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    Perché Dio continua a trovare nel cosmo e nel cuore dell’uomo ostinati testimonials?


     

    a cura dell’Ufficio PG-ILE – Giancarlo De Nicolò – Cristiana Freni

    (NPG 2010-01-08)

    Il percorso

    Se da una parte sottolineiamo la sequenzialità e la «logica» delle 10 tappe del percorso verso Dio, dall’altra ne indichiamo anche il suo andamento «circolare»: esso non porta verso la «dimostrazione» di Dio, al termine di un cammino stringente. Esso piuttosto appella e chiama in causa sì la ragione e la serietà della ricerca stessa, ma non conclude, bensì accenna, allude, dà a pensare. In effetti non si tratta di «dimostrare», ma al massimo di «mostrare», la decisività di Dio nelle nostre vicende (e nel fatto stesso di essere «uomini») e l’impossibilità di pensarsi e di pensare «come se Dio non ci fosse»; il bisogno di prendere sul serio l’umano senza superficialità e senza riduzionismi, in quel costante atteggiamento di ricerca, di bisogno di capire e di sapere che poggia in ultima analisi sull’affidarsi alla bontà che regge l’universo e noi. L’esistenza di Dio è posta come argomento da discutere – come si è visto – nella seconda tappa, non alla fine del percorso. Essa è un dato che si basa sulla fiducia nella realtà e sull’ascolto del profondo dell’uomo… ma poi viene contestata in tutti i possibili modi che l’uomo stesso (e il suo cuore) mettono in atto. Ecco perché tutte le tappe che seguono testimoniano sia di Dio che del costante tentativo umano di rifiuto e negazione di Lui. I mille perché lo ripropongono e lo invocano, i mille perché lo rifiutano e lo bestemmiano. Così va il mondo, così va il cuore.

    I TESTIMONIALS

    Questa tappa tratterà quasi esclusivamente della bellezza come uno dei più avvincenti, «ostinati» testimonials di Dio: sia per ragioni filosofiche e teologiche (il fascino che la bellezza ha sempre suscitato per il «di più» che svela) che anche per una specie di «segno dei tempi»: mai come in questi tempi il tema della bellezza è richiamato (come vedremo) come strada per Dio, più che altri «argomenti».
    Ma i testimonials di Dio sono al plurale (cosmo e cuore, dice il titolo della tappa).
    Il procedimento percorrerà questa strada:

    – Dio non si «svela» direttamente: è sempre (apparentemente) il Grande Assente, il Silenzioso… dagli occhi che non vedono e dalle orecchie che non sentono. Dice anche il Vangelo: «Dio nessuno l’ha mai visto». Ci sono segni che lo alludono, che ne parlano. Quali e dove sono questi segni? Quali condizioni per vederli e comprenderli appunto come segni? Quale la disponibilità dell’uomo?
    – Ma anche i segni hanno bisogno di essere visti come tali, cioè nella loro ambiguità: rivelano mentre nascondono, nascondono mentre rivelano.
    – La bellezza è uno di questi segni: «essa salverà il mondo», ma come, perché e a quali condizioni? – Ma prima ha bisogno di essere a sua volta salvata.
    – Bellezza è uno dei nomi (il nome) di Dio. Nelle attività che seguono lavoreremo soprattutto sul tema della bellezza, offrendo spunti senza voler chiudere immediatamente il discorso verso dimostrazioni apodittiche di Dio. In tutte queste tappe (questa e quelle che seguiranno) non interessa tanto – come si è più volte detto – «dimostrare Dio», ma mostrare come la nostra vita (e quanto sperimentiamo, di nostro e di quanto ci supera) lo richiama e lo rifiuta, ci mette con serietà davanti a Lui e chiede di non accantonarlo a tappabuchi dell’esistenza o idolo a cui sacrificare o servo dei nostri bisogni. In effetti, tappa essenziale per una riflessione su Dio è la liberazione dagli idoli di Dio che ci siamo fatti (lungo la storia e nella nostra esistenza).

    Accenniamo a due blocchi di testimonials. Uno è accennato (e poi ricuperato nel tema della bellezza) nell’articolo: il creato. Gli altri appartengono invece maggiormente alla sfera soggettiva della persona, che possono comunque essere ricollegati col tema della bellezza.

    1. Il creato

    «I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani annuncia il firmamento» (Sal 19). Già, l’immensità del creato, che ha da sempre suscitato stupore e meraviglia, e ha formato la base «naturale» per una prima concezione di Dio. «Il sole e il mondo sono sempre agli occhi del credente ‘creazione’, sono quasi una misteriosa parola sussurrata da Dio all’uomo» (G. Ravasi). Esso diventa voce che parla con chiarezza a tutti: «Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia. Non è linguaggio e non sono parole di cui non si oda il suono. Per tutta la terra si diffonde la loro voce e ai confini del mondo la loro parola». 

    Tale quadro raccoglie il canto dei cieli, presentati come se fossero persone che fanno da testimoni entusiasti dell’opera creatrice di Dio. Essi, infatti, «narrano», «annunciano» le meraviglie del Creatore che li ha fatti. Anche il giorno e la notte sono rappresentati come messaggeri che trasmettono di postazione in postazione la grande notizia del Signore che si rivela proprio nelle sue creature. Spazio (i cieli) e tempo (notte e giorno) sono, perciò, coinvolti in una specie di «vangelo» di gioia e di luce: «Nell’universo – scriveva un commentatore tedesco dei Salmi, H. Gunkel – risuona una musica teologica». Si tratta, però, di una musica e di un messaggio che non conoscono parole sonore ed echi; eppure questa strana voce silenziosa percorre tutto l’universo. Lo sguardo interiore dell’uomo e il suo orecchio spiritualmente attento possono decifrare questo enigma che è il creato. Il mondo muto si rivela all’occhio e all’orecchio dell’uomo come una realtà che parla e canta (G. Ravasi).

    Ma parla davvero con chiarezza a tutti? Ecco l’ambiguità dei segni. Passiamo dunque all’altro lato della medaglia: l’ambiguità della natura, una natura in cui i cieli (neanche loro) non dicono affatto Dio e la sua gloria. Un altro «ateo» dichiarato e militante (e, per inciso un grande romanziere, premio Nobel della letteratura nel 1998), José Saramago, guarda la stessa realtà con un altro sguardo. La stessa motivazione per il premio Nobel ci permette di cogliere il senso del suo sguardo: «Con parabole sostenute da immaginazione, compassione e ironia ci permette ancora una volta di afferrare una realtà illusoria»: già, la «realtà illusoria» di Dio e del «grande inganno»!

    Non c’è amore né giustizia nell’universo fisico. Neppure crudeltà. Nessun potere presiede ai quattrocentomila milioni di galassie e ai quattrocentomila miliardi di stelle esistenti in ciascuna. Nessuno fa nascere ogni giorno il sole e la luna ogni notte, anche se non è visibile in cielo. Messi qui senza sapere né come né perché, dobbiamo inventarci tutto. Abbiamo inventato anche Dio, ma lui non è uscito dalle nostre teste, vi è rimasto dentro a volte come fattore di vita, quasi sempre come strumento di morte. Possiamo dire: ‘Ecco l’aratro che abbiamo inventato’, non possiamo dire: ‘Ecco il Dio che ha inventato l’uomo che ha inventato l’aratro’. Questo Dio non possiamo togliercelo dalla testa, neppure gli atei, tra i quali mi includo. Ma almeno discutiamone, discutiamo questa invenzione, risolviamo questo problema, riconosciamo almeno che esiste. Prima di diventare tutti pazzi… (Il Quaderno, Bollati Boringhieri 2009, p. 61-62: titolo del «pezzo del blog»: «Dio come problema»).

