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    La pedagogia della memoria



    Apprendere dall’esperienza /3

    Michele Pellerey

    (NPG 2010-03-57)


    Le riflessioni di Paul Ricoeur sull’identità narrativa, richiamate nel primo intervento, portano immediatamente a prendere in considerazione la dimensione narrativa del processo educativo e pastorale. Da due punti di vista: il ruolo della cura di sé e della ricostruzione prospettica della propria esistenza, e quello della comunicazione e condivisione di significati con altri. In questa direzione Bruner ha affermato:

    Il metodo che consiste nel proporre e riproporre una negoziazione sui significati con la mediazione dell’interpretazione narrativa costituisce […] uno dei grandi risultati dello sviluppo umano in senso ontogenetico, culturale e filogenetico» (J.Bruner, La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, 73). E precisa: «Tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta ha fatto la sua comparsa la nozione di un Sé narratore: un Sé che narra storie in cui la descrizione del Sé fa parte della storia.

    Lo stesso Bruner (La mente a più dimensioni, Bari, Laterza, 1988) aveva già precisato la base culturale di riferimento di questa affermazione, distinguendo due forme, o modi, di pensare, complementari, ma irriducibili tra loro. La prima forma si sviluppa secondo il paradigma dell’argomentazione, con procedure e criteri di validità propri; l’altra utilizza il paradigma della narrazione, con ben diverse modalità di sviluppo e di validazione. Questa seconda forma di pensiero è legata direttamente all’azione e all’attribuzione di senso, non solo alle diverse vicende umane, ma anche, se non soprattutto, alla propria esperienza personale.
    La prima forma di pensiero si esprime attraverso testi di natura espositiva, che esplicano con la loro struttura concettuale e la loro organizzazione argomentativa la propria forza comunicativa. La seconda forma di pensiero è legata inscindibilmente allo sviluppo temporale delle vicende umane e all’intrecciarsi delle azioni dei vari soggetti coinvolti, incluso il soggetto che narra.

    La pedagogia narrativa

    La conversazione educativa che si svolge in seno alla famiglia, come nelle differenti comunità educative e pastorali, è segnata profondamente dalla dimensione narrativa nella comunicazione interpersonale. Un contesto culturale, quale è quello famigliare, sociale, scolastico, ecclesiale, struttura lo sviluppo di vari aspetti della personalità: «una persona acquisisce una visione del mondo, lo crede organizzato secondo certe modalità, impara a desiderare certe cose, a scegliere una cosa e non un’altra» (R. Mantegazza, Per una pedagogia narrativa, Bologna, Editrice Missionaria Italiana, 1996, 15).
    D’altra parte una narrazione non è solo una sequenza di vicende ed esperienze soggettivamente vissute dai protagonisti, ma, in particolare per mezzo della sua trama e la evidenziazione delle varie situazioni, talvolta esasperate, comunica un modo di leggere la realtà, modalità concrete di vivere valori e significati, norme di convivenza e di interazione sociale. Non si raccontano solo le vicende, ma le si aiuta a interpretarle, fornendo prospettive di significato.
    La narrazione d’altro canto è anche il canale fondamentale per comunicare non solo modalità pratiche di comportarsi in determinate situazioni di vita in maniera valida, ma anche le ragioni che spingono a scegliere tali comportamenti. G. Abbà (Felicità, vita buona e virtù, Roma, LAS, 1995, 316) afferma:

    L’esempio vissuto del modello ha più forza di attrazione sull’affettività. Ma può essere opportunamente completato dall’espressione letteraria o drammatica di un’azione e dei caratteri in essa coinvolti: essa è artistica in quanto, per dirla con Conrad, metà della narrazione la scrive il lettore, sollecitato dalla vicenda a chiarire il proprio carattere, le proprie emozioni, le proprie deliberazioni.

    Da questo punto di vista si può vedere la narrazione come una forma di «ospitalità» (M. Pollo – R.Tonelli, «È possibile educare narrando», Note di Pastorale Giovanile, 1997, 6, 7-36).

    Chi narra invita coloro a cui la narrazione è rivolta ad entrare nel suo mondo e si dichiara disponibile ad interagire con il mondo dei suoi ascoltatori: accoglie nel suo mondo e si fa accogliere in quello degli interlocutori.

    È evidente, dunque, l’importanza di una valorizzazione adeguata nel contesto della conversazione educativa e pastorale di forme valide ed efficaci di pedagogia narrativa, che aiutino a costruire o negoziare significati e visioni del mondo; a sviluppare prospettive di vita e identità personali; a sollecitare, guidare e sostenere processi decisionali; a intrecciare sistemi di rapporti interpersonali autentici e fecondi.

