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    Perché il mercato del Sacro caotico per offerte, saldi e conflitti?


     

    a cura dell’Ufficio PG-ILE – Giancarlo De Nicolò – Cristiana Freni

    (NPG 2010-07-10)

    Il percorso

    Anzitutto il titolo, anzi i due diversi titoli della rubrica, quello della scheda stessa e che segue la serie degli interrogativi che segnano questo percorso in dieci tappe verso Dio, e quello più «semplice» dell’articolo proposto per la riflessione: «Uno o molti Nomi?». Anche se sembrano distinti, in realtà dicono la stessa cosa: la chiave di comprensione è «il mercato del Sacro». In effetti il problema (o meglio la realtà) Dio subisce oggi una specie di relativizzazione generale, proprio in conformità con la cultura commerciale da supermarket che viviamo. Dio è un prodotto da supermarket, e sullo scaffale «religione» (che resta comunque e sempre determinante per la cultura-identità e vita dell’individuo) le scelte sono molteplici e differenziate, ed esse si spostano sia sul gusto del soggetto che sceglie e alla fine «compra», sia sulla presentabilità del prodotto in termini di «occhieggiamenti» per farsi comprare (cosa offre di speciale, e soprattutto a buon mercato, per meritarsi l’acquisto?). In questo senso il tema del mercato (o supermercato) è quanto mai illuminante perché rispecchia la priorità del gusto rispetto alla differenza dell’offerta, e in ogni caso il prodotto è messo in un confronto con gli altri senza criteri oggettivi ma unicamente funzionali. Per cui alla fine la differenza tra i prodotti non è sostanziale, di qualità (di verità), solo di convenienza, di piacere, di strategie di vendita. Tutto è fondamentalmente eguale, scambiabile; e il fatto che mi lasci sedurre da un prodotto o dall’altro alla fine dipende da fattori soggettivi (mi piace, sono portato dai miei gusti a…) o oggettivi per le circostanze culturali e sociologiche (sono nato in questa tradizione, in questa terra, da questi genitori, ecc., e dunque è uno dato scontato). Anche il secondo titolo si pone nella stessa logica, quando al termine «nome» si sostituisca realtà o Dio, che ne è appunto il nome assoluto, il vero unico nome. Il problema di Dio è solo una questione di nomi diversi per dire più o meno la stessa realtà, uguale dappertutto (tanto comunque Dio resta inconoscibile, il nome del nostro bisogno di trascendenza, che accomuna tutti gli uomini della terra e più o meno sollecita le stesse esperienze di trascendimento)? Per cui alla fine un dio vale l’altro e un dio al posto dell’altro sarebbe solo questione di criteri di appartenenza (ed esperienza soggettiva) o convenienza? Alla fine ci sarebbe dunque un’eguaglianza di fondo tra tutti (il nome divino) o una natura divina che fungerebbe da sostrato comune, e dove le differenze sarebbero questione marginale, quando non fosse possibile un mix che raccolga quello che del divino le diverse esperienze umane dicono? Insomma, Dio come nome comune, come divinità, non il nome proprio di Colui al quale l’umanità tende nel suo cammino di trascendenza e che si rivela attraverso esperienze appunto di rivelazione (o per altri di illuminazione e scoperta interiore) e che non sarà mai il Dio metafisico dei filosofi, ma il dio dei nomi e dei volti, appunto… di Abramo-Isacco-Giacobbe e poi di Gesù? Il percorso che stiamo percorrendo sembra a zig zag o a ostacoli… a volte anche a ritroso: in una parola, non è mai condotto in maniera linearmente progressiva, quasi un percorso logico. D’altra parte è questa l’esperienza di Dio, mai compiuta, mai realizzata pienamente, sempre a rischio per l’eclissi di Dio (soggettiva e sociale…) ma anche per una rivelazione di Lui che non è chiara, ma sempre da scoprire (nella vita, nei testi, nei testimoni, nella coscienza, nella ragione e nel cuore, nel bisogno di cercarlo e di ricercarlo ancora una volta trovato…). In ogni caso ci sovviene l’intuizione di Hölderlin, che ogni epoca resta illuminata dal suo dio, nessuna può restare nel proprio buio. La tappa attuale di questo percorso analizza la situazione del molti nomi di Dio e si interroga se la posizione migliore rispetto a questo tema non sia l’indifferentismo, la tolleranza reciproca, la consapevolezza che non sapremo mai chi è il Dio «vero» (o che alla fine tutti sono eguali, nomi diversi per un’unica realtà), e che dunque basta «essere buoni», non far torto a nessuno e «accontentarsi», perché questa è l’unica cosa che conta, almeno a livello sociale, il resto non può che re- stare nel regno delle opinioni, delle credenze soggettive e dunque non rilevanti per tutti, anzi persino dannose o pericolose. Dal momento che le riflessioni proposte nell’articolo hanno la loro coerenza logica e chiarezza e hanno bisogno di essere seguite passo passo, in queste schede preferiamo toccare solo alcuni temi per così dire «tangenziali», che allargano la riflessione verso sentieri attinenti e complementari… che hanno tuttavia la loro legittimità e il loro fascino.

    UNO O MOLTI NOMI?

    Fermiamoci ad elaborare il dato offerto dalla coscienza contemporanea rispetto al «nome» di Dio. Un po’ per ignoranza, un po’ per consapevolezza della relatività della verità (che, come direbbe Vattimo, fa da argine alla «violenza» della verità stessa, e soprattutto della verità metafisica e religiosa: non si uccide sempre per affermare i diritti della «verità» (che alla fine è sempre la propria verità?), un po’ per tolleranza, un po’ perché di ogni religione siamo ora capaci di coglierne lati positivi o interessanti o carenti nella nostra tradizione… un po’ per tutte queste e altre ragioni rispetto alla realtà e mistero di Dio ci si accontenta di… un tranquillo pragmatismo: va tutto bene, è meglio non affrontare la questione, tanto un dio vale l’altro. Ma prima uno sguardo appunto sulle «differenze» religiose e sui diversi nomi di Dio.

    1. Dio, un denominatore comune di diverse realtà divine?

    Una citazione da un prezioso libro di ricerca per giovani, di Carlo Fiore Religioni tra storia e attualità (Elledici) «‘Sempre e dovunque Dio, l’Assoluto, è cercato come un valore, anzi come il supremo valore con cui l’uomo aspira a mettersi in contatto’ (P. Rossano). Ma le forme di questa ricerca sono diversissime, e sono influenzate soprattutto dalle tradizioni culturali dei diversi popoli, orientali e occidentali. L’Oriente e l’Occidente sotto la parola Dio o Realtà suprema o Assoluto non intendono affatto la stessa cosa: la differenza è radicale. In altre parole, quando noi Occidentali diciamo ‘Dio’ intendiamo ben altra cosa da quello che viene inteso come Dio dalle religioni orientali, si chiami Brahman, Tao, Tien, Nirvana, Dharma, ecc. Esistono cioè le tradizioni religiose che si possono nominare della trascendenza teistica o del monoteismo storico-profetico, dove l’uomo si trova di fronte a un Assoluto personale creatore e provvidente, diverso e distinto dal cosmo e dall’uomo, tuttavia vicino ad essi, in virtù di un intervento effettuato liberamente nella storia in loro favore. Un Dio personale, uno e Unico. Il Dio ebraico-cristiano e islamico. A fianco di questa fede monoteistica si colloca un itinerario religioso a sfondo monistico, dove la Realtà ultima viene cercata al di là dell’io empirico e fugace in un grande ‘Sé’ anonimo e indifferenziato, nel quale tutto si risolve: è l’impersonale, l’Energia, il Vuoto, l’Uno, il Tutto, il Metacosmico delle intuizioni induiste e taoiste. È evidente la diversità radicale fra questi due campi religiosi dell’umanità. Ne deriva quindi l’impossibilità di usare il nome di Dio, tradizionalmente associato in Occidente al monoteismo cristiano, per indicare la Realtà ultima, quale è percepita dalla speculazione religiosa orientale. Non dobbiamo cioè lasciarci giocare dalla nostra mentalità occidentale ed eurocentrica per mettere sotto lo stesso comune denominatore Realtà tanto lontane» (pp. 15-16). E così il problema è posto almeno nella sua differenziazione sostanziale, restando almeno nell’attualità della situazione religiosa contemporanea, i due grandi filoni della religione storico-profetica e di quella cosmico-mistica. Un lavoro di approfondimento potrebbe dunque iniziare da qua: la presa di coscienza di queste due visioni (dunque, concezioni assolutamente diverse della Realtà assoluta, anche se forse unificata dalla stessa nomenclatura, quello «generica» di Dio). Innumerevoli libri e sussidi possono essere utilizzati nel tentare di conoscere i caratteri di questa divinità, il luogo della sua rivelazione, il modo della sua incarnazione nella storia umana e nello stesso uomo, il senso, le modalità, le vie della salvezza, il modo della relazione che si instaura con questo Assoluto (in qualunque modo lo si definisca), e il futuro dell’uomo.