    Tanto da discutere (soprattutto nel contesto in cui tale blog appare, l’utilizzo del nome di Dio per uccidere). Dunque il mondo creato non richiama affatto Dio, ma nulla, il vuoto. Anche se fa sempre capolino («Questo Dio non possiamo togliercelo dalla testa») la lunga ombra del pensiero di lui, forse del bisogno di lui. Si apre qui dunque un ambito di dialogo con i giovani, sia che si analizzi l’infinitamente grande che l’infinitamente piccolo, e il mistero della vita. Tale quadro raccoglie il canto dei cieli, presentati come se fossero persone che fanno da testimoni entusiasti dell’opera creatrice di Dio. Essi, infatti, «narrano», «annunciano» le meraviglie del Creatore che li ha fatti. Anche il giorno e la notte sono rappresentati come messaggeri che trasmettono di postazione in postazione la grande notizia del Signore che si rivela proprio nelle sue creature. Spazio (i cieli) e tempo (notte e giorno) sono, perciò, coinvolti in una specie di «vangelo» di gioia e di luce: «Nell’universo – scriveva un commentatore tedesco dei Salmi, H. Gunkel – risuona una musica teologica». Si tratta, però, di una musica e di un messaggio che non conoscono parole sonore ed echi; eppure questa strana voce silenziosa percorre tutto l’universo. Lo sguardo interiore dell’uomo e il suo orecchio spiritualmente attento possono decifrare questo enigma che è il creato. Il mondo muto si rivela all’occhio e all’orecchio dell’uomo come una realtà che parla e canta (G. Ravasi). Si può avviare una ricerca nel grande codice culturale della Bibbia, specie nei Salmi: gli astri celesti e le bellezze del creato, che restano opere create: possono assurgere a segni, indicatori, rivelazioni di Dio per la loro grandiosità e bellezza, mai diventare dei (il dio sole, la dea luna…). Nella storia delle religioni facilmente emergeranno altre visioni «deificanti». E poi la riflessione sulla scienza. Quale è il suo linguaggio mentre descrive e spiega? Essa dice l’ultima parola, quella definitiva e chiarificante sulla natura? Lascia spazio al mistero, come qualcosa in cui si apre la dimensione del non posseduto, ma del donato? La scienza copre tutte le dimensioni dell’umano e vi dà tutte le risposte? O quando ha dato tutte le sue risposte i veri e grandi problemi non sono ancora stati toccati, e nemmeno nominati? Quello che conta in questa disanima è la presa di coscienza che la realtà dice più di quello che è, parla all’uomo al di là della sua semplice curiosità e possibilità di utilizzo funzionale o estetico. Anche il creato ha delle domande che l’uomo deve saper cogliere. Sono domande che alla fine prolungano la stessa grande domanda che l’uomo pone a se stesso: perché la realtà? da dove viene? dove va? perché io? Nelle stesse cose poi alberga l’ambiguità: esse raccolgono il sole e il buio, parlano e nascondono, mostrano il loro lato favorevole e quello negativo (per l’uomo). E, in parole filosofiche, possono essere sia idolo che icona.

    2. Felicità, amore e altro

    Anche questi, come la bellezza, possono essere testimonials. («Pensi che Dio viva tra queste bellissime montagne che ci circondano?», chiese l’errante. «Dio vive – disse il vecchio – in quei posti dove permettono che Egli entri»: da un racconto di P. Coelho). Vogliamo anche citare – da Peter L. Berger, Il brusio degli angeli (Mulino 1970/1995) («angeli» come voce della trascendenza, «brusio» come sussurri che possono essere uditi solo nel silenzio e da orecchie ben attente) – altri cosiddetti «segni di trascendenza», che invitano l’uomo a non chiudersi in un mondo senza porte né finestre, per cogliere la luce che essi indicano. Come il dito che indica la luna, e che non ha la funzione di far fissare lo sguardo su di sé. «Per segni della trascendenza intendo quei fenomeni riscontrabili nell’ambito della nostra realtà ‘naturale’ ma che sembrano riferirsi ad un’altra realtà». Essi sono «alcuni gesti umani prototipici, certe esperienze comuni e ripetute che sembrano esprimere gli aspetti essenziali dell’essere umano». Berger li enumera: l’inclinazione all’ordine, il gioco, la speranza, la «dannazione», l’umorismo. In ognuno di esse vi è un «di più» di esperienza che appella a un ordine fondato nell’universo, appunto come segni di una realtà che trascende l’esperienza umana stessa. Nell’argomentazione del primo: «L’inclinazione umana ad ordinare la realtà implica un ordine trascendente, e ogni atto ordinatore è un segno di tale trascendenza». «Un’antropologia filosofica degna del nome dovrà recuperare la facoltà di percepire queste esperienze; e così ricupererà anche la dimensione metafisica». Su ognuno di tali temi («posti dove permettiamo che egli entri», come dice il racconto di Coelho) il percorso da compiere è lo stesso: mostrarne la valenza di segno, la «plusvalenza» che essi possiedono, l’appello all’uomo a riconoscere non solo la presenza sovrabbondante e gratuito-grazioso di Altro, ma anche la forza a trascinarlo fuori da sé, una volta liberato dall’offuscamento di cui è impregnato.

    3. La bellezza

    Passiamo ora più esplicitamente al tema dell’articolo, con le attività che seguono. Ma prima il nostro quadro di riferimento, in una «meditazione» di von Balthasar.

    Nostalgia di bellezza... Il nostro mondo sperimenta con dolorosa quotidianità l’esperienza del volgare, dello scontato, della preponderanza del piano dell’apparire piuttosto che quello dell’essere. I centri estetici si moltiplicano in ogni dove, i prodotti di cosmesi confermano un mercato che regge ad onta di ogni crisi, la ricerca di un modello di bellezza patinato è cronaca di ogni giorno. La parola Bellezza subisce il maltrattamento semantico di molti altri termini, che utilizzati in modalità passiva e acritica, finiscono per svuotarsi, utilizzati dai tuttologi che imperano la scena culturale di questo inizio di secolo e di millennio. La parola Amore, la parola Libertà, la parola Verità, la parola Bellezza, sono tutte espressioni che scandiscono e plasmano il profilo grandioso dell’uomo. Oggi appaiono impoverite, scarnificate, violate... Alla Bellezza si dovrà la salvezza, nota Dostoevskij. Ma perché sia bellezza, l’uomo deve riassaporare la sua cogente nostalgia. Von Balthasar è apparso come uno dei più grandi profeti della bellezza a partire dalla sua nostalgia. Non è la Bellezza, ad averci abbandonato, ma si è ammalata la nostra capacità di cercarla, contemplarla, goderla, comunicarla. La nausea, che è il sigillo dell’antropologia sartriana del XX secolo, ha contagiato nell’uomo la sua capacità allo stupore, alla ricerca, alla meraviglia. La perdita della Bellezza, ha portato alla crisi della Verità e della Bontà... Si tratta di un unico, terribile malessere le cui conseguenze sono tutte a ricaduta sul presente e sul futuro dell’uomo. Tramontata la bellezza, ha preso posto l’angoscia, nota Von Balthasar, la «nuda materia». Il recupero della Bellezza è l’unica sola vera cura di bellezza. La tensione estetica, oggi così drammaticamente fraintesa, resta in un mondo – in cui anche la lanterna di Diogene sembra spenta – il faro che riconduca il capolavoro della creazione, l’uomo, alla sua destinazione e alla sua casa. Come afferma Von Balthasar: «La nostra parola iniziale si chiama bellezza. La bellezza è l’ultima parola che l’intelletto pensante può osare di pronunciare, perché essa non fa altro che incoronare, quasi aureola di splendore inafferabile, il duplice astro del vero e del bene e il e il loro indissolubile rapporto» ( H.U. Von Balthasar, Gloria, Jaca Book, Milano, 1985, vol I, p. 10).

