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    a cura di Giancarlo De Nicolò 

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    2. Punti irrinunciabili per la pastorale giovanile

    Domanda. Quali i punti fondamentali e determinanti del suo pensiero, e quelli che ritiene irrinunciabili per una corretta pastorale giovanile?

    Risposta. Ho ricordato, a pennellate rapide, qualche tratto del cammino di riflessione.
    Tra le righe è facile intravedere alcuni punti decisivi del progetto di pastorale giovanile. Sono contento però di evidenziare l’implicito e di sviluppare l’accennato.
    Una premessa è d’obbligo. All’inizio, come già ho ricordato, erano molto più chiari i problemi e le sfide delle prospettive di soluzioni in cui impegnarsi. Un po’ alla volta però, nel confronto e nello scontro, hanno preso finalmente consistenza alcune delle scelte fondamentali per un progetto di pastorale giovanile.
    Provo a dire qualcosa. Se dovessi approfondire e motivare le affermazioni, dovrei scrivere un libro. Ma non è questo il contesto per farlo.
    Parto da una convinzione che si è progressivamente consolidata: il centro del progetto di pastorale giovanile può essere espresso come un progetto di spiritualità, capace di unificare tutta l’esistenza cristiana, riconciliando pienamente l’amore alla vita, la fedeltà alla Chiesa, la decisione di fare di Gesù il Signore della nostra esistenza.
    Potrebbe sembrare inusuale raccogliere il progetto di pastorale giovanile attorno ad un progetto di spiritualità. Anch’io e gli amici con cui in quegli anni ho lavorato, avevamo all’inizio valutato cosa abbastanza strana concentrare le nostre attenzioni attorno ad una proposta di spiritualità. Di solito, quando si parla di spiritualità, si pensa a qualcosa che si aggiunge alla vita quotidiana, spesso riservato soltanto a coloro che hanno deciso di vivere la propria esistenza quotidiana in uno stile tutto speciale. Lo sapevamo, e abbiamo fatto la scelta proprio per evitare che spiritualità si riducesse a questa visione parziale. Volevamo riconquistare il termine «spiritualità» come qualità di tutta l’esistenza cristiana.
    Spiritualità vuol dire, infatti, vita quotidiana vissuta, in modo progressivamente consapevole, nello Spirito di Gesù. Mettendo al centro la spiritualità volevamo mettere veramente al centro la nostra vita, accolta con amore e con responsabilità, e il progetto di Gesù su questa nostra vita. È possibile, infatti, risolvere gli inquietanti interrogativi che attraversano l’esistenza quotidiana, solo nel coraggio di confrontarci con la proposta del Vangelo in un incontro personale con Gesù.

    ATTORNO AL PROGETTO DI SPIRITUALITÀ

    Attorno al tema della spiritualità si sono concentrate tantissime novità che hanno progressivamente segnato il progetto di pastorale giovanile. Sentivo il bisogno urgente di riconciliare nell’esperienza della vita quotidiana quell’amore alla vita che il Concilio aveva riconsegnato ai discepoli di Gesù come dimensione irrinunciabile, e tutto quello che i nostri fratelli hanno vissuto prima di noi, con un coraggio e con una intensità di fronte alla quale siamo costretti a rimanere in contemplazione. Mi sembrava un doveroso gesto di amore riconoscente ritrovare questa dolce compagnia, superando e interpretando le stesse scelte, da essi progettate proprio per fuggire la vita quotidiana, o almeno per controllarla.
    In questo progetto abbiamo utilizzato un’espressione che all’inizio ha suscitato tante perplessità: amore alla vita. Ci siamo consolati citando spesso espressioni di Gesù. E proprio nel confronto con il Vangelo abbiamo scoperto che l’amore alla vita non può essere mai vissuto come qualcosa di autoreferenziale, giocato contro la responsabilità e contro il futuro, mettendo il proprio egoismo al centro. Volevamo ritrovare in concreto la possibilità di amare la nostra vita quotidiana come Gesù ha amato la vita di tutti e come Gesù ci chiede di essere capaci di amarla.
    Ne è nato un progetto di spiritualità giovanile che ha suscitato molto entusiasmo nelle persone, nei giovani soprattutto con cui l’abbiamo condiviso. In questa ricerca ci siamo lasciati decisamente ispirare dalla tradizione salesiana, che ci riportava a Don Bosco e alla sua prassi, liberandoci da una serie di sovrastrutture legate ai modelli teologici e antropologici dominanti.