    2. Dio, nomi diversi per un’unica realtà?

    Afferma Hans Küng: «In generale, nella storia delle religioni, si parla di ‘Dio’ soltanto là dove il sacro viene concepito come persona, e le potenze come esseri dotati di figura e volontà. A differenza degli ‘spiriti’, che sono anche potenze, il concetto di Dio ha un’impronta più individuale: il numen diventa nomen, Dio riceve un nome. Anzi, a volte un Dio – come espressione di potenza – porta addirittura innumerevoli nomi, ma a volte anche (specialmente nelle religioni mistiche altamente sviluppate) nessun nome – e ciò come espressione della sua trascendenza (il Dio innominato, inesprimibile, il deus absconditus» («Dio esiste?», p. 634). E poi cita, in un paragrafo «Il Dio dai molti nomi della religioni cinese» – il famoso caso di Matteo Ricci sulla possibilità – riuscita o meno, condannata o meno – della traduzione del nome di Dio, e soprattutto la possibilità offerta dal confucianesimo più che dal buddismo (il cui Dio senza nome rende difficile la possibilità di dialogo e confronto). Una possibilità di lavoro e di riflessione (la diversa realtà implicata e sottesa al nome di Dio, ma anche l’ambiguità che soggiace alle generiche definizioni di monoteismo e politeismo, la necessità anche per i monoteismi di purificare la comprensione stessa di Dio, magari nella direzione di «Dio come Spirito» oltre le definizioni tradizionali di Dio onnipotente), è offerta dalle pagine che seguono e su cui invitiamo i giovani a un lavoro di comprensione-critica.

    Una fede in Dio vissuta significa però anche rifiutare tutti gli altri poteri che oggi vengono elevati al ruolo di divinità. E in ciò è indifferente se l’idolatra moderno – sia esso «monoteista» o «panteista» – canti il suo «Grande Dio, noi ti lodiamo» al grande dio Mammona o al grande dio Sesso, al grande dio Potere, al grande dio Scienza, o Nazione o Calcio, a cui è pronto a sacrificare tutto. Resta da ricordare che la fede nell’unico Dio è in contrasto con ogni pseudo-religione che sottometta gli uomini a un potere non divino, li renda schiavi e li privi dell’umana dignità. Facciamo autocritica. Anche alcune qualità attribuite all’unico Dio non sono prive di problemi, come per esempio l’onnipotenza. Io trovo più importante un altro attributo divino, che sta anzi al centro della mia, della vostra «spiritualità».

    Dio come «Spirito»

    «Onnipotente» (dal latino onnipotens, «colui che tutto può»; in greco pantocrator, «signore di tutto») non è la mia parola preferita. Nella traduzione greca della Bibbia ebraica questo termine viene impiegato per sabaoth (signore degli eserciti), nel Nuovo Testamento, invece – eccetto che per l’Apocalisse (e una citazione in san Paolo) –, il termine viene vistosamente evitato. Questo predicato di Dio assume particolare peso a partire dalla teologia dei Padri della Chiesa e dalla scolastica medioevale, con conseguenze che si fanno sentire fino in alcune Costituzioni moderne, che vengono proclamate «nel nome di Dio, l’Onnipotente». In questo modo si legittimava evidentemente il potere politico, ma nello stesso tempo – soprattutto dopo la divinizzazione del Führer a opera del nazismo – si ponevano dei limiti a chi lo deteneva. Una fede religiosa illuminata può effettivamente rappresentare una risposta fondata all’illusione di onnipotenza degli uomini, che lo psicoterapeuta Horst Eberhard Richter chiama il «complesso di Dio». Per principio preferirei altri predicati divini del Nuovo Testamento, come «il più buono di tutti», «il più misericordioso di tutti» (presente anche nel Corano). O anche, se la parola non fosse stata così sminuita, il «buon Dio», come espressione di ciò che, visto da un punto di vista cristiano, dovrebbe essere la descrizione più profonda di Dio: «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16). L’idea di Dio come «Signore onnipotente» e «dominatore» che «controlla» o «guida» tutti gli avvenimenti del cosmo, anche quelli che riguardano le particelle subatomiche, è per me un concetto troppo antropomorfo. Come la metteremmo con tutti gli sprechi e i vicoli ciechi dell’evoluzione, con le specie estinte, gli animali e gli esseri umani che hanno perso la vita miseramente? Come la metteremmo con le infinite sofferenze e tutto il male del mondo e della storia? Per queste domande la concezione di un Dio onnipotente non ha una risposta. Il polo opposto di questa idea antropomorfa di Dio è la comprensione biblica di Dio come spirito, che si inserisce bene soprattutto nel contesto di una visione evoluzionistica del mondo. I passi biblici in cui ricorre lo spirito sono ricchi di metafore, di allegorie: afferrabile eppure inafferrabile, invisibile eppure potente, vitale come l’aria che si respira, carico di energia come il vento, la tempesta... Tutte le lingue hanno una parola per esprimere questo concetto, ma il genere diverso di ognuna di esse indica che lo spirito non si può definire tanto facilmente: spiritus in latino è maschile come anche Geist in tedesco, ruah in ebraico è femminile e il greco conosce solo il neutro pneuma. Lo spirito quindi è qualcosa di molto diverso da una persona di sesso maschile. La ruah è, secondo l’inizio del racconto della creazione nel libro della Genesi, quell’«alito di vita», «soffio», o «brezza» di Dio che aleggia sulle acque. E «pneuma», secondo il Nuovo Testamento, è l’opposto della «carne», la realtà transeunte della creazione. Lo spirito non è – come spesso nella storia delle religioni – un fluido magico, una sostanza misteriosamente sovrannaturale, di natura dinamica. Non è qualcosa di «spirituale» e neppure un essere magico di natura animistica (un qualche essere spirituale o uno spettro). La «colomba» e le «lingue di fuoco» sono solo immagini della sua efficacia. Cos’è dunque, secondo il Nuovo Testamento, lo Spirito, lo Spirito Santo? Non è altri che Dio stesso, come potenza, forza, grazia. La potenza afferrante ma inafferrabile che emana da Dio, una forza creatrice ma anche giudicante. Una grazia che dona ma non è a disposizione. E cos’è lo Spirito «Santo»? È «Santo» nella misura in cui Egli come Spirito di Dio viene distinto dallo spirito non santo dell’uomo e del suo mondo, e deve essere considerato come Spirito dell’unico Santo, Dio stesso. Diversamente da una interpretazione di Dio come spirito nell’ambito di una visione evoluzionistica del mondo, molti concetti di origine greca e scolastica mi sembrano superati: Dio è Spirito non come un motore immobile che esplicita la sua azione nel mondo dall’alto o da fuori. Lo intendo invece come realtà spirituale dinamica che dall’interno rende possibile, governa e porta a compimento l’ambivalente processo di sviluppo del mondo. Non elevato al di sopra del mondo, ma dentro di esso, in mezzo alle sofferenze che caratterizzano il suo sviluppo: negli, con e fra gli uomini e le cose. Dio stesso è l’origine, il mezzo e il fine del processo cosmico. Dio, in quanto Spirito, non lo considero nemmeno alla stregua di un miracoloso tappabuchi, che esplica la sua azione solo in determinati punti particolarmente importanti del processo cosmico e della mia vita. Lo intendo piuttosto come forza creatrice e perfezionatrice e sostegno originario, che è costantemente all’opera all’interno del sistema cosmico retto dalla legge e dal caso. Una guida che governa il mondo, dunque, immanente e nello stesso al tempo stesso trascendente, onnipresente anche nel caso e nella sciagura, nel pieno rispetto delle leggi naturali e della mia libertà, di cuì Egli stesso è l’origine. «Dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2 Cor 34,17). Non voglio dunque dover decidere tra mondo o Dio: non è un’alternativa. Né un mondo senza Dio, né un Dio identico al mondo. Contro l’ateismo e il panteismo io sostengo un’unità differenziata: Dio nel mondo e il mondo in Dio. In questo modo intendo Dio e il mondo, Dio e l’uomo non come due causalità finite in concorrenza l’una con l’altra, dove una vince quello che l’altra perde. Concepisco Dio come realtà infinita e il mondo come realtà finita, l’uno nell’altra. Per questo sono convinto che se Dio è davvero il fondamento, il sostegno e il senso spirituale onnicomprensivo e infinito del mondo e dell’uomo, allora il Dio infinito non perde nulla se l’uomo vince nella sua finitezza. Piuttosto Dio vince quando vince l’uomo. (Hans Küng, Ciò che credo, Rizzoli 2010, pp. 202-205)

    3. Un Nome vale l’altro?

    Riprendiamo gli spunti offerti dall’articolo in questione, soprattutto le due canzoni di Umberto Tozzi e Jovanotti, da cui è possibile partire per approfondire il dato e le ragioni di esso. Su di queste i giovani possono dare libero spazio ai loro convincimenti, dubbi, perplessità, timori, ed esprimere magari le ragioni che portano a pensare un dato scontato o possibilmente accettabile (o meno rischiosa) la «tolleranza» o una specie di rassegnazione di pensiero. Non riportiamo il testo delle canzoni, peraltro abbondantemente citate nel corso dell’articolo, e che può essere facilmente rintracciato in Internet.
    * Gli altri siamo noi (Umberto Tozzi (1991)
    * Questa è la mia casa (Jovanotti, Album: L’albero, 1997)

    4.Il nome di Dio, un inganno?

    Riportiamo per intero, per la sua importanza e bellezza, il brano dell’apologo citato nell’articolo, a cui rimandiamo per tutte le puntuali riflessioni critiche. I giovani tengano presenti le ragioni di sospetto per il pericolo rappresentato dalle religioni per la convivenza civile: la loro natura di differenze accidentali, i condizionamenti storici e socio-culturali, i conflitti e violenze che le differenze religiose producono. E si confrontino con le risposte (molto persuasive, in verità) offerte da Zini.