    Il nostro percorso attorno alla bellezza comincia dunque con questa riflessione, ispirata all’opera filosofica e teologica di Von Balthasar, che ha fatto della bellezza il criterio ermeneutico e il fuoco della sua riflessione. I nodi di tale riflessione sono presto indicati: l’esperienza del «volgare» che sperimentiamo, la nostalgia della bellezza e il suo bisogno per il dirsi dell’uomo e di tutto l’uomo, le false vie intraprese per la sua ricerca, il suo intrinseco legame con la Verità e la Libertà. Il cammino dell’autore e sollecitato in queste schede è per ritrovare lo spazio per la nostalgia di essa. Averne già solo nostalgia è l’inizio di un promettente cammino, l’uscita dall’angoscia, la dolce visione della casa.

    Attività

    1. Un testo, un esercizio critico-estetico

    Questo primo brano richiama l’argomentazione di prima sul creato e lo sguardo della scienza. Essa non può vedere se non con l’occhio che le compete, dunque non estetico o teologico. Ma, se è corretta, e dal momento che lo scienziato è anche lui uomo, non può precludere altri sguardi che suscitano stupore e meraviglia. Altre pagine possono anche essere prese da testi sulle meraviglie del corpo umano…

    «Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo»

    È opinione comune che le leggi dell’universo scoperte dalla scienza siano in conflitto con quelle imperscrutabili di Dio. La contrapposizione tra fede e scienza rappresenta uno dei dilemmi più laceranti del nostro tempo; un dramma che conobbe il suo primo controverso atto con Galileo Galilei. «Non esiste alcuna scoperta scientifica che possa essere usata al fine di mettere in dubbio o di negare l’esistenza di Dio». Proprio Galilei, scopritore del principio d’inerzia, della relatività e delle prime leggi che reggono il creato, era credente e considerava la scienza uno straordinario strumento per svelare i segreti di quella natura che porta le impronte di Colui che ha fatto il mondo. E credenti erano Maxwell e Planck, due padri della fisica contemporanea, uomini che hanno scoperto nuovi orizzonti sulle leggi dell’universo grazie allo studio di particelle infinitamente piccole; tanto piccole da non poter contenere traccia né di angeli né di santi, e da non poter quindi avallare, apparentemente, alcuna spiegazione razionale dell’esistenza del divino. Le conquiste della scienza non oscurano le leggi divine, ma le rafforzano, contribuendo a risvegliare lo stupore e l’ammirazione per il meraviglioso spettacolo del cosmo, che va dal cuore di un protone ai confini dell’universo. Nessuna scoperta scientifica ha messo in dubbio l’esistenza di Dio. La scienza è fonte di valori che sono in comunione, non in antitesi con l’insegnamento delle Sacre Scritture, con i valori quindi della Verità Rivelata. Né la Scienza né la Logica permettono di concludere che Dio non esiste. Nessun ateo può quindi illudersi di essere più logico e scientifico di colui che crede. Chi sceglie l’Ateismo fa quindi un atto di Fede: nel nulla. Credere in Dio è più logico e scientifico che credere nel nulla. Si potrebbe obiettare: dal momento in cui risulta impossibile arrivare a Dio tramite scoperta di Logica matematica o per via di una scoperta scientifica, né Logica né Scienza possono essere più invocate per arrivare all’atto di Fede. Tutto ciò è esatto. Infatti la fede è un dono di Dio. Corroborata però dall’atto di Ragione nel Trascendente. Si rifletta comunque un po’. La Logica Matematica e la Scienza sono attività intellettuali che operano nell’Immanente. Se fosse possibile dimostrare l’esistenza di Dio per via di un rigoroso procedimento di Logica matematica, Dio sarebbe l’equivalente di un teorema matematico. Se fosse possibile dimostrare l’esistenza di Dio per via di una serie di ricerche rigorosamente scientifiche, Dio sarebbe l’equivalente di una grande scoperta scientifica. Se ciò fosse possibile, l’uomo sarebbe in grado di arrivare al teorema supremo: la dimostrazione matematica dell’esistenza di Dio. Ovvero la più straordinaria di tutte le scoperte scientifiche: la scoperta di Dio. Teorema e scoperta oltre le quali non potrebbe esserci nient’altro. Sia la ricerca matematica sia quella scientifica hanno invece una proprietà fondamentale in comune. Ogni scoperta apre nuovi orizzonti. Concetti mai prima immaginati, Colonne e Forze di cui nessuno era riuscito a fantasticare l’esistenza, si presentano agli occhi del ricercatore come tappe di un cammino apparentemente senza fine. Colui che ha fatto il mondo queste cose le conosce. Solo un suo pari potrebbe saperne altrettanto. Noi siamo miseri mortali: fatti sì, a sua immagine e somiglianza. Privi però della sua potenza intellettuale. Ecco perché io penso che noi non sapremo mai tutta la Matematica né tutta la Scienza. C’è un aspetto della realtà in cui viviamo che mi affascina in modo particolare: il cammino senza soste, l’ascesa continua, nello studio della Logica Matematica e della Scienza. Ciò è possibile grazie all’intelletto che ci ha voluto dare Colui che ha fatto il mondo. É un privilegio straordinario essere stati invitati al tavolo della ragione che opera l’Immanente e nel Trascendente. Attorno a quel tavolo noi siamo seduti, desiderosi di apprendere, non di cacciar via Colui che ci ha invitati. Il tavolo della ragione permette però all’uomo di riflettere sul Trascendente e sull’Immanente. Ed ecco dove l’atto di Fede, che è dono di Dio, si coniuga con l’atto di Ragione. Infatti la Ragione è dono di Dio. (A. Zichichi, Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo, Il Saggiatore, 1999)

    Per affrontare in modo significativo questo tema, si suggerisce di allestire un salone a mo’ di museo, esponendo alcune stampe in grande formato di opere d’arte: pittura, scultura, architettura … (se non fosse possibile si può proiettare a ciclo continuo le immagini delle opere scelte). A ciascun partecipante viene distribuito un foglio con da un lato il brano di Antonino Zichichi e dall’altro spazio per gli appunti. Si invitano i presenti a guardare con calma le diverse opere esposte (o proiettate) e a sceglierne una (massimo due) che, secondo loro, con la sua bellezza rappresenta una testimonianza dell’esistenza di Dio, appuntandosi sul foglio motivazioni, elementi, ecc… Una volta terminato, ci si raduna in gruppo e si condividono le opere scelte spiegando ciascuno le proprie motivazioni. In un secondo momento, si propone di paragonare il lavoro sulla bellezza delle opere d’arte con l’articolo di Zichichi sulla scienza come testimonial di Dio.