    La pedagogia della memoria

    Oggi si sottolinea anche che l’esigenza e la possibilità di recuperare se stessi nel contesto di una rilettura attenta della propria storia di vita personale è legata al dispiegarsi di un racconto autobiografico.

    Il narratore si racconta avvertendo un impulso di carattere emozionale e affettivo, costitutivo della mente, alla auto-riflessione, alla descrizione, alla interpretazione degli eventi che ha vissuto o che sta vivendo. L’autobiografia [...] non concerne soltanto il passato: compare ogni qualvolta il protagonista del racconto trascenda il puro esperire della propria vita e le rivolga (si rivolga) delle domande (D. Demetrio, Pedagogia della memoria, Roma, Meltemi, 1998, 107-108).

    Il soggetto diventa così un ricercatore di se stesso, delle proprie ragioni esistenziali, della trama profonda che sottende la propria vicenda personale. Si tratta di una vera e propria «pedagogia della memoria», che considera la vita interiore come un luogo euristico privilegiato.
    Questa pratica educativa rientra nel più generale quadro delle tecnologie del sé.
    È questo un concetto chiarito da Michel Foucault, che afferma:

    possiamo considerare quattro tipi fondamentali di ‘tecnologia’, tutti ugualmente matrice di ragion pratica: 1) le tecnologie della produzione, dirette a realizzare, trasformare o manipolare gli oggetti; 2) le tecnologie dei sistemi di segni, che ci consentono di far uso di segni, significati, simboli, significazioni; 3) le tecnologie del potere, che regolano la condotta degli individui e li assoggettano a determinati scopi o domini esterni, dando luogo a una oggettivizzazione del soggetto; 4) le tecnologie del sé, che permettono agli individui di eseguire, coi propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sul proprio corpo e sulla propria anima – dai pensieri, al comportamento, al modo di essere – e di realizzare in tal modo una trasformazione di se stessi allo scopo di raggiungere uno stato caratterizzato da felicità, purezza, saggezza, perfezione o immortalità (M. Foucault, Tecnologie del sé, Torino, Bollati Boringhieri, 1992, 13).

    Si tratta di una vera e propria cultura del sé nel senso di aver cura di se stessi, assumendo la propria anima (e il proprio corpo) come oggetto di conoscenza e di trasformazione in vista della salvezza, della salute interiore. Le tecnologie che favoriscono questa azione formativa sono molteplici, come la scrittura di lettere su di sé o su temi etici e spirituali, la redazione di un diario comprendente pensieri personali o forme di confessione, l’esame di coscienza, le pratiche di meditazione, gli esercizi spirituali.
    Lo scopo di tutte queste pratiche è, secondo Foucault, il ritorno a se stessi. Questa prospettiva foucaultiana è stata criticata per un certo atteggiamento più estetico che profondo, tuttavia essa può essere valorizzata nel suo messaggio fondamentale «prenditi cura di te stesso», utilizzando tra le tecniche di autotrascendenza che l’esperienza umana è riuscita a sviluppare quelle che più si adattano alla propria situazione.