    NATHAN il Saggio (1779)

    G. E. Lessing

    Al ritorno da un viaggio d’affari il mercante ebreo Nathan, che il popolo chiama il saggio, scopre che un templare ha salvato dall’incendio della sua casa la figlia adottiva Recha. Il templare è a Gerusalemme poiché catturato dal Saladino e da questi graziato in punto di morte, per una somiglianza riscontrata con il proprio fratello morto. Il templare chiede la mano della ragazza dopo lunghi indugi e dopo una discussione con Nathan: a farlo indugiare era la differenza di religione tra un cristiano ed un’ebrea. Conosciuto il nome del templare, però, Nathan si insospettisce e scopre che il giovane è fratello di Recha e figlio di Assad, a sua volta fratello del Saladino e vissuto fino alla morte in Germania. I due, infine, si ritrovano con lo zio Saladino e dimenticano il profondo abisso scavato tra loro dalle differenze di religione. All’idea di tolleranza religiosa e convivenza è legata anche la più bella scena della commedia, cioè la settima del terzo atto, che potremmo definire «la parabola di Nathan», in cui il mercante risponde a Saladino su quale sia la più vera delle religioni, senza giungere ad una conclusione diversa dalla grandezza di tutte e tre.

    A Gerusalemme, durante le Crociate, il SALADINO (che è musulmano) chiede a NATHAN (ebreo) quale sia la vera fede: l’Islam, l’Ebraismo o il Cristianesimo. NATHAN risponde raccontandogli la storia dei tre anelli.

    NATHAN Molti anni or sono un uomo in Oriente possedeva un anello inestimabile, un caro dono. La sua pietra, un opale dai cento bei riflessi colorati, ha un potere segreto: rende grato a Dio e agli uomini chiunque la porti con fiducia. Può stupire se non lo toglieva mai dal dito, e se dispose in modo che restasse per sempre in casa sua? Egli lasciò l’anello al suo figlio più amato; e lasciò scritto che a sua volta quel figlio lo lasciasse al suo figlio più amato; e che ogni volta il più amato dei figli diventasse, senza tenere conto della nascita ma soltanto per forza dell’anello, il capo e il signore del casato. – Tu mi segui, sultano?

    SALADINO Ti seguo. Vai avanti.

    NATHAN E l’anello così, di figlio in figlio, giunse alla fine a un padre di tre figli. Tutti e tre gli ubbidivano ugualmente ed egli, non poteva farne a meno, li amava tutti nello stesso modo. Solo di tanto in tanto l’uno o l’altro gli sembrava il più degno dell’anello – Quando era con lui solo, e nessun altro, divideva l’affetto del suo cuore. Così, con affettuosa debolezza egli promise l’anello a tutti e tre. Andò avanti così finché poté. Ma, vicino alla morte, quel buon padre si trova in imbarazzo. Offendere così due figli, fiduciosi nella sua parola, lo rattrista. Che cosa deve fare? Egli chiama in segreto un gioielliere, e gli ordina due anelli in tutto uguali al suo; e con lui si raccomanda che non risparmi né soldi né fatica perché siano perfettamente uguali. L’artista ci riesce. Quando glieli porta, nemmeno il padre è in grado di distinguere l’anello vero. Felice, chiama i figli uno per uno, impartisce a tutti e tre la sua benedizione, a tutti e tre dona l’anello, e muore. – Tu mi ascolti, sultano?

    SALADINO (il quale, colpito, aveva girato il viso) Ascolto, ascolto. Ma finisci presto la tua favola. Ci sei? NATHAN Ho già finito. Quel che segue si capisce da sé. Morto il padre, ogni figlio si fa avanti Con il suo anello, ogni figlio vuol essere il signore del casato. Si litiga, si indaga, si accusa. Invano. Impossibile provare quale sia l’anello vero (dopo una pausa, durante la quale egli attende la risposta del sultano) quasi come per noi provare quale sia la vera fede.

    SALADINO Come? Questa è la tua risposta alla mia domanda?…

    NATHAN Valga soltanto a scusarmi, se non oso cercare di distinguere gli anelli che il padre fece fare appunto al fine che fosse impossibile distinguerli.

    SALADINO Gli anelli! Non burlarti di me! Le religioni che ti ho nominato si possono distinguere persino nelle vesti, nei cibi, nelle bevande!

    NATHAN E tuttavia non nei fondamenti. Non si fondano tutte sulla storia, scritta o tramandata? E la storia solo per fede e per fedeltà dev’essere accettata, non è vero? E di quale fede e fedeltà dubiteremo meno che di ogni altra? Quella dei nostri avi, sangue del nostro sangue, quella di coloro che dall’infanzia ci diedero prova del loro amore, e che mai ci ingannarono, se l’inganno per noi non era salutare? Posso io credere ai miei padri Meno che tu ai tuoi? O viceversa? Posso forse pretendere che tu, per non contraddire i miei padri, accusi i tuoi di menzogna? O viceversa? E la stessa cosa vale per i cristiani, non è vero? SALADINO (Per il Dio vivente! Hai ragione. Io devo ammutolire).

    NATHAN Ma torniamo ai nostri anelli. Come dicevo, i figli si accusarono in giudizio. E ciascuno giurò al giudice di avere ricevuto l’anello dalla mano del padre (ed era vero), e molto tempo prima la promessa dei privilegi concessi dall’anello (ed era vero anche questo). Il padre, ognuno se ne diceva certo, non poteva averlo ingannato; prima di sospettare questo, diceva, di un padre tanto buono, non poteva che accusare dell’inganno i suoi fratelli, di cui pure era sempre stato pronto a pensare tutto il bene; e si diceva sicuro di scoprire i traditori e pronto a vendicarsi.

    SALADINO E il giudice? – Sono ansioso di ascoltare che cosa farai dire al giudice. Parla!

    NATHAN Il giudice disse: Portate subito qui vostro padre, o vi scaccerò dal mio cospetto. Pensate che stia qui a risolvere enigmi? O volete restare finché l’anello vero parlerà? Ma… aspettate! Voi dite che l’anello vero ha il magico potere di rendere amati, grati a Dio e agli uomini. Sia questo a decidere! Gli anelli falsi non potranno. Su, ditemi: chi di voi è il più amato dagli altri due? Avanti! Voi tacete? L’effetto degli anelli è solo riflessivo, non transitivo? Ciascuno di voi ama solo se stesso? Allora tutti e tre siete truffatori truffati! I vostri anelli sono falsi tutti e tre. Probabilmente l’anello vero si perse, e vostro padre ne fece fare tre per celarne la perdita e per sostituirlo.

    SALADINO Magnifico! Magnifico!

    NATHAN Se non volete, proseguì il giudice, il mio consiglio e non una sentenza, andatevene! Ma il mio consiglio è questo: accettate le cose come stanno. Ognuno ebbe l’anello da suo padre: ognuno sia sicuro che esso è autentico. Vostro padre, forse, non era più disposto a tollerare ancora in casa sua la tirannia di un solo anello. E certo vi amò ugualmente tutti e tre. Non volle, infatti, umiliare due di voi per favorirne uno. Orsù! Sforzatevi di imitare il suo amore incorruttibile e senza pregiudizi. Ognuno faccia a gara per dimostrare alla luce del giorno la virtù della pietra nel suo anello. E aiuti la sua virtù con la dolcezza, con indomita pazienza e carità, e con profonda devozione a Dio. Quando le virtù degli anelli appariranno nei nipoti, e nei nipoti dei nipoti, io li invito a tornare in tribunale, fra mille e mille anni. Sul mio seggio siederà un uomo più saggio di me; e parlerà. Andate! Così disse quel giudice modesto.

    5. Il Dio delle persone e della storia

    Come non ricordare il famoso passaggio di Pascal circa il nome di Dio, il Dio dei nomi, delle persone, dei volti?

    «Fuoco. Dio di Abramo Dio di Isacco Dio di Giacobbe non dei filosofi e dei dotti. Certezza. Certezza. Sentimento Gioia Pace Dio di Gesù Cristo Deum meum et Deum vestrum. Il tuo Dio sarà il mio Dio. Oblio del mondo e di tutto, tranne Dio. Egli non si trova se non nelle vie indicate nel Vangelo. Grandezza dell’anima umana. Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto. Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia. Me ne sono separato» (Memoriale della «Nuit de feu», 23 novembre 1654)

    Aprirebbe però un ulteriore interessante dibattito la dichiarazione di Paul Tillich: «Contro Pascal, io dico: il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe e il Dio dei filosofi è lo stesso Dio». En passant, non c’è parte di verità in questa dichiarazione? Offriamo una serie di citazioni (di Hans Küng) e un brano di Pietro Stefani su cui è possibile allestire domande e anche ricerche.