    2. «Salvate la bellezza»

    Proviamo a fare (o a ricercare) esperienze di bellezza, o meglio vediamo dove altri la vedono e come la sperimentano e la sentono. Canzoni, brani di letteratura, poesie, film… ci possono aiutare (vedi le indicazioni alla fine). Come suscitatore dell’esperienza di bellezza c’è sempre un rimando che suggerisce una spiegazione: bellezza perché incanto, bellezza perché amore, bellezza perché gioia, bellezza perché felicità, bellezza perché innocenza, bellezza perché condivisione del dolore e delle passioni degli altri… Infranto tale legame, cosa può restare della bellezza? Non solo: ci sono tipi di bellezza che promanano ambiguità. Il gruppo di giovani con l’educatore può dunque indagare questa strada: da cosa la bellezza deve essere salvata? Ad esempio: bellezza come apparenza, come illusione, come simulacro, come seduzione, come violenza/sopruso, come possesso, come narcisismo… Qui di seguito alcuni spunti con domande evocative.

    Amo le donne, le ho sempre amate. Come si fa a non amarle? Perché le donne sono belle. Belli i loro contorni, le loro mani, la pelle, i fili contorti dei loro pensieri. Belli i profumi colorati dei loro desideri. Come le loro paure, i loro piccoli turbamenti. Amo la bellezza dei loro gesti. Amo come si asciugano le lacrime con la mano e il sorriso improvviso che fanno dopo aver pianto come bambine. Squarci di luce inattesi. Amo le donne. Senza di loro me ne sarei già andato. Senza di loro non sarei mai più tornato. Sono sempre stato così. Quando parlo al telefono e sento che mi è arrivato un messaggio, non mi interessa più parlare, perché sono curioso da morire di sapere chi me lo abbia mandato. Mi distraggo da quel che sto facendo. Questo è sempre stato il mio pensiero con le donne: ho sempre creduto che se stavo con una avrei perso tutte le altre. Sono stato così in tutto. Nello sport, per esempio ho fatto karate, ping-pong, calcio, basket. Non mi sono mai focalizzato su un’attività sola. Ho scavato sempre mille buche, forse per questo non ho mai trovato niente. Michela mi ha insegnato una cosa importante. Ma in quei giorni ancora non lo sapevo: «Vorrei un uomo che c’è!». (Fabio Volo, Il giorno in più, Mondadori, 2007)

    • «La vita vissuta come infantile permanenza in un parco a tema, ove nulla è serio poiché nulla è vero, non ha mai prodotto eroi credibili». Questa affermazione, proposta nella riflessione di Paolo Zini, provate a confrontarla con il brano di Fabio Volo: ci sentiamo effettivamente «piccoli uomini» o «piccole donne» perennemente in bilico tra perfezione, bellezza e generosità da una parte, e cattiveria, aggressività ed egoismo? 
    • Di quale tipo di bellezza e con quale ambiguità qui si parla?

    «Miriàm sai cos’è la grazia?» «Non di preciso», risposi. «Non è un’andatura attraente, non è il portamento elevato di certe nostre donne bene in mostra. È la forza sovrumana di affrontare il mondo da soli senza sforzo, sfidarlo a duello tutto intero senza neanche spettinarsi. Non è femminile, è dote di profeti. È un dono e tu l’hai avuto. Chi lo possiede è affrancato da ogni timore. L’ho visto su di te la sera dell’incontro e da allora l’hai addosso. Tu sei piena di grazia, una fortezza. Tu la spargi, Miriàm: pure su di me». Erano parole da meritarsi abbracci. Restammo sdraiati senza una carezza. Ci pensai un poco e risposi per gioco: «Tu sei innamorato cotto, Iosef». (Erri De Luca, In nome della madre, Feltrinelli, 2006)

    • «La bellezza della natura, come quella dell’arte, o dell’uomo, nel suo essere e nel suo fare, vive il linguaggio del dono che si ferisce e ferisce, si genera dedicandosi e chiedendo dedizione». La situazione in cui viene a trovarsi Maria, giovane donna, promessa sposa, coinvolta da Dio nel «progetto di salvezza dell’umanità», è un dono o una condanna? È una scelta o un’imposizione? 
    • Quale altro tipo di bellezza è qui sottolineata? Fa capolino la parola «grazia»…

    E con ciò ho toccato un punto importante. Una volta, se mi piaceva un fiore, avrei voluto premermelo sul cuore, o addirittura mangiarmelo. La cosa era più difficile quando si trattava di un paesaggio intero, ma il sentimento era identico. Ero troppo sensuale, vorrei quasi dire troppo ‘possessiva’: provavo un desiderio troppo fisico per le cose che mi piacevano, le volevo avere. È per questo che sentivo sempre quel doloroso insaziabile desiderio, quella nostalgia per un qualcosa che mi appariva irraggiungibile, nostalgia che chiamavo allora «impulso creativo». Credo che fossero queste forti emozioni a farmi pensare di esser nata per fare l’artista. Ora, d’un tratto, non è più così, anche se non so dire per quale processo interiore. Me ne sono appena resa conto stamattina, ripensando a una piccola passeggiata intorno all’Ijsclub qualche sera fa. Era il crepuscolo: tenere sfumature nel cielo, misteriose sagome delle case, gli alberi vivi col trasparente intreccio dei loro rami, in una parola era un incanto. Mi ricordo benissimo di come sentivo ‘una volta’: trovavo tutto talmente bello che mi faceva male al cuore. Allora la bellezza mi faceva soffrire e non sapevo che farmene di quel dolore. Allora sentivo il bisogno di scrivere o di far poesie, ma le parole non mi volevano mai venire. E mi sentivo terribilmente infelice. In fondo io mi ubriacavo di un paesaggio simile, e poi mi ritrovavo del tutto esaurita. Mi costava un’enorme quantità di energie. Ora chiamerei questo comportamento «onanismo». Ma quella sera, solo pochi giorni fa, ho reagito diversamente. Ho accettato con gioia la bellezza di questo mondo di Dio, malgrado tutto. Ho goduto altrettanto intensamente di quel paesaggio tacito e misterioso nel crepuscolo, ma in modo per così dire ‘oggettivo’. Non volevo più ‘possederlo’. Sono tornata a casa rinvigorita, al mio lavoro. E quel paesaggio è rimasto presente sullo sfondo come un abito che rivesta la mia anima – tanto per dirla con paroloni -, ma non m’impacciava più, non era più ‘onanismo’. (Etty Hillesum, Diario 1941-43, Adelphi 1985, pp. 32-34)

    E ancora:

    Stamattina pedalavo lungo lo Stadionkade e mi godevo l’ampio cielo ai margini della città, respiravo la fresca aria non razionata. Dappertutto c’erano cartelli che ci vietano le strade per la campagna. Ma sopra quell’unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto. Non possono farci niente, non possono veramente farci niente. Possono renderci la vita un po’ spiacevole, possono privarci di qualche bene materiale o di un po’ di libertà di movimento, ma siamo noi stessi a privarci delle nostre forze migliori col nostro atteggiamento sbagliato: col nostro sentirci perseguitati, umiliati e oppressi, col nostro odio e con la millanteria che maschera la paura. Certo che ogni tanto si può esser tristi e abbattuti per quel che ci fanno, è umano e comprensibile che sia così. E tuttavia: siamo soprattutto noi stessi a derubarci da soli. Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si stendono dentro di me come sopra di me. Credo in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso pudore. La vita è difficile, ma non è grave. Dobbiamo cominciare a prendere sul serio il nostro lato serio, il resto verrà allora da sé: e «lavorare a se stessi» non è proprio una forma d’individualismo malaticcio. Una pace futura potrà esser veramente tale solo se prima sarà stata trovata da ognuno in se stesso – se ogni uomo si sarà liberato dall’odio contro il prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà superato quest’odio e l’avrà trasformato in qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore se non è chiedere troppo. È l’unica soluzione possibile. E così potrei continuare per pagine e pagine. Quel pezzetto d’eternità che ci portiamo dentro può esser espresso in una parola come in dieci volumoni. Sono una persona felice e lodo questa vita, la lodo proprio, nell’anno del Signore 1942, l’ennesimo anno di guerra. (pp. 126-127)

     • Queste parole (e insieme le tante altre sulla bellezza della vita («Nonostante tutto la vita è bella») sono state scritte in un campo di concentramento, da una ragazza assolutamente normale, che fa un percorso interiore di scoperta di Dio e accettazione di una realtà tragica attraverso la vita quotidiana e i suoi segni, le persone che la abitano… una volta imparato a «non possedere», non svuotare le cose dal di dentro con l’odio. 

    • Etty Hillesum collega insieme realtà come bellezza, pace, libertà, amore, interiorità, Dio… Si può costruire una «rete» che le lega insieme e insieme spiega la vita e le scelte di coraggio e di amore di Etty?
    • Anche qui la bellezza resta (e la si può vivere come dono anche in una situazione drammatica) quando la si è spogliata della rapacità del possesso. Quante esperienze «rapaci» vive il giovane nei confronti della bellezza? Quando invece la bellezza invece si «impone», così da disintegrare la «rapacità» umana?

    3. La vita, l’amore

    Teologia delle passioni

    A differenza dei grandi uomini del Medioevo, oggi noi, gente delle cose di Dio, non sappiamo più comprendere e trattare le passioni, abbiamo dimenticato la «gaia scienza». I monaci poeti possedevano una vera teologia della passione amorosa, mentre noi ci accontentiamo di un’etica degli affetti, di una serie di prescrizioni. È urgente che la Chiesa riprenda a trattare i temi vitali dell’uomo, come il grande dono dell’eros, una spiritualità che parli al cuore, il posto del corpo, l’aldilà, il rapporto con la natura e il cosmo, facendone una teologia, riconoscendoli come luogo teologico, e non riducendoli solo a una morale. La vita non è statica, ma estatica. In cammino verso qualcosa che è al di là di sé. L’essere è estasi, è divenire, movimento, diffusione ai sé, attrazione. La vita avanza per passioni, non per ingiunzioni. E la passione nasce da una bellezza. Acquisire fede è acquisire bellezza del vivere: è bello amare, sposarsi, generare, godere della luce e degli abbracci, gustare l’umile piacere di esistere; è bello essere di Dio e insieme del mondo; è bello attendere e stare con l’amico, perché tutto va verso un senso luminoso e positivo, nella finitezza e nell’infinito. La vita non è etica, ma estetica. Nel suo senso letterale, estetico significa sensibile; il suo contrario non è il brutto, ma – letteralmente – l’anestetico, l’insensibile, l’immobile. Ogni vivente ha una vita affettiva, parte alta e forte della sua identità, necessaria per essere felice. Possiamo negarla ma non eliminarla. La dimensione degli affetti, fondamentale per l’equilibrio della persona, necessaria per vivere (se non amiamo, non viviamo: 1Gv 3,14), e per vivere con gioia, è un autentico luogo teologico: l’amicizia rivela qualcosa di Dio. Ogni vivente nasce come persona appassionata, e quel malinteso spirito religioso che ci spinge a negare le nostre passioni inaridisce le sorgenti della vita e rende molti cristiani dei predicatori di cose morte. Bisogna non tanto soffocare, ma convertire le passioni; non raggelare, ma liberare i desideri per desiderare Dio. Soltanto chi ama la vita è sensibile al richiamo del Vangelo: «Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza» (Gv 10,10). – Ami la vita? – Sì, amo la vita. – Allora hai fatto metà del cammino (F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov). La santità non consiste in una passione spenta, ma in una passione convertita. Dio non è presente dove è assente il cuore. E non ci interessa un divino che non faccia fiorire 1’umano. (Ermes Ronchi, I baci non dati, Paoline 2007)

    • Di chi è il copyright della bellezza? 

    • Siamo nel tempo dove apparenza ed edonismo la fanno da padrone: chi ci può aiutare a smascherare questo inganno e scoprire il vuoto che essi propagandano come bellezza?
    • Perché dunque c’è uno stretto legame tra vita, amore, bellezza?

    4. Finalmente... Dostoevskij

    Dopo tanto parlarne, arriviamo al brano in cui è inserita quella celeberrima frase, e proponiamo un’analisi critico-letteraria. Anche da un’analisi più corretta della letteratura cogliamo a fondo il pensiero dello scrittore e capiamo in quale senso e per quale ragione tale «intuizione» folgorante è stata posta.

    Ippolit, che verso la fine della dissertazione di Lebedev si era addormentato sul divano, si destò tutt’a un tratto, come se qualcuno lo avesse urtato nel fianco; ebbe un sussulto, si guardò intorno e impallidì. Volgeva gli occhi in giro come spaurito, ma sul viso gli si dipinse quasi il terrore, quando ricordò e capì ogni cosa. […] – E voi, mentre dormivo, mi avete contato i minuti, Evgenij Pavlyc, – riprese in tono beffardo: – per tutta la sera non vi siete staccato da me, l’ho veduto... Ah, Rogozin! L’ho sognato or ora, – bisbigliò al principe accigliandosi e indicando col capo Rogozin seduto presso la tavola. – Ah, si! Il più bello dei mari è quello che non navigammo. Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto. I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti. E quello che vorrei dirti di più bello non te l’ho ancora detto. (Nazim Hikmet) – soggiunse saltando ad altro argomento: – dov’è l’oratore? dov’è Lebedev? Lebedev ha dunque finito? Di che ha parlato? È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la « bellezza «? Signori, – gridò forte a tutti, – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza. E io affermo che questi giocosi pensieri gli vengono in mente perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; poco fa, appena è entrato, me ne sono convinto. Non arrossite, principe, se no mi farete pena. Quale bellezza salverà il mondo? Me l’ha riferito Kolja... Voi siete un cristiano zelante? Kolja dice che vi qualificate cristiano. Il principe lo considerava attentamente e non gli rispose. (L’idiota, parte III, cap. V)

