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    Josè Saramago

    (NPG 2010-05-79)


    Sarà a causa della pressione atmosferica o per effetto di un imbarazzo di stomaco, certi giorni ci mettiamo a guardare al tempo trascorso della nostra vita e lo vediamo vuoto, inutile, come un deserto di sterilità sul quale brilla un grande sole autoritario che non osiamo guardare in faccia. Qualsiasi angoletto ci farebbe allora comodo per celare la vergogna di non aver raggiunto un pianoro qualunque da dove ci si riveli un altro paesaggio più fertile. Mai come in tali occasioni ci si rende conto di quanto sia difficile questo compito apparentemente immediato del vivere, che non sembra richiedere nessun apprendistato. È in tali momenti che facciamo risoluti progetti di modificare il mondo. Lo specchio è di grande aiuto nell’approntare le fattezze adeguate al modello che ci disponiamo a seguire.
    Ma sale la pressione, il bicarbonato ha riequilibrato l’acidità – ed ecco, la vita continua, zoppicante, come se avesse un chiodo nella scarpa e un’invincibile pigrizia di toglierlo. Sicché il mondo sarà di fatto trasformato, ma non da noi.
    Non starò, tuttavia, commettendo una grave ingiustizia? Non ci sarà nel deserto una subita ascensione che ancor da lontano affretti l’impari vertigine che è la densa zavorra che ci giustifica? In altre parole, e più semplicemente: non saremo tutti noi trasformatori del mondo? un dato e breve minuto dell’esistenza, non sarà questa la nostra prova, invece di tutti i sessanta o settanta anni che ci sono toccati in sorte? Il guaio è se incontriamo questo minuto in un passato lontano, o se al momento non abbiamo occhi per altre ascensioni più imminenti. Ma forse ci sarà una scelta deliberata, a seconda del luogo in cui parliamo del nostro deserto personale, o delle orecchie che ci ascoltano.
    Oggi, per esempio, quale che ne sia il motivo, sto vedendo, a distanza di trenta e più anni, un albero gigantesco, tutto proiettato in altezza, che sembrava, nel pantano circolare e liscio, l’asta di un grande orologio solare. Era un frassino dalla corazza rugosa, tutta fenditure alla base, e che sviluppava lungo il tronco una serie di protuberanze ramose, come aggetti che promettevano una facile scalata. Ma erano per lo meno trenta metri d’altezza.
    Vedo un ragazzino scalzo girare attorno all’albero per la centesima volta. Odo il battito del suo cuore e sento il palmo umido delle sue mani e un vago odore di linfa calda che sale dall’erba. Il ragazzo alza la testa e vede lassù in alto la cima dell’albero che si agita lentamente come se stesse pennellando il cielo d’azzurro.
    Le dita del piede scalzo si aggrappano alla corteccia del frassino, mentre l’altro piede ondeggia l’impulso che farà arrivare la mano ansiosa al primo ramo. Tutto il corpo si stringe contro il tronco aspro, e l’albero ode sicuramente i colpi sordi del cuore che gli si affida. Fino al livello degli altri alberi prima conquistati, l’agilità e la sicurezza si alimentano dell’abitudine.
    Ma a partire da lì, il mondo si allarga d’improvviso, e tutte le cose, fino ad allora familiari, si vanno facendo estranee, piccole, è come un abbandono di tutto – e tutto abbandona il ragazzo che sale.
    Dieci metri, quindici metri. L’orizzonte gira lentamente e barcolla quando il tronco, sempre più sottile, oscilla al vento. E c’è una vertigine che minaccia e mai si decide. I piedi scorticati sono come artigli che si afferrano ai rami e non vogliono lasciarli, mentre le mani cercano frementi la vetta, e il corpo si contorce contro il corpo verticale dell’albero. Il sudore scorre, e di repente un singhiozzo secco irrompe all’altezza dei nidi e dei canti degli uccelli. È il singhiozzo della paura di non aver coraggio.
    Venti metri. La terra è definitivamente lontana. Le case appiattite sono insignificanti, e le persone è come se fossero scomparse, e di tutte restasse appena il ragazzo che sale – proprio perché sale.
    Le braccia già possono cingere il tronco, le mani si uniscono dall’altra parte. La cima è ormai prossima, oscillante come un pendolo capovolto. Tutto il cielo azzurro si addensa sopra l’ultima foglia. Il silenzio copre il respiro affannoso e il sussurro del vento tra i rami. È questo il grande giorno della vittoria.
    Non rammento se il ragazzo sia arrivato in cima all’albero. Una nebbia persistente copre questo ricordo.
    Ma forse è meglio così: non aver raggiunto allora il pinnacolo è una buona ragione per continuare a salire.
    Come un dovere che nasce da dentro e perché il sole è ancora alto.

    (José Saramago, Di questo mondo e degli altri, Einaudi 2006)


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