    Il Dio dei filosofi, un Dio senza nome

    Il Dio dei filosofi è senza nome. Ci si può già chiedere perciò se nella storia della filosofia sotto il nome di Dio non si sia pensato a qualcosa di sempre diverso. La risposta dovrà essere: certamente non qualcosa di diverso, ma neppure semplicemente la stessa cosa, bensì qualcosa di affine. Come afferma il filosofo Wilhelm Weischedel a conclusione della sua inchiesta storica: «Il Divino dei primi pensatori greci, con la sua presenza diretta nel mondo, non si identifica con il Dio creatore della teologia filosofica d’ispirazione cristiana. Il Dio in quanto fine ultimo di ogni movimento della realtà, così come lo concepisce Aristotele, si distingue dal Dio di Kant che garantisce la legge morale e la felicità. Il Dio di Tommaso d’Aquino o di Hegel, che può essere raggiunto con la ragione, è diverso dal Dio di Dionigi Areopagita o di Niccolò Cusano, che si ritira nell’ineffabile. Neppure il Dio puramente morale, combattuto da Nietzsche, si identifica con l’Essere supremo, sostegno della realtà, quale è per Heidegger il Dio della metafisica. Eppure sotto il nome di «Dio» si è sempre pensato a qualcosa di affine: ciò che determina ogni realtà come principio dominante o superiore». La stessa storia della filosofia ha bisogno di una spiegazione. Essa però rende anche dubbiosi circa la sua effettiva capacità di offrire una spiegazione. Secondo gli Atti degli apostoli i greci veneravano un Theós gnostos, un Dio sconosciuto. Che appartenga alla natura del Dio dei filosofi di rimanere, in fondo, sconosciuto e di essere senza nome? Non si potrà certo eludere una simile domanda. È comunque evidente la differenza tra questo Dio e il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe: Nel suo complesso il concetto di Dio elaborato dai filosofi è astratto e indeterminato. Il Dio dei filosofi rimane privo di nome. Egli non si rivela. La fede biblica in Dio è concreta e determinata. Il Dio di Israele porta un nome ed esige una decisione. Egli si rivela nella storia per quello che è: come colui che sarà guidando, aiutando, fortificando. (Hans Küng, Dio esiste? pp. 693-694)

    Un Dio liberatore

    Fra le stranezze della storia vi sono anche i Chàzari, antico popolo che, nel VII secolo d.C., fondò un fiorente impero nella Russia meridionale. Cento anni dopo le sue classi dirigenti si convertirono all’ebraismo. In seguito i Chàzari furono sconfitti dai Russi, relegati in Crimea e infine dispersi dai Tartari. A questa vicenda si ispira un importante libro medievale ebraico, il Kuzarì di Yehudah ha-Lewi. La storia è questa: attraverso un sogno Dio rivela al re di quella popolazione che gli sono gradite le sue opere, non però la sua fede. Il sovrano, turbato, convoca a corte un filosofo, un cristiano e un musulmano per apprendere da loro quale fosse la vera religione. In un primo momento non ritiene però opportuno invitare un ebreo: come può essere la loro la religione giusta visto che vivono dispersi e umiliati ai quattro angoli del mondo? Tuttavia, dopo aver preso atto che nei discorsi del cristiano e del musulmano ci si richiamava sempre ad Abramo, a Mosè e ad altri personaggi biblici, il re comprese la necessità di prestar ascolto alla voce ebraica. Ne restò convinto e si convertì. Il saggio ebreo nelle sue prime battute rispose soprattutto alla domanda ‘Chi è il vostro Dio?’. Il dotto presentò al re dei Chàzari il suo Dio come colui che aveva liberato il suo popolo. Il re restò perplesso. Il saggio allora aggiunse: In questo stesso modo ti ho risposto quando mi hai domandato; e così cominciò Mosè a parlare con il Faraone, quando gli disse: «Il Dio degli Ebrei mi inviò a te» [Esodo 7,16], e cioè il Dio dí Abramo, di Isacco e di Giacobbe; perché la loro storia era nota tra le nazioni, e cioè che la parola di Dio era stata loro comunicata, e li aveva governati e aveva fatto i miracoli e non dice: «Il Dio creatore del cielo e della terra mi inviò a te» né «Il mio Creatore e il tuo Creatore», e così Dio stesso cominciò le sue parole al popolo d’Israele [parlando sul Sinai]: «Io il Signore tuo Dío che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto» [Esodo 20,2] e non disse «Io sono il Creatore del mondo e il vostro Creatore»; e nello stesso modo ho cominciato, quando mi hai interrogato sulla mia fede: ti ho risposto con ciò che sono obbligato a credere, ed è obbligata a credere tutta la comunità d’Israele, davanti ai cui occhi si manifestò quello spettacolo (Yehudah ha-Lewi, Il re dei Khàzari, Boringhieri, Torino 1960, pp. 30-31). Qui il Dio dei filosofi ha poco spazio. Senza dubbio il Dio in cui credono gli ebrei è anche il creatore del cielo e della terra; tuttavia la maniera da lui scelta per rivelarsi agli Ebrei esige un legame più particolare. Egli chiede qualcosa perché prima ha agito in loro favore. Ne dà la sicurezza la parola rivelata dal Signore e trasmessa di generazione in generazione. Non bisogna dimenticare che l’autopresentazione del Signore come colui che ha fatto uscire il suo popolo dalla terra d’Egitto introduce i dieci comandamenti. Il Signore chiede dunque di eseguire la sua volontà. Un racconto avanza un paragone: un re, dopo aver conquistato un territorio e liberato il popolo che vi era schiavo, chiese a quest’ultimo se lo volesse come sovrano. La risposta fu affermativa. Allora il re aggiunse: ‘Avete accettato la mia sovranità? Adesso attenetevi anche alle mie leggi’. Così è avvenuto al Sinai. Dio si è presentato, e il popolo ha accolto sia Lui sia i suoi comandamenti. (Pietro Stefani, Le religioni secondo Andrea, pp. 53-54)

    L’unico Dio con un nome

    La primitiva professione di fede di Israele è in un Dio «che ha tratto fuori Israele dall’Egitto», e questa professione di fede diverrà più tardi il fondamento delle stesse tribù sedentarizzate a Canann. La religione israelitica è originariamente una religione dell’esodo, dell’uscita, delle attenzioni di Dio, della salvezza e della liberazione. Questa liberazione avvenne ad opera dell’unico Dio, il quale però non era innominato, ma aveva rivelato il proprio nome. Nel libro dell’Esodo così leggiamo nel contesto (probabilmente tardivo) del racconto della vocazione di Mosé sul Sinai: «Jahvé» è il suo nome! Jahvé (abbreviazione «Jah»): scritto in ebraico soltanto con quattro consonanti, con il tetragramma JHWH. Soltanto in epoca molto posteriore, non volendo più pronunciare per rispetto il nome di Jahvé (a partire dal sec. III), si aggiunsero alle quattro consonanti le vocali del nome divino «Adonai» («Signore»), dando così motivo ai teologi medievali (e agli odierni «Testimoni di Geova») di leggere «Jehova» invece che Jahvé. Ma qual è il significato del nome Jahvé? In tutto l’Antico Testamento, nel quale il nome ricorre più di seimilaottocento volte, si trova soltanto l’enigmatica risposta ricevuta da Mosé sul Sinai, davanti al roveto ardente: «’ehjeh asˇer ‘ehjeh». Come tradurre questa dichiarazione, sulla quale è stata scritta tutta una piccola biblioteca? Per lungo tempo ci si è attenuti alla traduzione greca dell’Antico Testamento (detta dei Settanta, in quanto opera, secondo la leggenda, di settanta traduttori): «Io sono colui che sono». Una traduzione che conserva ancora il suo valore. Il verbo «hajah» infatti – sia pure in rarissimi casi – significa anche «essere». Perlopiù però il suo significato va cercato tra «essere presente, aver luogo, manifestarsi, accadere, divenire». Siccome inoltre in ebraico si ha la stessa forma per il presente e il futuro, si può tradurre tanto «Io sono presente quando sono presente» quanto «Io sono presente quando sarò presente» oppure – secondo il grande traduttore ebreo dell’Antico Testamento Martin Buber – «Io sarò presente quando sarò presente». Qual è il significato di questo nome enigmatico? Non si tratta di una dichiarazione sull’essenza di Dio, come ritenevano i Padri della Chiesa, gli scolastici medievali e moderni: nessuna rivelazione dell’entità metafisica di Dio, da intendersi nel senso greco di un essere statico («ipsum esse»), nel quale, secondo la concezione tomista, l’essenza e l’esistenza coinciderebbero. Si tratta piuttosto di una dichiarazione sulla volontà di Dio, secondo l’interpretazione oggi fornita dai principali esegeti dell’Antico Testamento: vi si esprime la presenza di Dio, la sua esistenza dinamica, il suo essere presente, reale, operante, il suo infondere sicurezza, il tutto in una formulazione che non permette oggettivazioni, cristallizzazioni e fissazioni di sorta. Il nome «Jahvé» quindi significa: «Io sarò presente!» – guidando, aiutando, rafforzando, liberando. Come poi ciò debba essere inteso concretamente ce lo dice la parola di Jahvé annunciata al popolo sul Sinai: «Io sono Jahvé. Vi farò uscire dall’oppressione degli egiziani e vi salverò dalla loro schiavitù, vi libererò con braccio teso e grandi punizioni. Vi assumerò come mio popolo e sarò il vostro Dio. Allora saprete che io sono Jahvé vostro Dio, colui che vi fa uscire dall’oppressione degli Egiziani». Ora perciò il Dio dei padri, che non portava alcun nome, ha rivelato il proprio nome. E forse nessun esegeta ha descritto il suo significato anche per la nostra società postmarxista e postfreudiana meglio del filosofo ebreo Ernst Bloch: «Il Dio dell’esodo è diverso ed ha conservato anche nei profeti la sua ostilità contro l’oppio e i padroni. Egli soprattutto non è statico come tutti gli dei pagani che l’hanno preceduto. A Mosé Jahvé ha dato, fin dall’inizio, una propria definizione che continua a mozzare il fiato e rende priva di senso ogni statica: «Dio disse a Mosé: «Io sarò quello che sarò»» (Es 3,14)... Per rendersi conto della peculiarità di questo passo lo si confronti con un’altra interpretazione, con il posteriore commentario di un altro nome divino, del nome di Apollo. Plutarco riferisce (De EI apud Delphos, Moralia III) che sopra la porta del tempio di Apollo a Delfi era inciso il segno El; dopo aver tentato di dare un’interpretazione mistico-numerica delle due lettere, egli giunge a concludere che El significherebbe, grammaticalmente e metafisicamente, la stessa cosa, e cioè: «Tu sei», nel senso dell’esistenza atemporale e immutabile del Dio. ‘Ehjeh asˇer ‘ehjeh invece ci presenta fin dalla prima apparizione di Jahvé un Dio della fine dei giorni, che ha nel futuro la propria qualità ontologica. Questo Dio-Fine e Omega sarebbe stato una stoltezza a Delfi, come in ogni religione il cui Dio non sia un Dio dell’esodo». (Hans Küng, Dio esiste?, pp. 691-692)

    6. Il nome del Dio di Gesù e dei seguaci di Gesù

    Non possiamo approfondire questa parte, anche perché la parte conclusiva dell’intero percorso sarà appunto su Gesù come volto, nome umano, rivelazione, testimone del Padre. Ma la ricerca che da qui si dipana è immensa e feconda, ovviamente lasciata alla capacità dell’animatore e all’interesse dei giovani. Qui ricordiamo solo alcuni titoli, di libri e di temi, per indicare possibili piste di lavoro.