    Il metodo autobiografico

    Il metodo autobiografico rientra in questo quadro di tecnologie del sé e tende a recuperare «il senso» che ciascuno vive nel contesto della sua esperienza di vita e di rapporti con gli altri. Con esso si cerca di ricostruire, ricomporre, la trama delle relazioni con sé, con gli altri, con Dio, per comprendere più a fondo e riprogettare se stessi. Si tratta di una pratica formativo-biografica che tende a «mettere di fronte», in ricerca, in una prospettiva di autoformazione, la persona che affronta questo cammino.
    Esso ha come contenuto le diverse dimensioni della vita umana: sociali, personali, professionali, spirituali, morali, religiose; consiste nel lavoro su tali contenuti al fine di recuperare e «mettere ordine» nella memoria. In questo processo la persona è chiamata a rendere presenti i momenti, gli eventi, le esperienze, che appaiono davvero decisivi per l’esistenza della persona stessa, mettendoli a fuoco e cercando di darne una interpretazione più piena e convincente. In questo lavoro di rilettura e reinterpretazione si è come in dialogo con noi stessi e la nostra memoria, adottando una adeguata grammatica ermeneutica. Questa può essere Dio stesso e la sua parola, come ha fatto Agostino nelle sue Confessioni.
    Al tempo stesso deve mettere a fuoco le salienze biografiche, ovvero i momenti più incisivi.
    In questo processo non viene meno la figura della guida.
    Un maestro non è certamente escluso, ma la sua funzione viene ridefinita e ricollocata in ordine all’obiettivo della presa di coscienza della propria biografia e dell’esigenza di una sua più o meno profonda ri-trattazione. In effetti tale pratica può essere facilitata e resa più feconda se ci si confronta con un altro, o, meglio, se si è guidati da un esperto. Il confronto con un mentore o un animatore, soprattutto se non è occasionale, può divenire un aiuto che sostiene e orienta il soggetto, che specialmente all’inizio rimane abbastanza incerto e problematico.
    L’interazione tra soggetto e mentore-animatore può assumere la forma di un dialogo facilitatore di una riflessione critico-prospettica, di una apertura a nuovi possibili sé, all’impegno nel cercare di mettere in atto le condizioni per poter conseguire una nuova identità, più ricca e consapevole. Oppure i caratteri di una relazione di aiuto, nella quale si attua un vero e proprio scambio reciproco, nel quale un ruolo centrale è giocato da un ascolto attivo, che tenga conto non solo di una valorizzazione dei pensieri dei partecipanti, ma che miri anche a contenere le loro ansie e le loro preoccupazioni.
    Dal punto di vista del processo di soluzione di problemi essa svolge un ruolo importante per rilanciare considerazioni, intuizioni, riflessioni. Ecco perché nella grande tradizione monastica era importante il direttore spirituale, e nella psicanalisi lo psicanalista: è necessario qualcuno che divenga un principio di realtà rispetto agli infingimenti in cui cade l’io nella sua ricerca di profondità (S. Natoli, Guida alla formazione del carattere, Brescia, Morcelliana, 2006, 43).

    La valenza del metodo autobiografico

    Ognuno di noi ha una storia del proprio vissuto, un racconto interiore, la cui continuità, il cui senso è la nostra vita. Si potrebbe dire che ognuno di noi costruisce e vive un racconto, e che questo racconto è noi stessi, la nostra identità. Per essere noi stessi, dobbiamo avere noi stessi, possedere se necessario ripossedere, la storia del nostro vissuto.
    Dobbiamo ripetere noi stessi, nel senso etimologico del termine, rievocare il dramma interiore, il racconto di noi stessi. L’uomo ha bisogno di questo racconto, di un racconto interiore continuo, per conservare la sua identità, il suo sé (O. Sacks, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Milano, Adelphi, 1986, 153-154).

    La narrazione autobiografica, a partire da celebri testi letterari e filosofici, ha goduto di grande popolarità. Oggi è fortemente presente nei vari ambiti di studio e di approfondimento: dal romanzo alla psicologia, alla sociologia, alla storia, all’antropologia.
    Anche in pedagogia l’autobiografia sta occupando uno spazio sempre più centrale, pratico e teorico. Come metodo formativo e come riferimento fondamentale di una vera e matura educazione personalizzata.
    Ciò deriva anche dalla condizione di vita odierna nella quale sono presenti più individui in debole relazione tra loro che comunità di soggetti che vivono in un forte sistema relazionale. In questo contesto emerge la fragilità del singolo, che è inquieto, alla continua ricerca di sé, mentre la società postmoderna tende alla relativizzazione dei riferimenti valoriali, alla frammentazione dei destini, alla esasperazione del soggettivismo.
    Di qui la possibilità di una continua perdita di sé, in un vissuto di irresolutezza, incertezza, debolezza. La narrazione autobiografica in tale contesto viene a costituire una delle principali forme di cura di sé al fine di promuovere lo sviluppo di una adultità personale.
    Il metodo autobiografico si presenta dunque come una tecnologia del sé, per prendersi in cura al fine di favorire una ricostruzione, rigenerazione, una trasformazione del proprio io e del proprio progetto di vita. I percorsi della memoria che così vengono attivati danno la possibilità di riconoscere gli ambiti significativi della propria vita, come intenzioni, convinzioni, credenze, desideri, emozioni, sentimenti e su questa base ripensarsi, riscoprirsi, modificarsi e ricostruirsi in una esperienza vissuta come racconto.
    L’autobiografia non esprime solo importanti dimensioni dell’esperienza vissuta, ma, più radicalmente, cura il soggetto; configura il paradigma del prendere-in-cura e si dispone come pratica formativa altamente significativa perché libera il soggetto, svincolandolo da pregiudizi e soprattutto perché attraverso il dispositivo della cura, che mette in gioco un io dialogico, la sua natura relazionale e comunitaria, dove la soggettività è anche autotrascendenza e intenzionalità e soprattutto scommessa sul futuro, si rivela come strumento formativo che raccoglie l’imprescindibilità di processi di autoriflessione in cui divengono manifeste simultaneamente componenti emancipative, utopiche e critiche.
    L’introduzione del metodo biografico tende a recuperare «il senso» che ciascuno vive nell’incontro con l’alterità. Essa ricostruisce, ricompone, la trama delle relazioni per comprendere e riprogettare se stessi. Ne deriva una pratica formativo-biografica che tende a «mettere di fronte», in ricerca, in stile di autoformazione, il soggetto del cammino.
    È una pratica con momenti precisi: la descrizione della continuità/discontinuità con gli avvenimenti, la ricorsività e le corrispondenze dei fatti, la continua alternanza tra i soggetti: io/tu; qui/oltre; dentro/fuori.