    – Alcune note degne di osservazione. L’originale russo inverte oggetto e soggetto (= anafrase), ponendo l’accento sul mondo e non sulla bellezza: «Il mondo salverà la bellezza» (nel senso: Il mondo sarà salvato dalla bellezza). La bellezza è e rimane un enigma. È fragile, solamente consolatoria, nel caos del mondo si sfalda. Necessita di una redenzione (che poi sarà esplicitata in una visione iconografica dalla bellezza che è Cristo, luce incarnata senza macchia: la bellezza come bontà assoluta, appunto come innocenza). In questo senso la bellezza ha lo scopo di un richiamo, di una evocazione, dell’indicazione di una distanza che travalica il mondo. Così commenta Evdokimov: «La Bellezza è un enigma, e se è vero che la bellezza salverà il mondo, Ippòlit chiede di precisare ‘quale bellezza’. La bellezza, nel mondo, ha il suo doppio. Anche i nichilisti amano la bellezza... come pure l’assassino Pëtr Verchovenskij». E lo stesso Dostoevskij nei successivi I Fratelli Karamazov avrebbe addirittura fatto dire a Mitja: «La bellezza è una cosa tremenda e orribile. Non riesco a sopportare che un uomo dal cuore nobile e dall’ingegno elevato cominci con l’ideale della Madonna per finire con quello di Sodoma. Ma la cosa più terribile è che, portando nel suo cuore l’ideale di Sodoma, non rifiuti nemmeno quello della Madonna... Il cuore trova bellezza perfino nella vergogna, nell’ideale di Sodoma che è quello della maggior parte degli uomini». Viene alla luce, dice Evdokimov, il carattere profondamente ambiguo della bellezza capace di salvare ma anche di ingannare: «La Bellezza ha in se stessa una potenza salvatrice, oppure anche la Bellezza, divenuta ambigua, ha bisogno di essere salvata e protetta?». (cf un articolo di Andrea Oppo, docente di Estetica ed Ermeneutica filosofica alla Facoltà teologica della Sardegna: https://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_1/20.htm)

    – Su questo brano e sul pensiero di Dostoevskij è preferibile lasciare alla discussione libera: tante sono le cose implicate che è meglio non imbrigliare fin dall’inizio in qualche troppo precisa domanda o area di ricerca. Basterebbe anche solo lasciare la domanda: «Quale mondo salverà la bellezza» o «Quale bellezza salverà il mondo»? In maniera ancora più radicale: «Quando la bellezza è quel dono, quella grazia che salva il mondo (e noi)?».

    5. L’angolo della poesia

    Il più bello dei mari

    Il più bello dei mari
    è quello che non navigammo.
    Il più bello dei nostri figli
    non è ancora cresciuto.
    I più belli dei nostri giorni
    non li abbiamo ancora vissuti.
    E quello
    che vorrei dirti di più bello
    non te l’ho ancora detto. (Nazim Hikmet)

    • La bellezza dell’«adesso, ma non ancora», ci offre effettivamente uno strumento utile e necessario per affrontare «il mestiere di vivere, dramma e affascinante e serissimo»?

    E ancora Emily Dickinson (J1247 [1873] – F1353 [1875])To pile like Thunder to it's close

    Then crumble grand away
    While everything created hid
    This – would be Poetry –
    Or Love – the two coeval come
    – We both and neither prove –
    Experience either and consume –
    For none see God and live –

    Accumulare come Tuono alla sua chiusa
    Poi un grandioso sgretolarsi
    Mentre ogni cosa creata si nasconde
    Questo – sarebbe Poesia –
    O Amore – I due coevi giungono –
    Noi ambedue e nessuno proviamo –
    Sperimentiamo entrambi e ci consumiamo –
    Perché nessuno vede Dio e vive –

    Poesia e amore diventano due grandiosi poli vitali, con una potenza distruttiva, paurosa e affascinante allo stesso tempo, che li rende degni di essere vissuti. L’unione che li tiene saldamenti uniti è più volte reiterata fino a farli diventare come un’immagine concreta e sperimentabile del mistero di Dio, col quale condividono la grandezza che consuma e non lascia spazio per esperienze ulteriori.

    6. Un approccio dall’arte

    estasi Bern
    L’estasi di Santa Teresa Gianlorenzo Bernini, (1647-1652), marmo e bronzo dorato, h cm 350, Roma, Santa Maria della Vittoria, Cappella Cornaro.

    La bellezza come testimonial di Dio. Non è in una Venere nudamente pudica. Non è d’una ingenua e delicata ragazzina nel fiore degli anni. È, espressa al massimo grado, in una santa. Per giunta, quasi completamente coperta. Eppure tanto bella e trasgressiva da risultare a qualsiasi spettatore estremamente scandalosa, a tal punto di meritare l’esilio dalla Basilica di San Pietro, nella quale era originariamente collocata. Bernini (Napoli 1598 – Roma 1680) esegue una perfetta rappresentazione delle parole pronunciate da Teresa stessa: «Un giorno mi apparve un angelo bello oltre ogni misura. Vidi nella sua mano una lunga lancia alla cui estremità sembrava esserci una punta di fuoco. Questa parve colpirmi più volte nel cuore, tanto da penetrare dentro di me. II dolore era così reale che gemetti più volte ad alta voce, però era tanto dolce che non potevo desiderare di esserne liberata ». Sembra quasi di leggere nelle parole della santa e nell’immagine dell’artista il Cantico dei Cantici: «Alla sua ombra, cui anelavo, mi siedo e dolce è il suo frutto al mio palato. […] io sono malata d’amore. La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia. Io vi scongiuro, […] non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché essa non lo voglia ». Bernini si è spesso cimentato nel tema dell’estasi con lo scopo di coinvolgervi lo spettatore e in questo gruppo scultoreo ciò appare particolarmente evidente. Ci si chiede se questa istintiva empatia sia data maggiormente dalla teatralità beniniana, dalla sensuale tridimensionalità della scena o dalla calda luce divina che avvolgente delinea ogni piega marmorea. Eppure, più ancora di tutti questi dettagli tecnici e artisticamente rilevanti, a stupire è l’effetto emozionale della bellezza che corre sulla pelle candida della santa. La sua espressione estatica e abbandonata si caratTo pile like Thunder to it's close Then crumble grand away While everything created hid This – would be Poetry – Or Love – the two coeval come – We both and neither prove – Experience either and consume – For none see God and live – Accumulare come Tuono alla sua chiusa Poi un grandioso sgretolarsi Mentre ogni cosa creata si nasconde Questo – sarebbe Poesia – O Amore – I due coevi giungono – Noi ambedue e nessuno proviamo – Sperimentiamo entrambi e ci consumiamo – Perché nessuno vede Dio e vive – terizza con delicatezza e purezza muliebre, eppure anche come la più reale e concreta carnalità erotica. Inoltre, la bellezza nel gruppo scultoreo non è evocata solo dalle fattezze di Teresa, ma anche alla sua posa, come sciolta in un abbraccio invisibile: la sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia. È una bellezza incondizionata, senza difese, quella di Teresa. È una bellezza forte ma ricca di attenzione quella che muove lo sguardo e il braccio dell’angelo. È una bellezza solenne e potente, quella dei raggi divini che sembrano ferire la scena molto più della punta del dardo dorato. È un’armonia generale quella in cui pittura, architettura e scultura si fondono con un effetto di spettacolare complementarietà tra palpabile e trascendente. Proprio in quest’ultima dimensione si colloca la Bellezza, che spesso, come in questa composizione, ammalia a partire dal visibile per trasportare verso luoghi che appartengono alla mente e più in profondità, all’anima. Il climax emozionale con cui Bernini ci ammalia ha procedimento diametralmente opposto a quello che Santa Teresa sperimenta. Da sindrome di Stendhal.
    • Sono capace di dedicare anche solo poco tempo alla ricerca del bello in chi mi sta accanto e in ciò che vedo ogni giorno? E della bellezza della mia anima ho abbastanza cura? Che evidenza lascia il Creatore nella mia figura, nella mia vita?
    • Cosa provo per la bellezza che il mondo mi mostra? Speranza? Superficialità? Invidia? Indifferenza? Gratitudine? Gioia? Turbamento? Scandalo? Provo rileggere le mie emozioni in preghiera.