    – CEI, Lettera ai cercatori di Dio (tutta la seconda parte «La speranza che è in noi» e che è come il compimento, la rivelazione di quel Dio che cerchiamo)

    – Juan Arías, Il Dio in cui non credo, Cittadella 2003 (15a edizione!)

    Ecco una serie di temi indicati da H. Küng (Dio esiste? pp. 743-783):
    – Dio in quanto Padre
    * Il Dio di Gesù manca di qualsiasi tratto arbitrario, demoniaco. Dio è inequivocabilmente buono, non è mai demonicamente cattivo, egli ama gli uomini, non è mai indifferente.

    * La designazione di Dio come padre viene fraintesa se, invece che simbolicamente (analogicamente), la si concepisce come opposizione alla «madre»: il «padre» è un simbolo patriarcale – con tratti anche matriarcali – di una realtà primissima-ultimissima trans-umana, trans-sessuale.
    * Gesù indica esplicitamente Dio come il padre del «figlio perduto», anzi come il padre dei perduti.
    * Il Dio vero di Gesù è il Dio di Israele, inteso in modo nuovo.
    – Dio mediante Gesù Cristo Sottolineiamo il tema dello «specifico cristiano nel Dio cristiano»:

    * Rispetto alla fede in Dio veterotestamentaria, certamente concreta, determinata e coerente, ma in ultima analisi ancora ambigua, quella neotestamentaria è concreta, determinata, coerente e insieme univoca e addirittura personalizzata in una figura umana. Il Dio del Nuovo Testamento ha un nome e un volto: Egli è il Dio di Israele, che è insieme il padre di Gesù Cristo. Il Dio del Nuovo Testamento non si rivela soltanto nella storia del popolo, ma anche in una singola figura umana, nella quale ha preso carne il Figlio, la Volontà, l’Amore di Dio.
    * Lo specifico cristiano nel Dio cristiano è questo Cristo stesso, attraverso il quale i credenti conoscono questo Dio, l’unico Dio dei padri, e questo Dio si rivela per i credenti.
    * Lo specifico cristiano in questo Dio è più esattamente il Cristo, che si identifica con il reale, storico Gesù di Nazareth: concretamente quindi questo Cristo Gesù.
    * Lo specifico cristiano in questo Dio – e quindi il distintivo estremo del cristianesimo in generale – è letteralmente, secondo Paolo, «Gesù Cristo, e Gesù Cristo crocifisso».
    – Dio nello Spirito.

    7. È possibile la verità «religiosa»?

    E quale la strada percorribile? Attingiamo ancora abbondantemente da Küng

    Di fronte alla «varietà delle esperienze religiose» (W. James), all’enorme spettro della religione e della religiosità, ci si vedrebbe costretti a chiedersi: non è tutto relativo anche nel campo della religione? Le religioni non sono tutte ugualmente vere? Con le loro esperienze religiose non possiedono tutte almeno una parte di verità? Tutto ugualmente vero? Nella sua opera Religioni orientali e pensiero occidentale, Sarvepalli Radhakrishnan, primo presidente dell’India, inserisce un breve racconto, che potrebbe essere caratteristico non soltanto del buddhismo e dell’induismo, ma anche di altri asiatici non educati cristianamente: «C’era una volta» così racconta Buddha «un re di Benares il quale, per suo divertimento, riunì alcuni mendicanti ciechi dalla nascita e propose loro un premio per colui che gli avesse data la migliore descrizione di un elefante. Nella sua esplorazione dell’elefante, il primo mendicante ne toccò per caso le gambe, cosicché riferì che l’elefante sarebbe un tronco d’albero. Il secondo invece ne toccò la coda e dichiarò che l’elefante sarebbe una fune. Un altro che aveva toccato un orecchio affermò che l’elefante assomiglierebbe a una foglia di palma, e così via. Intanto tra i mendicanti si era avviata un’accesa discussione, che divertiva moltissimo il re. I maestri ordinari, che hanno colto l’uno o l’altro aspetto, litigano tra loro, mentre soltanto un buddha conosce il tutto. Nelle discussioni teologiche noi siamo tutt’al più dei mendicanti ciechi, che litigano tra loro. La visione complessiva è difficile, e i buddha sono rari. La sentenza di Asoka riflette bene l’idea buddhista: «Chi onora la propria comunità religiosa e disprezza, proprio per amore della propria, la comunità degli altri, con l’intenzione di esaltare lo splendore della prima, in realtà non fa che arrecarle il più grave dei danni». Quest’ultima affermazione non può non essere condivisa. Nondimeno si dovrebbe tranquillamente replicare:, e se un cieco prende un tronco d’albero per un elefante? Questo tipo di tolleranza è ora comune a molte persone sia all’est che all’ovest, e deve come tale essere preso sul serio. Molti europei e americani non avrebbero difficoltà a sottoscrivere in qualche modo l’affermazione di Gandhi: «Credo alla Bibbia come credo alla Gita. Considero tutte le grandi professioni di fede del mondo altrettanto vere della mia. Provo dolore ogniqualvolta vedo che una di esse viene sfigurata, cosa che oggi succede di fatto ad opera degli stessi aderenti a quella religione». Perciò calma: Devono i cristiani deplorare anche qui il relativismo e l’indifferentismo? Si può proprio negare a cuor leggero che in queste affermazioni si esprima molta dell’apertura e della profondità, della generosità e dell’umanitarismo, che rappresenta il nemico capitale di tutti i numerosi pregiudizi, fraintendimenti e conflitti religiosi, anzi delle stesse terribili guerre di religione che hanno dilaniato la cristianità – un argomento addotto continuamente in Asia contro i cristiani? Dietro a tali affermazioni non può celarsi un’idea di Dio più grande, più sublime e più pia di quella di coloro che vorrebbero che Dio fosse soltanto il Dio di un partito, di un partito religioso? Ciononostante e con tutto il rispetto per l’induismo riformista, generosamente tollerante, di Sarvepalli Radhakrishnan, si dovrà dire che non tutto è in fondo un’unica cosa, e neppure semplicemente uguale. Si ammirerà certamente l’illimitata apertura e assimilazione di idee estranee, l’aspirazione all’infinità e la capacità di sviluppo proprie dell’induismo. Ma chi conosce la concreta realtà della religione indù – gli effetti funesti del culto della vacca, difeso dallo stesso Gandhi, del sistema delle caste, che nessuna legislazione è in grado di eliminare, della spaventosa superstizione e di parecchie altre cose – non può certo trovare tutto uguale, ma al contrario potrà forse rendersi conto di quanto sia grande la virtù illuminante e liberante, demitizzante e sdemonizzante, interiorizzante e umanizzante arrecata dalla fede cristiana all’umanità. A ragione Radhakrishnan e altri costatavano la presenza di un’autentica esperienza spirituale, interiore dell’Assoluto (spiritual experience), nonostante l’illimitata varietà delle religioni, delle loro rappresentazioni, delle loro forme e dei loro linguaggi. A ragione essi deducevano da ciò un consenso tacito che permette una comunicazione profonda anche tra religioni radicalmente opposte – persino tra il cristianesimo e l’induismo. Nel contempo però occorre dire che non è lecito generalizzare il consenso, livellare le differenze e assolutizzare la tanto equivoca esperienza interiore. Di fronte a questa esperienza religiosa interiore dovrebbero forse avere davvero lo stesso valore tutte le possibili enunciazioni religiose, tutte le rivelazioni e professioni di fede, tutte le autorità e chiese, riti e manifestazioni?... Ma gli dei sono tutti uguali? Anzi, si possono anche solo integrare semplicemente come parti nella totalità della verità le singole grandi figure della storia delle religioni, le «personalità decisive» – Buddha, Confucio, Socrate, Gesù? A ragione Karl Jaspers afferma: «Essi hanno le loro irriducibili differenze, sicché non si possono comporre nella figura di un unico uomo che possa percorrere tutte le loro vie». Soltanto un’ignoranza ingenua dei fatti potrebbe permettere di trascurare o livellare la peculiarità di ognuno di loro. Non si renderebbe giustizia a nessuna di queste «personalità decisive» se la si considerasse soltanto come il prendere forma di un’esperienza religiosa universale, come la cifra di una religione per tutti, come l’etichetta di un sincretismo antico o moderno… Il livellare, l’astrarre e il generalizzare inoltre non fanno progredire per nulla il pensiero teologico; il livellamento delle differenze in un’associazione di tutte le religioni (oggi forse progetto di alcuni eclettici cerebrali) ha finora lasciato del tutto insensibili le diverse religioni. No, non possiamo né dobbiamo risparmiarci il confronto umile e spassionato: non soltanto tra le religioni dell’Occidente, ma neppure tra quelle dell’Oriente può venire accantonato o minimizzato il problema della verità. Ora il fatto psicologico o storico è sufficiente come criterio di verità? Chi ritiene che la storia o la psicologia religiosa possa avere l’ultima parola nel problema della verità religiosa corre il rischio di sopravvalutare le possibilità di queste due scienze. Sia in Occidente che in Oriente la religione promette il superamento dei limiti della soggettività umana e della relatività della storia e vuole introdurci nella realtà vera – di Dio o del «Nulla assoluto». In tal modo essa pretende di offrire la verità, e precisamente non soltanto una verità psicologico-soggettiva o astrattamente concettuale, ma la verità oggettiva, anzi assoluta, vale a dire la verità prima e ultima. Nella religione quindi si ha a che fare con la verità (pp. 675-678).

