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    A tu per tu con Dio /7

    Paolo Zini

    (NPG 2010-08-05)

    Io penso, sono convinto che molti uomini non coinvolgono mai il loro essere, la loro sincerità profonda. Vivono alla superficie di se stessi, e il suolo umano è così ricco che questo straterello superficiale basta a provvedere un magro raccolto, il quale dà l’illusione di un vero destino. Quanti uomini non avranno mai la più pallida idea dell’eroismo soprannaturale senza il quale non si dà vita interiore! Ma proprio su questa vita saranno giudicati: se appena ci pensiamo, la cosa appare certa, evidente. E allora? … Allora, spogliati dalla morte di tutte quelle membra artificiali che la società fornisce a individui di questo genere, si ritroveranno quali sono, quali a loro insaputa erano – orribili mostri non sviluppati, monconi d’uomini. Il cancro che li devasta è simile a numerosi tumori – indolore.

    Bernanos inchioda il lettore come pochi romanzieri sanno fare. I suoi referti sono lucidissimi e spietati... Il guaio è che è difficile dar loro torto. In una società videocentrica si deve assistere con imbarazzo allo sgomitare forsennato di anonimati bramosi di visibilità, ossessionati da una notorietà spesso inverosimile, fugace, contraddittoria. E dietro la tentazione dell’apparire, troppo spesso, solo infinita miseria d’essere. Questa superficialità potrebbe essere un segno eloquente della povertà di esperienza religiosa autentica; la relazione con Dio infatti è quella che chiede massima profondità di vita e insieme conduce l’uomo alla massima profondità di sé. Dove manca l’esperienza della profondità, si intuisce la non credibilità di un costume, di una forma di società, addirittura del suo pensiero sulla religione. Sì, anche studi scientificamente documentati e accuratamente elaborati sull’esperienza religiosa, quando non ne hanno conosciuto la profondità danno l’impressione di parlare di qualcosa che descrivono nell’apparenza del suo involucro. Ma la relazione con Dio è così: estranea a finzione, esibizionismo, spettacolarizzazione mediatica, è custode gelosa dell’aut-aut della profondità, che solo se frequentata in prima persona può essere conosciuta e analizzata nel suo proprium. Perché il rapporto con Dio nella sua verità giunga ad una consapevolezza vitale, occorre una decisione, una decisione personale per la profondità; il resto, tutto ciò che appare come espressione religiosa, privato di questo nucleo, è mero guscio senz’anima.

    «Dove sei?», «Cosa stai facendo?»

    L’attenzione a due domande un po’ particolari può favorire una riflessione sulla relazione con Dio come esperienza di profondità di vita e di profondità di sé. Si tratta di due domande antiche, oggi segnate da una nuova, molto particolare fortuna: la prima è fatta di due semplici parole «Dove sei?» ed è quella che dà inizio a miliardi di conversazioni al cellulare; l’altra, che sta accompagnando il fenomeno Facebook, è «Cosa stai facendo?». Sono due domande che, intese nel loro significato religioso, hanno la capacità di scombussolare una vita; ma forse la loro sovraesposizione e usura mediatica, nel nostro mondo, le sta progressivamente svuotando di significato. «Dove sei?»… Quando c’è campo, questa domanda perseguita ormai l’uomo/cliente, esponendolo ad una visibilità e rintracciabilità persino fastidiose. Basta un cellulare e, se c’è campo, il mondo intero può sapere dove uno è; e se questi ha qualcosa da nascondere, l’avere campo non gli dà scampo. Così oggi le tracce dei passi dell’uomo sono infinite, registrate, salvate, a garanzia di una totale mappatura della vita: tutti sanno o possono sapere dove il cliente umano è. Ma occhi satellitari possono invece, in altri casi, aiutare un viaggiatore ignaro della propria posizione a riconoscerla. Qui il girovago, che non sa esattamente dov’è, chiede aiuto per saperlo, cercando le istruzioni di una voce artificiale, monocorde, ma precisa, imperiosa. L’uomo del XXI secolo è allora un po’ Pollicino e un po’ Dedalo: seminatore di tracce che marcano al millimetro il suo trovarsi qui o là, ma anche bisognoso di un filo di Arianna, digitale e satellitare, che lo renda dominatore vittorioso del labirinto della vita. Così, il «Dove sei?» è domanda che l’homo viator del terzo millennio sembra progressivamente padroneggiare, attraverso una crescente competenza circa il proprio posizionamento sulla superficie del mondo. La seconda domanda, «Cosa stai facendo?», conosce anch’essa, oggi, vicende degne di attenzione. In tempo reale un uomo può rendere partecipi altri del proprio fare o partecipare alla vita di altri, conoscendo ciò che questi dicono di fare; e tutto con la possibilità di una moltiplicazione divertita di particolari, fino a fare di una vita il punto di intersezione di mille vite. E soprattutto sino a rendere un uomo più preoccupato di avere di che raccontare piuttosto che di che vivere. Ecco cosa sembra agitarsi oggi in quei semplicissimi «Dove sei?», «Cosa stai facendo?». Se questa, cui abbiamo accennato, è la sorte attuale di due consueti interrogativi umani, forse non è ozioso chiedersi se c’è ancora qualche spazio per la loro forma religiosa, quella che li sente risuonare non tra uomini interconnessi da microchips, ma nella coscienza in rapporto con Dio. Sono i più credibili cercatori di Dio a mostrare come queste due domande siano state il centro della loro vita; ed essi ancora avvertono come nella relazione con Dio quelle domande non conoscano il senso unico: poste infatti dal credente a Dio, sono poi rivolte da Dio al credente, nella vertigine di un rapporto dalla profondità crescente e travolgente, quella della fede.