    D. È interessante e certamente originale il tentativo di organizzare il progetto di pastorale giovanile attorno ad un modello di spiritualità. Ci piacerebbe approfondire la proposta, attraverso l’indicazione degli elementi più caratterizzanti. Quali sono i riferimenti fondamentali di questo progetto di spiritualità, abbastanza diverso da quelli tradizionali?

    R. Il progetto di spiritualità (e, di conseguenza, quello di pastorale giovanile) ha trovato il suo riferimento teologico in Gesù. A partire da questo riferimento sono nate una serie di scelte concrete, a carattere molto operativo. Esse sono quelle che progressivamente hanno riscritto la prassi quotidiana di pastorale giovanile.
    Non posso elencarle tutte. Soprattutto non posso pretendere in questa circostanza di approfondirle tutte, così come progressivamente si sono maturate nella mia riflessione. Mi accontento di fare qualche rapido cenno.

    I riferimenti del progetto

    La prima, grande indicazione, tante volte ripetuta come un ritornello, è l’attenzione alla vita quotidiana, non più come «pericolo» o «problema», ma come autentica «risorsa». I pericoli si evitano e i problemi si affrontano per trovare soluzioni. Le risorse si acquisiscono con gioia e si utilizzano con passione e competenza.
    Il cambio non è solo di parole. Diventa invito ad atteggiamenti rinnovati. L’attenzione alla vita significa fiducia nella vita e, di conseguenza, fiducia nei giovani che la esprimono nel modo più pieno. La fiducia precede il giudizio e, sempre, lo influenza.
    Nel progetto di pastorale giovanile l’amore alla vita ci ha aiutato a scoprire che essa è veramente il «grande sacramento» dell’incontro con Dio. Lo è in Gesù, grazie alla sua umanità: Gesù è il sacramento definitivo dell’incontro personale con Dio. Da questa radicale sacramentalità, nasce e prende consistenza la sacramentalità concentrata nella Chiesa e nei sacramenti della tradizione ecclesiale.
    Ci vuol poco a immaginare l’entusiasmo suscitato da questa prospettiva… e le preoccupazioni reattive che ha scatenato, per tante evidenti ragioni. Non era questione di espressioni ma di sostanza. Un poco di ragione l’avevano certamente coloro che faticavano a trovarsi d’accorso su questa visione, perché, nei primi passi, erano soprattutto… intuizioni poco approfondite e motivate.
    Il confronto ha permesso l’approfondimento. Mi sono progressivamente convinto che «vita» è un termine ambiguo e potrebbe essere pericoloso entusiasmarsi senza uno sforzo sincero di autenticità, anche se è meglio entusiasmarsi per una cosa grande e urgente, invece di tranquillizzarsi nel cercare di chiarire, di distinguere, di precisare, mentre i giovani perdono proprio la vita, anche fisicamente.
    Quando parlo di «vita» nella pastorale giovanile oggi penso a tre dimensioni di una stessa realtà. Vita è prima di tutto quell’esperienza profonda e personale che ci permette di esistere nella gioia, nella libertà, nella responsabilità, nella consapevolezza di essere immersi in una profonda e intensa ragione di senso e di speranza.
    Vita è poi la percezione, riflessa e motivata, di esistere all’interno di condizioni, culturali e strutturali, che permettano questa esperienza.
    Vita infine è affidamento, consapevole e crescente, al mistero che la pervade e che Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio come amore, per essere, in lui, persino signori di quegli eventi contrari alla vita che sono la disperazione e la morte.
    Come si vede, «vita» non è un dato fisico, ma una grande esperienza di speranza, condivisa in solidarietà. Per questo, sta a cuore alla pastorale giovanile e alla spiritualità.