    Il metodo autobiografico nella pratica ecclesiale

    Un seminario dell’Associazione Italiana Catecheti è stato dedicato nel 2005 a un approfondimento della pratica autobiografica nel contesto ecclesiale. Da due punti di vista: quello dell’accompagnamento del singolo cristiano nello sviluppare la sua vita di fede; quello della crescita della comunità cristiana nella sua adesione al Cristo e al suo messaggio.
    Nella presentazione del seminario si afferma:

    Nella pratica formativa ecclesiale si sono riscontrate nuove potenzialità derivanti dai metodi di intervento (auto)biografico. È possibile infatti vedere nei modelli di formazione e comunicazione attenti ai vissuti, alle relazioni, ai «racconti di vita», cioè alle persone, alle loro esperienze e ai modi di dare loro parola, una grande possibilità per la pastorale missionaria. Si tratta di una opportunità che nasce dalla «svolta narrativa» nata già da qualche decennio all’interno nella teologia dogmatica che, se accolta e ripensata metodologicamente in prospettiva biografica, rende le comunità e gli operatori pastorali capaci di una nuova competenza comunicativa.

    L’agire pastorale ne è arricchito di fecondità:

    Innanzitutto perché permette di rendere la persona davvero capace di sviluppo, orientamento e progettazione della propria vita. È quindi importante a livello della costruzione della apertura del destinatario all’annuncio evangelico. In secondo luogo queste metodologie possono dare un contenuto adeguato al bisogno di mistagogia proprio del nostro tempo. Se trasferito alla vita cristiana l’approccio narrativo-autobiografico permette di avere strumenti e percorsi concreti per la catechesi post-battesimale, soprattutto nel versante di un accompagnamento verso la maturità di fede; di favorire l’approfondimento nella propria esperienza di vita della formazione precedente; di sviluppare presso le comunità quella necessità di testimonianza spesso sottolineata.
    Viene poi sviluppata ulteriormente questa prospettiva di accompagnamento del fedele nella sua iniziazione alla vita cristiana piena attraverso un apprendere dalla esperienza della propria vita.
    In sintesi l’approccio narrativo-autobiografico offre:
    – strumenti e percorsi concreti per mettere in atto la funzione mistagogica che, da sempre, la Chiesa è chiamata a realizzare, sia pure con modalità e in forme diverse, per accompagnare nella fede i cristiani di tutti i tempi;
    – una metodologia orientata a consolidare e rafforzare il credere, proprio perché, in linea con le precedenti implicanze autoformative, in sostanza favorisce l’apprendere dalla vita, e in particolare dalla propria esperienza di vita;
    – una riconsiderazione genetica della cifra «testimoniale» in ordine alla qualità dell’annuncio medesimo;
    – sul piano pedagogico-pastorale la rinnovata e necessaria attenzione a tutto ciò che viene definito come «vissuto» all’interno del processo che accompagna il credere nella vita di una persona;
    – il superamento sul piano teologico di una considerazione puramente «noetica» della parola della fede, accompagnando la stessa riflessione teologica a ricentrarsi positivamente sul rapporto pensiero-vita e a riqualificarsi anche come «teologia vissuta» o «del vissuto».
    Si cita infine Severino Dianich che, intervenendo in un convegno sulla «nuova evangelizzazione» ha affermato:

    Oltre che a raccontare Gesù, dovrò anche raccontare di me. Il mio sarà un atto di evangelizzazione quando racconterò che credo che Gesù è risorto. E se credo che egli è risorto, avrò anche da raccontare come la sua vita e la sua storia contano per me. In una parola dovrò raccontare che io credo, raccontare la storia della mia fede, raccontare che per la fede faccio certe cose che altrimenti non farei. Ecco che allora il discorso si allarga: dal puro Vangelo al Vangelo recepito, vissuto e trasmesso.


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