    Un satellitare dell’anima

    «Dove sei?»: davvero una bella domanda, quando affiora sulla bocca di un credente esposto alla contro-domanda di Dio. «Dove sei?»: la domanda fondamentale che l’uomo rivolge a Dio non ha nulla a che spartire con la curiosità oziosa di molte chiamate importune fatte per ammazzare il tempo, e né con l’affanno di pedanti interrogatori lasciati dilagare per sedare l’ansia. «Dove sei?»: quando è rivolta a Dio questa è la domanda di chi non si considera navigatore di una rete ormai priva di punti cardinali, ma cercatore del riferimento fondamentale dell’esistere, del Riferimento che, fuori da ogni gioco o pettegolezzo, incalza la coscienza ponendo a sua volta la domanda: «E tu, piuttosto, dove sei?». Il rapporto con Dio vive di questo perenne «Dove sei?», che da un lato fornisce all’uomo religioso le coordinate di una prossimità affidabile di Dio, e dall’altro consente a Dio di condurre il credente alla profondità autentica di sé. Di nuovo, sono i grandi cercatori di Dio a rivelarsi testimoni di una verità fondamentale: non si può conoscere la posizione di Dio senza lasciarsi riposizionare da lui. E Dio dà appuntamento all’uomo laddove l’uomo si riconosce nella sua fisionomia ultima e si scopre donato a se stesso proprio da Dio. La relazione con Dio conduce qui: è un incontro che rimanda l’uomo, oltre ogni superficialità, alla verità del suo nome proprio, suo di Dio e suo dell’uomo, proprio di Dio e proprio dell’uomo. Nella relazione religiosa il credente impara che il nome di ciascun uomo non si forma per il gioco cieco della genetica, ma per la fantasia di Dio; è Dio che chiama per nome ciascuno e chiamandolo lo fa essere e lo fa essere secondo quel mistero di irripetibilità e originalità singolari, eccedenti ogni possibilità della natura o del volere umano. Non c’è nessuna possibilità di senso per la vita umana fuori da questa chiamata, ma non c’è nulla che la coscienza dell’uomo presentisca con tanta forza, sebbene in una drammatica confusione. E proprio la fede, relazione con Dio, permette all’uomo di superare la confusione e di riconoscere l’assoluta singolarità e irrevocabilità dell’alleanza che lega il suo nome proprio al Nome proprio di Dio. Al vivere di nessuno basta sapere perché la specie umana ci sia o continui ad esserci; ogni uomo che non si abbandoni alla superficialità, non può non cercare una ragione per il senso della propria vita, una ragione che giustifichi il suo nome proprio. Le ragioni generiche della vita sulla terra, fossero anche quelle della vita umana, perdono l’appuntamento con la singolarità dell’uomo, se lo consegnano ad una perfetta intercambiabilità e considerano indifferente il nascere e il morire individuali rispetto al valore assoluto della conservazione della specie. La relazione con Dio, invece, conduce l’uomo ad abitare le ragioni del suo nome proprio; di qui la profondità insuperabile di questa relazione che, quando colpita da disaffezione ed equivoci, mette in pericolo la qualità umana del vivere e del mondo. Circola nella letteratura sociologica contemporanea, l’immagine dell’uomo istantaneo, che vive autoriducendosi alla puntualità di esperienze che gli accadono, e nelle quali si autoinveste, ritenendo di poterle consumare fino in fondo solo facendosene al tempo stesso consumare. Quest’ideale d’uomo ha una grande attrattiva e miete molte vittime, suggerendo come criterio di vitalità l’eccitazione, una mistura di iperattività e di iperschiavitù… Se l’uomo fosse così, non avrebbe profondità, né mondo interiore, né alcunché di sé da scoprire, fuori dalla forma di godimento dovuta a qualche nuova esaltante provocazione. La pericolosità di una vita alla ricerca dell’eccitazione istantanea è evidente, laddove gli intervalli tra le esperienze di gratificazione divengono il tempo di una condanna alla pena dell’esistere fuori da ogni protagonismo e pienezza. Se poco esaltante è questo modello, preoccupante è anche quello dell’esistenza rampante che vorrebbe far coincidere l’uomo completamente ed esclusivamente con le proprie decisioni. Ogni scelta consentirebbe a quest’altro tipo umano di viversi come protagonista, vittorioso di ogni ostacolo: per lui il mondo si ridurrebbe ad espediente della sua ossessione di autoaffermazione soggettiva. Il rapporto con Dio conduce il credente ad una verità estranea all’apparenza dell’uomo istantaneo e dell’uomo rampante. Per chi crede la vita non è uno zapping che sollecita l’uomo ad affermarsi o consumarsi in balia di un turbinio di provocazioni; neppure è la sequenza di decisioni che gli assicurano il protagonismo solitario della propria vita. È il luogo nel quale l’uomo si cerca e si incontra come donato a se stesso, nella singolarità del suo nome proferito dalla fantasia senza pentimenti di Dio.