    7. Comprendere la bellezza, insegnare la bellezza, formare alla bellezza

    Non ci vuole niente a distruggere la bellezza… E allora, invece che la coscienza politica e la lotta di classe e tutte ‘ste fesserie, bisognerebbe ricordare alla gente cos’è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. È importante la bellezza, da quella scende giù tutto il resto. «Che ti sei innamorato pure tu?» (dal Film Cento passi, Peppino Impastato). Indichiamo lo spezzone del film, che è possibile vedere su youtube. https://www.youtube.com/watch?v=b5cZlvjssNI

    Apprendere, gustare, difendere la bellezza è dunque un compito politico… più che politico, di vita…
    • Cosa vuol dire nel proprio ambiente? Qui si parla di città, di casa, di strade e piazze, di natura…
    • Cosa vuol dire nella propria vita?
    • Da dove cominciare per riconoscere, capire e gustare la bellezza? Quali percorsi ed esperienze? Come si possono comprendere meglio ora le indicazioni dell’Autore? Eccole di nuovo: «Una realtà tanto seria non può essere accostata fuori da una esigente formazione. La formazione alla bellezza è formazione alla forza della relazione, ma è anche formazione alla gratuità del suo accendersi, e alla fecondità della sua riuscita, che nutre e affama, pacifica e converte. Solo la disaffezione all’ottusità del calcolo e la liberazione dall’asfissia dell’apparenza permetteranno all’uomo di prendere atto delle promesse mancate di una cultura del dominio e della seduzione».

    8. La «via pulchritudinis»

    La via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: «Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell’acqua, che camminano sulla terra, che volano nell’aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?» (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134). Cari fratelli e sorelle, ci aiuti il Signore a riscoprire la via della bellezza come uno degli itinerari, forse il più attraente ed affascinante, per giungere ad incontrare ed amare Dio. (Benedetto XVI, Udienza generale, 17 novembre 2009)

    Ecco, dunque: la via della bellezza come itinerario verso Dio. Utilizzando le riflessioni dell’articolo e un po’ del lavoro comune svolto con le attività e le riflessioni proposte, è possibile tracciare (e poi valutare) i passi di questo itinerario? È qui alla fine il punto chiave, senza del quale si è fatto solamente qualche esercizio critico e letterario. «Sempre misteriosamente incompiuta, la bellezza annuncia comunque un compimento del mondo solo anticipato, ma proprio grazie a lei credibile. La bellezza riflette così l’integrità delle cose: intrecciandovi la memoria di un’origine buona alla premessa di un destino felice. Questo intreccio fa di ogni rivelazione della bellezza, nella natura come nell’essere e nel fare dell’uomo, una credibile testimonianza di Dio». Memoria e premessa, dunque anche «promessa». I passi suggeriti al «dunque» nel paragrafo finale dell’articolo aiutano a costruire questo possibile affascinante e oggi necessario cammino… Per riscattare la vita, per ritrovare armonia, per rinnovare l’amore, per incontrare Dio nella vita e come ragione e dono della vita.

    9. Gesù, il «Bello»

    L’idea principale del romanzo [L’Idiota] è raffigurare un uomo positivamente bello. Non c’è nulla al mondo di più difficile di questo, soprattutto oggi. Tutti gli scrittori, non soltanto i nostri, ma anche tutti quelli europei che hanno pensato di raffigurare un uomo positivamente bello, si sono sempre dati per vinti. Perché si tratta di un compito sconfinato. Il bello è l’ideale, e l’ideale sia quello nostro che quello della civilizzata Europa, è ancora lungi dall’essersi elaborato. Al mondo c’è una sola persona positivamente bella: Cristo, sì che l’apparizione di questa persona sconfinatamente, infinitamente bella è, naturalmente, già un miracolo infinito. (Fëdor Dostoevskij)

    • Una categoria inusuale per guardare Gesù, l’Uomo-Dio. Non certo in senso estetico. Per quale ragione dunque? Si può richiamare qui la teologia orientale che elabora il tema della bellezza come categoria chiave per comprendere il cristianesimo.
    • In Isaia si anticipa la «bruttezza» dell’uomo dei dolori, che la lettura credente ha applicato al Gesù della croce. Anche la «bruttezza» può salvare il mondo? Che rapporto c’è o puoi rintracciare tra bruttezza e bellezza? Non lasciano essi dunque trasparire che alle base di entrambi c’è qualcosa, che è davvero salvatrice? Dostoevskij ne dà alcune tracce…
    • La «bellezza» della risurrezione, della vita nuova, dello Spirito…

    10. Bellezza, il nome di Dio

    Tardi Ti amai,
    o bellezza tanto antica e così nuova,
    tardi io Ti amai.
    Ed ecco che Tu eri dentro ed io fuori e lì
    Ti cercavo, gettandomi, brutto,
    su queste cose belle fatte da Te.
    Tu eri con me,
    ma io non ero con Te:
    mi tenevano lontano le creature,
    che, se non fossero in Te, non sarebbero.
    Tu mi hai chiamato,
    hai gridato, hai vinta la mia sordità.
    Tu hai balenato, hai sfolgorato,
    hai dissipata la mia cecità.
    Tu hai sparso il tuo profumo,
    io l’ho respirato e ora anelo a Te.
    Ti ho gustato e ora ho fame e sete.
    Mi hai toccato e ardo dal desiderio
    della tua pace
    (S. Agostino, Confessioni X, 27.36)

    11. E allora, quale la tua risposta convinta e convincente alla domanda di partenza: Perché Dio continua a trovare nel cosmo e nel cuore dell’uomo ostinati testimonials?

    Per continuare (o materiali da sfruttare)…

    Film (schede film scaricabili da www.acec.it)
    • IL TORMENTO E L’ESTASI, di Carol Reed, Gran Bretagna 1965, Twenty Century Fox.
    • MICROCOSMOS. IL POPOLO DELL’ERBA, di Marie Perennou, USA, 1996, Miramax.
    • LA VITA È BELLA, di Roberto Benigni, Italia, 1998, Cecchi Gori.
    • ROSSO COME IL CIELO, di Cristiano Bortone, Italia, 2005, Lady Film.