    Circa il problema della verità, e ai criteri del suo accesso e della sua conoscenza, rimandiamo al testo di Zini. Citiamo solo alcune conclusioni di Küng, che possono fungere da base per la discussione..

    Riassumendo possiamo dire che:

    • Il pragmatismo e l’intellettualismo vedono entrambi soltanto un lato della realtà religiosa: l’esperienza e la riflessione vanno insieme.

    • Senza l’esperienza religiosa la riflessione religiosa è vuota: la riflessione vive dell’esperienza.

    • Senza la riflessione religiosa l’esperienza religiosa è cieca: l’esperienza ha bisogno della riflessione che illumina e giustifica in forma critica. È proprio il problema, apparentemente soltanto «metafisico», della natura di Dio, quale viene discusso sia in Oriente che in Occidente, è proprio il problema della natura personale o non personale di Dio a decidere quale atteggiamento pratico sia possibile nei suoi confronti: se – per ricordare Heidegger – gli si debbano offrire preghiere e sacrifici, se davanti a lui si debba cadere in ginocchio presi da timore, oppure fare musica e danzare (p. 681).

    Intanto un buon motivo di discussione può essere la seguente problematica citazione di Leubam citato da W. James: «Dio non lo si conosce né lo si comprende, bensì lo si usa – come colui che provvede o come sostegno morale, come amico o come oggetto di amore. Se si rivela utile, la coscienza religiosa non si pone altre domande. Esiste davvero Dio? – come esiste? – che cos’è? diventano allora domande senza importanza. Non Dio, ma la vita, un supplemento di vita, una vita più ampia, più ricca e soddisfacente, è in ultima analisi il fine di ogni religione. L’amore della vita rappresenta, a tutti i livelli del suo sviluppo, l’impulso fondamentale proprio della religione». È davvero così?

    8. Un possibile incontro tra le religioni?

    Anche su questo punto, essenziale per il dialogo tra le religioni oggi (se la religione può diventare un terreno non tanto di proselitismo o diatribe teologiche quanto almeno di impegno – nel nome di Dio – per «il Regno di Dio», il dono di una umanità nuova), offriamo alla discussione e critica dei giovani alcune «tesi» di Hans Küng, tratte da «Dio esiste?» (pp. 660-670) e che segnano anche una possibile via per una ricerca della verità religiosa e di un modo corretto di far emergere la verità di Dio e il senso di tale verità per l’uomo di oggi, senza irenismi, senza prevaricazioni.

    1. Non l’arrogante dominio di un Dio, che con mentalità missionaria, esclusiva, disprezzi la libertà. Infatti un particolarismo ottuso, tronfio, esclusivo, che nel nome dell’unico Dio accomuni in una condanna globale tutte le altre religioni, un proselitismo impegnato in una concorrenza sleale, svaluta non soltanto le altre religioni, ma anche il Vangelo.

    2. Non una sincretistica mescolanza di tutti gli Dei tra loro inconciliabilmente divergenti, che armonizzando e riducendo soffochi la verità. Infatti un indifferentismo agnostico-relativistico dall’azione paralizzante, disgregante, che approvi e convalidi indiscriminatamente le altre religioni e i loro dei, può apparire a prima vista liberatorio e rasserenante, ma risulta poi insoddisfacente nella sua livellante uniformità, da cui rimangono completamente esclusi criteri e norme stabili.

    3. Piuttosto un annuncio autonomo e disinteressato dell’unico vero Dio per tutti gli uomini che vivono nelle diverse religioni, propiziato da un’apertura che sia ben più di un accondiscendente accomodamento: un’apertura che non rinneghi le proprie convinzioni di fede, ma neppure imponga determinate risposte; che dalla critica esterna tragga spunto per un’autocritica, appropriandosi nel contempo di ogni elemento positivo; che non distrugga nulla di ciò che c’è di valido nelle religioni, ma neppure assimili acriticamente qualcosa che sia destituito di valore. Il cristianesimo con il suo Dio deve svolgere il proprio servizio tra le religioni del mondo operando una sintesi dialettica di riconoscimento e rifiuto: come catalizzatore critico e punto di cristallizzazione dei loro valori religiosi, morali, intellettuali, ascetici, estetici.

    4. Dio non può essere colto dal concetto, pienamente enunciato dall’enunciazione, definito dalla definizione: egli è l’incomprensibile, l’ineffabile, l’indefinibile. Neppure il concetto di essere è in grado di dominarlo; neppure alla luce dell’essere si può pienamente svelare la sua natura: egli non è niente di ciò che esiste; non è un ente, trascende infatti tutti gli esseri. Con ciò il pensiero umano ha a che fare con un campo in cui le enunciazioni positive («Dio è buono») si rivelano insufficienti e, per essere vere, hanno continuamente bisogno della negazione («non buono» alla maniera umano-finita), che permette di estenderle all’infinito («Dio è la bontà per eccellenza»).

    5. Dio supera tutti i concetti, tutte le enunciazioni e definizioni; tuttavia non è separato dal mondo e dall’uomo, né è al di fuori di tutto ciò che esiste; immanente al mondo e all’uomo, egli ne determina l’essere dall’interno. Occorre quindi pensarlo alla luce della differenza ontologica tra l’essere e l’ente: Dio esiste, ma non è un ente, egli è invece il mistero nascosto dell’essere: l’essere-stesso in quanto fondamento e fine di ogni ente e di ogni essere, è infatti immanente a tutto. In tal modo il pensiero umano ha a che fare con un campo in cui proprio le enunciazioni negative («Dio non è finito») possono esprimere qualcosa di eminentemente positivo («Dio è infinito»). 6. Dio perciò supera il mondo e l’uomo e nel contempo li compenetra: infinitamente lontano eppure più vicino di quanto noi possiamo esserlo a noi stessi; non afferrabile neppure nella presenza sperimentata; presente pur nell’assenza sperimentata. È immanente al mondo, ma non si dissolve in esso; lo avvolge, ma non si identifica con esso: in Dio, quindi, trascendenza e immanenza coincidono. Ogni enunciazione su Dio deve pertanto sottostare alla dialettica di affermazione e negazione, come ogni esperienza di Dio deve sopportare l’ambivalenza di essere e non-essere. Di fronte a Dio ogni discorso scaturisce dal silenzio ascoltante e porta al silenzio parlante. L’Oriente offre forme di pensiero, stili, strutture e modelli, nei quali il cristianesimo può essere pensato e vissuto alla stessa maniera che in Occidente. Comunque, nel mondo di domani, che meno che mai sarà soltanto occidentale, il cristianesimo avrà un avvenire soltanto: – se dagli stessi paesi asiatici e africani emergerà una predicazione cristiana che, pur con tutta la vigilanza nei confronti dell’indifferentismo sincretista, sappia essere tollerante e che, pur pretendendo una validità incondizionata, sia disposta a rivedere la propria posizione dove questa si riveli bisognosa di revisione; – se quindi diverrà possibile e reale un cristianesimo veramente indiano, cinese, giapponese, indonesiano, arabo, africano; – se infine l’ecumenismo non verrà più vissuto soltanto nel senso strettamente ecclesiastico-confessionale, ma anche in quello universalmente cristiano: fondandosi cioè, non sulla conquista trionfalistica delle altre religioni, ma sulla presenza e sulla diaconia missionaria, che abilita ad un ascolto autocritico delle loro esigenze, rende solidali con le loro necessità e insieme sollecita a testimoniare in maniera vitale la propria fede con la parola e l’azione.

    Un’altra «dichiarazione» circa il dialogo tra le religioni è espresso ancora da Küng. Prova a leggerlo con attenzione (offre anche una sintesi delle diverse modalità di dire Dio e rapportarsi con Lui). È accettabile? Ti sembra «troppo poco» in riferimento alla consapevolezza della nostra fede? Ci sono altre possibili vie?

