi peccati. Anzi ha detto chiaramente di essere senza peccati: «Chi di voi mi accuserà di peccato?».
    Però nella sua vita ha avuto a che fare sempre con i peccati e con i peccatori.
    Appena inizia la sua vita pubblica Giovanni lo addita alle folle dicendo: «Ecco l’Agnello di Dio colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29).
    Tutta la sua vita è stata un farsi carico del «peccato del mondo». Dall’alto della croce perdona ai suoi nemici: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».
    Nella sua preghiera Gesù assume tutto «il peccato» del mondo e ci invita a farci solidali con i peccatori.
    Nel Padre nostro ci insegna a farci solidali con tutti i peccatori, pregando non solo per i peccati personali, propri, ma per i «nostri»: «Rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori».

    CONCLUSIONE

    Abbiano tracciato alcune linee della preghiera di Gesù: Ora – per chi volesse – si potrebbe fare un confronto tra quanto qui descritto e quello che noi viviamo nella nostra preghiera. Soprattutto sarebbe necessario fermarsi sul fatto che la preghiera è una relazione d’amore.

    E se dedicassimo a Dio l’otto per mille del nostro tempo?

    Predicando in una chiesa fiorentina, un monaco proponeva qualche tempo fa questa riflessione. Molte persone affermano spesso di non pregare quanto vorrebbero, aggiungendo però subito dopo, per scusarsi, che tra i mille impegni della giornata (lavoro, famiglia, commissioni da sbrigare) non trovano il tempo. Eppure, noi cristiani accettiamo di buon grado di destinare alla Chiesa (e quindi a Dio) l’8 per mille delle tasse che paghiamo. Non potremmo decidere di dedicare a Dio l’8 per mille del nostro tempo? Contando i 1440 minuti di una giornata, l’8 per mille ammonta appena a 11,52 minuti. Possibile – concludeva il frate – che non si trovino meno di 12 minuti al giorno da trascorrere in preghiera? Oltre alla questione del tempo, per molti però si presenta il problema di come riempirlo. Non siamo più abituati al silenzio, non siamo abituati a parlare con Dio e ad ascoltare la sua voce.

    «Quando Gesù Cristo ci unisce alla sua preghiera, quando possiamo fare nostra la sua preghiera, allora siamo liberati dal tormento degli uomini che non possono pregare. Ma è proprio questo che Gesù Cristo vuole per noi: egli vuole pregare con noi, vuole che facciamo nostra la sua preghiera... Noi preghiamo nel modo giusto quando la nostra volontà e tutto il nostro cuore si uniscono alla preghiera di Cristo. Solo in Gesù Cristo noi possiamo pregare; ed è anche con lui che noi saremo esauditi».
    Dietrich Bonhoeffer, Pregare i Salmi con Cristo, pp. 64-65.

     


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