    La vita è, di conseguenza, vita e speranza nello stesso momento. La speranza dà senso anche al grido più inquietante verso la vita che è il dolore e la morte. Non possiamo amare la vita e servirla, ignorando questa dimensione dell’esistenza. Non possiamo camminare in dolce compagnia con tutti e poi dividere le strade… quando la provocazione della morte si fa più inquietante.
    Il Vangelo di Gesù restituisce tutta la vita al suo senso, immergendola nella speranza che fa diventare signore anche del dolore e abilita a «portare» (non «sopportare») anche la morte. Proprio per questa consapevolezza, ho intitolato l’ultima edizione del libro che propone il mio progetto di pastorale giovanile: «per la vita e la speranza».
    La vita cristiana è la vita di tutti… non con una marcia in più, ma con un orizzonte di speranza che costringe a condividere con tutti, sostenendo l’esperienza di tutti.
    C’è quindi una differenza. Non è quella tipica della visione capitalista che mette in fila sul possesso. La differenza, che è qualità della stessa esperienza, diventa responsabilità.
    La seconda indicazione concreta è «la scommessa dell’educazione». Il nostro servizio alla vita consiste nell’educazione, come qualità pervasiva di ogni presenza.
    Mi piace parlare di «scommessa» per ricordare che siamo in un ambito di grande rilevanza ma che, nello stesso tempo, non può essere dimostrato con la stessa fredda oggettività con cui affrontiamo i teoremi di geometria.
    Spesso l’impegno di amare la vita dei giovani è stato ridotto a rassegnarsi a tutto quello che essi sono, desiderano e fanno. E questo ha suscitato, come reazione, la scelta di modelli di relazione in cui prevalgono le proposte forti, il rifiuto dell’esistente, il giudizio severo sui giovani stessi.
    La scelta dell’educazione come espressione concreta del nostro amore alla vita e del nostro servizio alla maturazione della vita dei giovani, è una cosa tutta diversa, da immaginare, sperimentare, realizzare con la fantasia dell’amore nello Spirito di Gesù.
    Si tratta però di metterci d’accordo su cosa significhi educare, dal momento che l’espressione è oggi tanto usata da diventare facilmente equivoca. E l’abbiamo fatto, facendoci aiutare dagli addetti ai lavori, interpellati su questioni precise e concrete.
    Ecco la conclusione a cui è giunta la mia riflessione: educare significa, dalla prospettiva della vita, istituire una relazione attraverso cui soggetti diversi, felici di essere diversi, si scambiano esperienze e ragioni di speranza, per restituirsi reciprocamente quella gioia di vivere, quella libertà di sperare e quella capacità di essere protagonisti della propria esistenza, che molto spesso ci sono violentemente rubate dai modelli culturali dominanti.
    Attraverso l’educazione possiamo immaginare e costruire una qualità nuova di vita, recuperando le dimensioni importanti che la memoria ci consegna, e soprattutto costruendo modalità nuove e coraggiose in una nuova cultura.
    Credo sia una delle esigenze più forti oggi: lo scontro avviene proprio attorno alla qualità della vita. Su questa frontiera decidiamo cosa è felicità e come la possiamo conquistare, il senso delle cose e la solidarietà nella loro distribuzione, la scelta tra rassegnazione o violenza o perdono per assicurare il cambio…

    I sacramenti e la grazia

    D. L’attenzione alla vita e alla sua qualità rappresenta certamente un tema formativo importante. Non ha l’impressione che, accentuandolo troppo, si possa correre il rischio di dimenticare una dimensione centrale nella pastorale ecclesiale: i sacramenti della vita cristiana e la loro forza trasformativa soprannaturale?