    Io non spero in un’unità delle religioni o in un sincretismo di qualche tipo. Spero in una pace ecumenica fra le religioni mondiali. Questo significa coesistenza pacifica, convergenza crescente ed esistenza creativa delle religioni, nella ricerca comune della verità sempre più grande e del mistero che si rivelerà del tutto solo in eschaton dell’unico e vero Dio. Una vuota utopia? No, è una visione realistica, che la base delle grandi religioni, dotata di un orientamento più cosmopolita degli Stati nazionali e dei loro politici, ha già cominciato a realizzare. Malgrado tutti i problemi, io non rinuncio alla speranza: una pace tra le religioni è possibile, indispensabile. Questa è la mia visione: non c’è pace tre le nazioni senza la pace religiosa, non c’è pace religiosa senza dialogo tra le religioni. Tra verità e pace non c’è necessariamente una contraddizione, come sostengono i sociologi disinformati. Ogni religione può attenersi alla propria pretesa di verità – fin tanto che rispetta la verità delle altre, è tollerante nella pratica della propria ed è pronta a ridestare e mobilitare insieme alle altre le energie morali dell’umanità. La mia visione di speranza è che: – sempre più persone realizzeranno che le tre grandi religioni profetiche – ebraismo, cristianesimo e Islam – costituiscono un primo sistema religioso di movimenti coerenti che ha una comune origine semitica nel Vicino Oriente. I fedeli di queste tre religioni professano tutti la fede nell’unico Dio di Abramo, Colui che ha creato e porta a compimento questo mondo; credono in un corso della storia orientato al futuro e a un’etica fondamentale di elementare umanità (i Dieci comandamenti); – sempre più persone, in uno spirito di riconciliazione, impareranno però a farsi arricchire anche dal secondo sistema di correnti, quello che trae origine dalla mistica indiana (induismo e buddhismo soprattutto), e dal terzo, quello dí carattere sapienziale cinese (confucianesimo, taoismo): dai loro valori spirituali, dalla loro profondità mistica, dalla loro concezione del mondo e dell’uomo, che si tramanda da secoli; – sempre più, all’opposto, le stesse tre religioni profetiche, attingendo alla loro inesauribile eredità faranno dono alle altre delle loro esperienze spirituali, lontane da ogni tipo di colonialismo religioso, da ogni presunzione trionfalistica, da ogni svalutazione o monopolizzazione spirituale. Nell’insieme, non un mondo ideale delle religioni, ma religioni che, senza rinunciare alla propria verità, vivano in pace (Ciò che credo, Rizzoli 2010, pp. 336-338).

    ATTIVITÀ

    9. Una precisa forma di Dio

    «La storia degli uomini non racconta le fortune di un indifferentismo religioso che omologa disinvoltamente pratiche diverse, senza mostrare attaccamento per una ben precisa forma di rapporto con Dio». Ampliamo tale passaggio della riflessione di Zini. La sequenza di canzoni, brani di letteratura e poesia, qui sotto riportati, e offrono uno spunto per tale approfondimento. Partiamo dalla seguente traccia, un brano di Gandhi.

    Per me, dunque, Gesù è uno dei tanti grandi maestri del mondo. Ai seguaci del suo tempo apparve senza dubbio «il solo figlio generato da Dio». Ma non è necessario che i nostri credi coincidano. Per la mia vita non è importante proprio in quanto uno dei tanti figli generati da Dio. L’aggettivo «generato» ha, per me, un significato più profondo e possente di quello letterale, ha il valore di nascita spirituale. Ai suoi tempi Egli era il più vicino a Dio. Gesù espiò i peccati di quelli che ne accettarono gli insegnamenti proponendosi loro come esempio infallibile. Ma fu un esempio del tutto inutile per quanti non si curarono minimamente di cambiare vita. Un rigenerato perde la macchia originale proprio come l’oro purificato si separa dalla lega cui apparteneva. Ho fatto la più franca ammissione dei miei molti peccati, di cui non porto, tuttavia, il peso sulle spalle. Se vado verso Dio, come sento di stare facendo, tanto mi basta. Perché avverto il calore del sole della Sua presenza. So bene che le mie penitenze, i miei digiuni e le mie preghiere non hanno alcuna capacità di riformarmi. Ma hanno un valore inestimabile se rappresentano, come spero che facciano, gli aneliti di un’anima desiderosa di posare la propria stanca testa in grembo al suo Fattore. La Gita, per me, è diventata la chiave delle scritture del mondo, con cui scioglierne i misteri più profondi. Guardo alle altre scritture con la stessa reverenza con cui mi rapporto alle scritture induiste. Quelle di induisti, mussulmani, cristiani, parsi, ebrei sono solo etichette di comodo. Basta staccarle, e non si sa più distinguere gli uni dagli altri. Siamo tutti figli dello stesso Dio. Tutti i grandi maestri del mondo hanno sempre affermato, benché con parole diverse: «In verità, in verità vi dico, non tutti quelli che mormorano ‘Signore, Signore’ entreranno nel regno dei cieli, ma chi eseguirà il volere del Padre mio, che è nei cieli, quegli entrerà nel Regno». (M.K. Gandhi, da Buddismo, Cristianesimo, Islamismo. Le mie considerazioni, Tascabili Economici Newton, 1993.)

    • Il brano di Gandhi sembra affermare la fortuna dell’indifferentismo religioso: tu che ne pensi?
    • È possibile, secondo te, omologare tutte le religioni in un’unica grande miscela, che possiamo definire «spiritualità»? Perché?

    Due giorni dopo l’uomo cercò il ragazzo per parlargli della vetrina. «Non mi piacciono i cambiamenti» disse il mercante. «Né tu né io siamo come Hassan, il ricco commerciante: se lui fa un acquisto sbagliato quasi non ne risente. Ma noi due dobbiamo convivere sempre con i nostri errori». «È vero», pensò il ragazzo. «Perché vuoi mettere la vetrina?» gli domandò il mercante. «Voglio tornare al più presto dalle mie pecore. Quando la fortuna sta dalla nostra parte, dobbiamo approfittarne e fare tutto per aiutarla, proprio come lei aiuta noi. Si chiama Principio Favorevole. Oppure ‘fortuna del principiante’». Il vecchio rimase in silenzio per un po’ di tempo. Poi disse: «Il Profeta ci ha dato il Corano e ci ha indicato soltanto cinque precetti da osservare nel corso della nostra esistenza. Il più importante è questo: esiste un solo Dio. Gli altri sono: pregare cinque volte al giorno, rispettare il digiuno nel mese del Ramadan, fare la carità ai poveri». A quel punto si interruppe. Gli occhi gli si erano riempiti di lacrime mentre parlava del Profeta. Era un uomo devoto e, pur con tutta la sua impazienza, cercava di vivere nel rispetto della legge mussulmana. «E qual è il quinto precetto?» domandò il ragazzo. «Due giorni fa hai detto che io non ho mai sognato di viaggiare», rispose il mercante. «Il quinto dovere di ogni mussulmano è un viaggio: per lo meno una volta nella vita, dobbiamo recarci alla Mecca, la sacra. La Mecca è assai più lontana delle Piramidi. Quando ero giovane, preferii radunare quel poco denaro che possedevo per aprire questo negozio. Pensavo che un giorno sarei diventato ricco e sarei andato alla Mecca. Poi cominciai a guadagnare, ma non potevo lasciare nessuno a badare alle merci, perché i cristalli sono oggetti delicati. Intanto vedevo passare davanti al mio negozio tanta gente che andava verso La Mecca. C’era qualche pellegrino ricco, che viaggiava con un corteo di servitori e di cammelli, ma la maggior parte erano persone ben più povere di quanto lo fossi io. Tutti andavano e tornavano contenti, e ponevano sulla porta della propria casa simboli del pellegrinaggio. Uno di loro, un calzolaio che si guadagnava la vita ricucendo le scarpe altrui, mi disse che aveva camminato nel deserto per quasi un anno, ma che si stancava molto di più quando doveva attraversare un quartiere di Tangeri per acquistare un po’ di cuoio». «Perché non andate alla Mecca adesso?» gli domandò il ragazzo. «Perché La Mecca mi fa sentire vivo. È quello che mi fa sopportare questi giorni tutti uguali, questi vasi silenziosi sui loro scaffali, il pranzo e la cena in quell’orribile ristorante. Ho paura di realizzare il mio sogno e di non avere, poi, più alcun motivo per mantenermi vivo. Tu sogni pecore e piramidi. Sei diverso da me, perché desideri realizzare i tuoi sogni. Io voglio soltanto sognare La Mecca. Ho già immaginato migliaia di volte la traversata del deserto, il mio arrivo nella piazza in cui si trova la Pietra Sacra, i sette giri che devo compiervi intorno prima di toccarla. Ho già immaginato quante persone staranno accanto a me, e le parole e le preghiere che reciteremo insieme. Ma ho paura che sia una grande delusione, e allora preferisco limitarmi a sognare». (P. Coelho, L’Alchimista, Bompiani, 1995)

    • Se non si è consapevoli della propria fede e della coerenza che essa richiede, «i comportamenti religiosi non sono diversi dal bricolage, sorge persino il dubbio che neanche si tratti più di religione»: consapevolezza e coerenza, sono caratteristiche che possono essere considerate alla moda oggi? Quali impegni richiedono?

    Sempre e per sempre
    Pioggia e sole cambiano la faccia alle persone
    fanno il diavolo a quattro nel cuore,
    e passano, e tornano, e non la smettono mai

    Sempre e per sempre tu…
    ricordati, dovunque sei, se mi cercherai,
    sempre e per sempre, dalla stessa parte
    mi troverai.

    E ho visto gente andare, perdersi e tornare
    e perdersi ancora,
    e tendere la mano a mani vuote,
    e con le stesse scarpe camminare
    per diverse strade
    o con diverse scarpe su una strada sola.

    Tu non credere se qualcuno ti dirà
    che non sono più lo stesso ormai,
    pioggia e sole abbaiano e mordono,
    ma lasciano il tempo che trovano
    e il vero amore può nascondersi, confondersi,
    ma non può perdersi mai.

    Sempre e per sempre,
    dalla stessa parte
    mi troverai!