    Su Facebook con Dio

    «Cosa stai facendo?». Anche quest’altra domanda può essere riletta nel suo senso religioso, particolarmente profondo. Le giornate dell’uomo si riempiono di impegni e affanni, ma solo illusoriamente la loro descrizione può avvenire con semplicità e immediatezza. Di fatto quando l’uomo vuole capire cosa veramente stia facendo le difficoltà che incontra non sono poche. L’uomo non fa mai soltanto cose, ma facendo cose fa qualcosa di sé; se questo è vero, va pure detto che l’uomo non fa mai, in nessuna esperienza, semplicemente qualcosa di sé, ma, quando è alle prese con se stesso, dà forma alla sua vita dando forma a cose, relazioni, pensieri, amori, che lo rimandano oltre se stesso. In questo circolo straordinario, che dovrebbe sempre sorprendere l’intelligenza e il cuore, accade quella meraviglia che è la vita, con il mistero del suo prodursi; un prodursi che è sempre rivelazione di profondità nascoste. La relazione con Dio permette di accedere a queste profondità nascoste, proprio perché si forma nella sorpresa per la meraviglia della vita; e la meraviglia della vita sta, lo ripetiamo, in questo accordo sorprendente tra la libertà e l’interiorità umane, fatte per diventare storia, e il mondo, fatto per propiziare questa storia lasciandosi integrare in essa. Si tratta allora di guardare a questo fare dell’uomo che annoda, nella libertà, la propria storia alla storia del mondo. È sorprendente il modo in cui il mondo accoglie la sfida della libertà, addirittura l’anticipa, la suscita, la sostiene; il mondo sorprende per la sua disponibilità alla mano, al cuore, agli amori dell’uomo. Quanto sboccia nelle profondità dell’animo umano matura a contatto con il mondo; e il mondo, nella sua apparente pesantezza e materialità, accoglie le consegne dell’animo umano, permettendo che germoglino, diventando storia e facendo essere uomo l’uomo. La cosa è tanto sorprendente quanto reale: la materialità del marmo offre a Michelangelo la possibilità di avere storia come scultore, e, grazie a quel marmo che di Michelangelo custodisce l’anima, ancora Michelangelo diviene intimo, con la sua anima, all’anima dell’uomo di oggi. Una perfezione mozzafiato cancella i confini tra la materialità del mondo e l’intimità dell’animo dell’artista, mostrando come una libertà abbia storia consegnandosi, nel mondo, al futuro e consegnando il mondo ad una storia che avrà futuro. Ma lo stesso vale nella musica di Mozart, dove la creatività germogliata nell’animo dell’artista diventa sublimità dello spirito e insieme del suono; e questa sublimità continua a vivere oggi, nell’apparente grevità del mondo al quale assicura storia. Insomma il mondo è lì, dato, e l’uomo lo raggiunge, dialogando con esso, nutrendosi di esso e consegnandovi se stesso nell’opera delle proprie mani. Proprio così l’uomo vive, fa essere se stesso; da un lato si rivela, dando la parola al meglio di sé, per altro verso si forma, proprio esponendosi alla ricchezza del mondo, con la densità spirituale di tutto ciò che popola il mondo stesso. In questa prospettiva la domanda «cosa