    Libri
    • I. Stone, Il tormento e l’estasi, Corbaccio 2003.
    • I. Stone, Brama di vivere, Tea 2006.
    • AA.VV., La bellezza salverà il mondo? Artisti, impenditori e scienziati raccontano la bellezza, Marietti 2007.
    • C.M. Martini, Quale bellezza salverà il mondo? Lettera pastorale 1999-2000, Centro Ambrosiano 1999.
    • V. Salvoldi, La bellezza salva il mondo, Messaggero 2009
    • A. Grün, Ascolta, e la tua anima vivrà. La forza spirituale della musica, Queriniana 2009.
    • M. de Carvalho, Passeggia. Un Dio nella brezza della sera, Instar Libri 2005.
    • E. Ronchi, Tu sei bellezza, Paoline 2008.
    • F. Caroli, Il volto e l’anima della natura, Mondadori 2009.
    • U. Eco (a cura di), Storia della bellezza, Bompiani, 2004.
    • P. Spoladore, Il bel pastore. Riflessioni sul vangelo, Usiogope, 2008.
    • P. Coelho, Brida, Bompiani, 2008.
    • F. Volo, È una vita che ti aspetto, Mondadori, 2004.

    Per i lettori più impegnati:
    • Loredano Matteo Lorenzetti, L’anima della bellezza, Franco Angeli, 2009.
    • Marisa Musaio, Pedagogia del bello, Franco Angeli, 2007
    • Giovanni Reale, Saggezza antica, Raffaello Cortina, 1995 (soprattutto il cap. 6: «Smarrimento del senso della forma»).
    • Hans Küng, Arte e problema del senso, Queriniana 1988.
    • Marisa Musaio, gli articoli della rubrica «Educare al, bello», in NPG 2009.
    • Maria Scalisi, gli articoli della rubrica «Discepoli della Bellezza», in NPG 2010, a partire da questo stesso numero. Per non citare Von Balthasar…

    Musica
    • F. Battiato, LA CURA, Universal, 2000.
    • G. Nannini, MERAVIGLIOSA CREATURA, Ricordi, 1995.
    • L. Jova Cherubini, BELLA, Mercury, 1997.

    Il paradosso del Bello

    In fase avanzata di bozze, termina il Convegno internazionale «Dire Dio. Con lui o senza lui cambia tutto» (Roma, 10-12 dicembre 2009). Una sessione era intitolata: «Il Dio della cultura e della bellezza» e ha visto un interessante dialogo – moderato dal rettore dell’Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi – tra Mons. Ravasi, biblista e presidente del Pontificio Consiglio della cultura, e Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani. Riportiamo qui, nella sintesi dell’inviato di Avvenire (Mimmo Muolo, 12 dicembre 2009). Oltre che a nuovi spunti di riflessione (già presenti nelle schede), vengono sollevati nuovi interrogativi e indicate piste interessanti per il nostro discorso. Essi servono a completare, ad arricchire, a precisare quanto offerto precedentemente.

    Dio è brutto o è bello? Se la domanda non fosse posta da un famoso biblista, oltre che da un fine esteta, come monsignor Gianfranco Ravasi, probabilmente potrebbe essere considerata persino blasfema. L’argomento è affascinante e impegnativo sulla «presenza di Dio nell’arte figurativa di ieri e di oggi». E il discorso inevitabilmente spazia dal divieto di raffigurazione della divinità in ambito ebraico alla ‘liberalizzazione’ operata in questo campo dal cristianesimo (pur con i rigurgiti, per fortuna superati, dell’iconoclastia), fino a giungere al nostro tempo, caratterizzato (come fa notare Paolucci) da «una deriva ipericonica e ipercolorata» («quasi tutto è immagine, mentre l’arte si è ritirata su posizioni irrazionali o trasgressive»), ma al tempo stesso incapace di esprimere e trasmettere significati. Dio, quindi, ha ancora diritto di cittadinanza nella rappresentazione artistica? E quale Dio? Quello bello e trionfante della risurrezione o quello «sgraziato» e sofferente della morte in croce? I due esperti incrociano le proprie riflessioni, alternando parole e immagini, concetti ed esemplificazioni. Ravasi, ad esempio, propone tre percorsi analogici di rappresentabilità di Dio. Primo, «la via figurativa», secondo cui «le creature sono assunte come modello estetico» , «il creato è la pergamena su cui Dio ha scritto» e «l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio è, la sua «icona privilegiata», anche se «non perfetta e assoluta». Secondo, la «via antropomorfica», poiché nella Bibbia si parla del volto e della bocca di Dio, del suo braccio, del suo cuore e «persino del suo naso che sbuffa nell’ira». Terzo, la «rivelazione di Dio nel Volto di Cristo, icona perfetta». Ed è proprio in questo campo che l’arte cristiana ha dato i suoi frutti più belli. Paolucci, infatti, traduce in immagini quello che Ravasi aveva espresso a parole. Ecco Caravaggio e la sua Deposizione dalla croce. E se – come il biblista aveva sottolineato poco prima – «la fisionomia di Dio ha una figurazione diretta ed esplicita nel volto di Cristo», il genio pittorico di Michelangelo Merisi lo imprime in tanti particolari. Ad esempio l’angolo della pietra su cui sta per essere deposto Gesù. «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo. Ed è su quella pietra – spiega lo storico dell’arte – che si poggia la salvezza dei personaggi della tela e di tutti noi. Pensate dunque – aggiunge Paolucci – quale effetto aveva questo dipinto quando si trovava nella Chiesa Nuova a Roma (ora è nella Pinacoteca Vaticana) e i fedeli lo guardavano cogliendone i vari significati». Oggi, invece, l’arte ha smarrito quasi completamente questa funzione. Ma per i due relatori è importante ritrovarla. Monsignor Ravasi: «Arte, come sosteneva il filosofo Hesse, significa ‘in ogni cosa vedere Dio’» . E Paolucci risponde con una descrizione dettagliata delle Stanze di Raffaello. «Questi affreschi commissionati da Giulio II al venticinquenne pittore urbinate non sono solo capolavori immortali, ma intendono trasmettere una vera e propria antropologia». Così «La scuola di Atene ci ricorda che l’uomo è nato per conoscere e che la conoscenza, più che un privilegio, è per noi un dovere». La disputa del Sacramento affianca alla conoscenza la Rivelazione divina e l’intero affresco appare, secondo Paolucci, quasi «un mirabile insieme di teologia ratzingeriana». Infine gli affreschi che si riferiscono alla legge e all’arte introducono altri «due essenziali elementi del mondo umano». L’arte, in particolare, viene denominata come numine afflato, cioè «come il soffio di Dio – conclude Paolucci – come la sua ombra sulla terra». Ed ecco perché, nel rispondere alla domanda iniziale, Ravasi, capovolgendo il celebre e citatissimo asserto di Dostoevskij, ricorda che «l’immagine di Dio può comprendere la bruttezza che può salvare il mondo». La logica dell’Incarnazione «comprende, infatti, la sofferenza di Dio, il corpo martoriato del Crocifisso». E anche quando il Cristo è raffigurato come il Pantokrator, cioè come il Cristo trionfante e glorioso nelle absidi delle grandi basiliche antiche, anche in questo caso «reca ben visibili in sé ancora tutte le stimmate sanguinanti della sua passione. Dio invisibile e visibile, trascendente e vicino, glorioso e sofferente». Dunque l’arte, «quando si fa religiosa, deve sempre unire in modo armonico l’Infinito e la carne, l’Eterno e la storia, il Figlio di Dio che è Gesù di Nazaret». È lui, infatti, il vero volto del Padre ed è anche la radice di quella «cultura dei cattolici – che come dice Ornaghi, chiudendo il dialogo – è ancora viva e vitale e chiede di essere trasmessa agli uomini di oggi»


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