    (F. De Gregori, da Amore nel pomeriggio, BMG Ricordi, 2001)

    • «È una sfida entusiasmante della coscienza religiosa essere alle prese con la serietà della propria decisione, e proprio in virtù di quella non poter essere indifferente alle decisioni religiose degli altri. Fuori di questa sfida non vi è vera coscienza religiosa e non vi è desiderio autentico di Dio». Ci può o ci deve lasciare sconcertati il fatto che altri pronuncino il nome di Dio in modo diverso e lo concepiscano in modo diametralmente opposto al nostro?

    10. Un approccio dall’arte

    chagall7
    Le fils prodigue, Marc Chagall (1887 – 1985), cm. 162x122 Collezione Privata, olio su tela, 1975-1976.

    Un’immagine d’arte sacra; di più: un’immagine evangelica; di più: un’immagine di Dio Padre che incontra e riabbraccia uno dei suoi figli. Uno qualsiasi? Il figlio prodigo (Lc 15, 11-24). L’opera, che è uno dei rari soggetti tratti dal Nuovo testamento, appartiene all’ultimo periodo pittorico dell’artista russo, quando, di ritorno dall’esilio negli Stati Uniti, si stabilisce a Vence sulla Costa Azzurra dove soggiornano anche Matisse e Picasso. Sono anni molto fecondi per Chagall che si cimenta in grandi opere, dalle vetrate per le cattedrali di Metz, Reims, Chichester, ai grandi oli del messaggio biblico, straordinario racconto poetico radicato nella tradizione giudaico-ortodossa dell’artista. Questa scena è nella sua stessa rappresentazione profondamente religiosa, anche se Chagall non è di religione cristiana. Da credente, Chagall ha affogato tutta la rappresentazione nel blu, nel colore dell’anima, della profondità. Il padre ha un volto di vecchio con la barba, l’iconografia di Dio Padre è qui sia citata se- condo i canoni classici, sia rivisitata in abiti moderni, perché questo padre è un padre presente, in attesa del figlio, immanente e preoccupato delle sue creature. In più, quest’ultima è dipinta con contorni neri definiti che ne staccano la sagoma dal fondo, è blu come il paesaggio circostante, ma assume anche sfumature verdi, rosse e gialle nel volto: è un padre variopinto come un pittore con tavolozza, ovvero, nell’immaginario di Chagall, come il Creatore. Il figlio è tutto blu, è tornato alla spiritualità, è tornato a casa, è tornato alla fede. Lo dimostra il suo lasciarsi avvolgere dal genitore e il suo appoggiare un viso un po’ contrito, tuttavia sorridente, al petto del padre. Lo sguardo del padre non è distratto, sta proprio guardando il figlio, il suo capo, forse, il suo viso, è possibile, ma ciò che è certo è che il padre aspettava proprio la vicinanza e l’abbraccio di quel Figlio. Questo è ciò che i credenti chiamano l’Incontro: prima una chiamata, poi un’attesa e infine una risposta univoca, inequivocabile, libera e del tutto personalizzata. Lo spazio che incornicia la scena è onirico, fluttuante e surrealistico, ma riempito di vere abitazioni (forse un richiamo alla casa, al paese natio a cui il figlio è tornato) festoso nei colori delle vesti e nel mazzo di fiori che incede sulla sinistra verso i due protagonisti, già sulla destra un uomo porta il vitello grasso da ammazzare per banchettare insieme. Il sole sta sorgendo e un uccello rosso sta volando verso il centro della composizione, la concentrazione dell’ambiente circostante sulla scena centrale è massima, la forza che muove il dipinto è centripeta. Come centripeta è la spinta vocazionale. L’uomo sincretico non può conoscere la gioia di una vocazione personale, di una fede donata all’indirizzo esclusivo di un’anima in particolare, non conosce il significato di un cammino di vita cucito su misura e scelto liberamente di indossare. Un laico può rispettare la religiosità altrui, ma non può condividere la fede, senza fare lo sforzo di ricercarla, attenderne il dono nell’incontro, ascoltarne il contenuto. Invece Chagall può regalarci con pienezza l’episodio del figliol prodigo, perché la sua fede esiste, è chiara e unilaterale, ha conosciuto e vissuto sulla propria pelle l’episodio. (L’invito è a vedere il dipinto nei suoi vividi colori su Internet).
    • La mia fede ha origine da un Incontro? Mi ricordo di ringraziare per questo?
    • La riconoscenza per il dono, come si concretizza nella mia vita quotidiana?
    • Sono capace, incontrando chi mi sta attorno, di lasciare traccia di quell’Incontro per me importante?

    De Chirico
    Il figliuol prodigo,
    G. de Chirico (1888 – 1978), cm. 100x70, Roma, Fond. Giorgio e Isa de Chirico, olio su tela, 1975.

    Un’immagine d’arte sacra; di più: un’immagine evangelica; di più: un’immagine di Dio Padre che incontra e riabbraccia uno dei suoi figli. Uno qualsiasi? Giorgio de Chirico, nell’ultima svolta della propria carriera, decide di cimentarsi in soggetti per lui inusuali, ma avvolti nello stesso mistero metafisico, nello stesso scenario onirico e nella stessa ironia laica che da sempre avevano contraddistinto la sua mano. Questa scena è laica, volutamente svuotata di significato religioso per essere riempita di… vuoto. Un credente, infatti, non avrebbe rappresentato un padre di marmo, né un ballerino in abito bianco un po’ ingiallito, e di sicuro non lo avrebbe rappresentato più basso del figlio. Il figlio, d’altra parte, è più ricco di dettagli del padre, ma i dettagli che «indossa» ne rendono la figura frammentata, caotica, appesantita da cose inutili e non gli donano né un volto, né un’identità. Egli è uno dei tanti manichini che popolano gli incubi e i sogni di de Chirico. L’abbraccio stesso del figlio è mutilo per metà. Anche il paesaggio è, come di consueto nelle opere dell’artista, quello di un mondo assurdo, tanto reale nelle sue architetture e nel paesaggio sullo sfondo, quanto spoglio, privo d’anima e di senso, quasi in attesa di un abbraccio umano che è alluso dalle forme e dal titolo dell’opera, ma di fatto non avviene e non avrebbe comunque alcunché di umano: i due protagonisti sono solo oggetti. È significativo che l’autore si sia cimentato in questa rappresentazione, quella in cui un padre, il Padre, accoglie suo figlio, che si era allontanato, per chiedere di ritornare alla sua Grazia, cioè chiede di essere di nuovo considerato suo figlio, perché finalmente lui stesso si è accorto di esserlo. Questo episodio è la dichiarazione di fede proclamata a tu per tu. È quello che un fedele chiama l’Incontro. Questa tela è dunque una toccante rappresentazione, che tuttavia potrebbe essere stata creata indifferentemente sia da un’artista dichiaratamente laico, sia da uno genericamente religioso, sia da un uomo d’ideali sincretici. Infatti, il soggetto e la sua rappresentazione non storpiano l’atto di abbandono al padre, dipinto secondo le pose canoniche. Lo sfondo chiaramente a-temporale potrebbe essere interpretato come l’universalizzazione di un Credo che è stato ed è tutt’oggi pronunciato da molti uomini. Nemmeno l’intervento dell’arte contemporanea con i suoi espedienti formali e i suoi colori iperreali turba realmente la resa dell’episodio. Ciò che rende la scena teologicamente inesatta è l’oggettivazione dei due protagonisti, il contatto mutilo che c’è tra di loro, ma soprattutto la generalizzazione dei soggetti. Se la chiamata alla fede da parte di Dio non fosse personale, come potrebbe ognuno degli interpellati rispondere? Se la chiamata non fosse personale ed univoca, a chi rispondere? Di che rispondere? Infine, se non fosse un unico Dio a chiamare a sé il proprio figlio, come farebbe un credente a parlare di Incontro? Con chi prendere appuntamento? A chi rendere conto di un sì o di un no? Non sono queste risposte che si vorrebbero lasciare sulla segreteria telefonica…
    • La mia fede ha origine da un Incontro? Ricordo grazie a chi è avvenuto questo incontro?
    • Di conseguenza, prendendo coscienza che la fede e la testimonianza di fede sono sempre atti veicolati da rapporti umani profondi e personali, vivo il mio rapporto con gli altri secondo questo stile?
    • Riconosco nella mia vita la tentazione di abbandono ad un sincretismo trendy, ma qualunquista?

    Per continuare (o materiali da sfruttare)…

    Film (schede film scaricabili da www.acec.it)
    * TENTAZIONI D’AMORE, di Edward Norton, USA 2000, Touchstone Pictures.
    * IL GIARDINO DEI LIMONI, di Eran Riklis, Giordania 2008, Theodora Film.
    * YENTL, di Barbara Streisand, USA 1983, Metro Goldwin Mayer.

    Libri
    * I.B. Singer, Ombre sull’Hudson, Longanesi, 1998.
    * I.B. Singer, Il mago di Lublino, Longanesi, 2009.
    * E.E. Schmitt, Il lottatore di sumo che non diventava grosso, Edizioni e/o, 2009.
    * N. Englander, Per alleviare insopportabili impulsi, Mondadori, 2007.
    * H. Küng, Ciò che credo, Rizzoli 2010.
    * H. Küng, Dio esiste? Mondadori 1979.
    * T.N.D. Mettinger, In cerca di Dio. Il significato e il messaggi dei nomi etermi, EDB 2009.
    * C. Fiore, Religioni tra storia e attualità, Elledici 1999.
    * P. Stefani, Le religioni secondo Andrea, Laterza 2007.

    Musica
    * E. Finardi, UNO DI NOI, da Occhi, WEA, 1996.
    * P. Turci, ATTRAVERSAMI IL CUORE, Universal, 2009.
    * L. Jovanotti Cherubini, CORAGGIO, Universal, 2005.


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