fai?» diventa molto esigente: altro è l’immediatezza del movimento delle mani semplicemente descrivibile senza troppi giri di parole, altro è il gioco dell’anima che vive nel movimento delle mani e che dà vita ad un ininterrotto dialogo con il mondo, tessendone la storia, che è storia di uomini e di cose. Di questa storia l’uomo riconosce di essere protagonista autorizzato e preceduto; storia nella quale si realizza una ri-creazione di sé e del mondo, storia che ha sempre i caratteri della scoperta: scoperta della ricchezza della propria identità e della ricchezza cui può essere condotto il mondo. E tale scoperta ha la forma dell’accoglienza di un dono. Si sono imbattuti in questo dono e nell’importanza di accoglierlo a dovere, i cercatori di Dio. Si sono imbattuti nel mondo e in se stessi come ci si imbatte in capolavori di Dio avviati al compimento: di qui la domanda «Cosa stai facendo?» rivolta proprio a Lui. E di qui l’ascolto della stessa domanda, questa volta rivolta loro da Dio, «Cosa stai facendo?». La relazione con Dio è il luogo dove il credente si imbatte nell’opera di Dio, che fa essere il mondo e fa essere nella sua irripetibilità la ricchezza intima di ogni uomo; e le fa essere entrambe alla maniera di un compito, chiamato a diventare storia. Essere in relazione con Dio significa allora vivere la responsabilità del proprio fare e del suo rapporto con il fare di Dio. Quando l’uomo scopre il fare di Dio come premessa e promessa per il proprio fare e perché il proprio fare sia storia di bene, allora la fede si fa storia; non solo storia credente, ma storia credibile, anticipazione e memoria del Bene, della sua creatività e della sua fantasia, origine e destino del mondo e dell’uomo.

    Dunque?

    La crisi di tante forme contemporanee della relazione con Dio viene forse dalla crisi di profondità che attraversa la società dell’apparire, e viceversa; questo allora denuncia due crisi, che si acutizzano per la loro reciproca influenza. Un uomo, che prima di oggi mai aveva potuto sapere in ogni istante ed esattamente dove fosse, quanto alla propria posizione geografica sul pianeta, assomiglia ad un naufrago quanto alla propria interiorità: non trova la via della profondità.Viversi alla superficie di sé è però premessa di una vita mancata. Di qui l’urgenza d’invocare il Nome di Dio, il Nome che custodisce il mistero di ogni nome, e vi sa condurre l’uomo che riconosce la verità di sé nei termini di dono da accogliere, di identità da scoprire, nella relazione con il principio del proprio essere. Anche la consapevolezza del senso dell’agire umano in riferimento a sé e al mondo manca oggi sovente di serietà e profondità: di nuovo, la relazione con il Nome di Dio, la fede, facendosi storia credente permetterebbe all’uomo di maturare nella verità ultima di sé, facendo maturare la verità ultima del mondo. Solo se garantita nella sua profondità, questa reciproca maturazione dispiega la verità feconda del senso ultimo dell’uomo e del mondo, rendendo credibile testimonianza all’intenzione di Dio.


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