    R. Riconosco il rischio. E lo condivido. Spesse volte è stato presentato come una critica seria al progetto di pastorale giovanile.
    Non me la sento però di accettare questi rilievi… come se denunciassero carenze reali. Forse la prospettiva utilizzata per affrontare queste questioni impegnative era diversa da quella tradizionale, e non tutti hanno fatto la fatica di leggere le proposte, accettando il cambio di prospettiva.
    Sono quindi felice dell’occasione che mi è offerta, per ripercorrere qualche tappa del cammino vissuto. Attorno a questo tema posso raccogliere una terza caratteristica (oltre l’amore alla vita e la scommessa sull’educazione) del progetto di pastorale giovanile.
    Nella mia ricerca, l’attenzione è corsa subito, ancora una volta, alla vita quotidiana. Ero – e sono ancora più decisamente – convinto che la sostanza del sacramento sta nella qualità della vita, espressa nelle mille circostanze della quotidianità. Senza amore al perdono, capacità di riconciliazione, disponibilità al servizio, scelta profonda di servire la vita condividendo la propria e, soprattutto, riconoscimento consapevole e maturo del mistero di Dio che la riempie, i sacramenti rischiano di essere celebrazioni vuote, tra il formale e il magico. Educare i giovani ad una impegnata vita sacramentale comporta, di conseguenza, un’alta fatica educativa per restituire alla vita quella sua dimensione evangelica che la cultura attuale ci ha fatto smarrire.
    Di sicuro non tutto si può ridurre a questo. Il salto verso il mistero si radica però nello stile di esistenza.
    Su questa radice teologica ho provato a costruire qualche timida indicazione progettuale, pensando soprattutto all’Eucaristia e alla Riconciliazione, dimensioni centrali nella pastorale giovanile.
    I giovani d’oggi, per mille e differenti ragioni, vivono catturati dal presente. Fanno della loro vita un rincorrersi di piccoli frammenti di esistenza che produciamo e ci lasciamo alle spalle. Vissuta così, la nostra vita è muta e senza prospettiva. Ci lascia nel buio di ogni presente perché chi è senza passato si trova, per forza, anche senza futuro.
    L’EucarIstia ci aiuta a riallacciare, sul tempo che vivendo produciamo, il passato al presente e al futuro. Essa è la grande festa cristiana del presente tra passato e futuro, tra memoria e profezia.
    Il passato è rievocato come sorgente e ragione della festa nel presente. Non è il greve condizionamento che pesa sul presente; ma l’avvenimento che gli dà senso e lo riempie di ragioni.
    Viene anche anticipato il futuro. La celebrazione eucaristica è scoperta gratuita ed entusiasta dei segni della novità anche tra le pieghe tristi della necessità del presente. Per questo possiamo vestire nel presente i panni fantasiosi del futuro, senza passare per uomini che fuggono quelle responsabilità cui chiama ogni presente. Essa è quindi una grande esperienza trasformatrice. Aiuta a spezzare le catene del presente, senza fuggirlo. È un piccolo gesto di libertà, che sa giocare con il tempo della necessità e sa anticipare il nuovo sognato: il regno della convivialità, della libertà, della collaborazione, della speranza, della condivisione.
    È importante ricordare che tutto questo non si realizza in un gioco d’intese, di realizzazioni o di compromessi. La sua radice è invece il mistero di Dio, reso presente nella pasqua del Crocefisso risorto.
    Lo stretto collegamento tra celebrazione e vita quotidiana sollecita chi è tentato a leggere la propria esperienza solo dalla prospettiva del suo esito, quando asciugata ogni lacrima vivremo nei cieli nuovi e nella nuova terra, a misurarsi coraggiosamente con i gesti della necessità, nel tempo delle lacrime e della lotta. Nello stesso tempo, immerge nel futuro la nostra piena condivisione al tempo: in quel frammento del nostro tempo che è tutto dalla parte del dono insperato e inatteso. Dalla parte del futuro, il presente ritrova la sua verità, il protagonismo soggettivo accoglie un principio oggettivo di verificazione.
    In questa discesa verso la sua verità, siamo sollecitati a restare uomini della libertà e della festa, anche quando siamo segnati dalla sofferenza, dalla lotta e dalla croce.
    Indicazioni simili le ho maturate pensando al sacramento della riconciliazione.
    Se vogliamo costruire una qualità di vita dove abbia spazio il perdono e la riconciliazione, nella logica evangelica, dovremmo mettere in atto un grande impegno educativo. Si tratta di abilitare a vedere la realtà da una prospettiva diversa, confrontarci con uomini e donne che si pongano significativi nella nostra esistenza sulla loro capacità di assicurare trasformazione attraverso l’incontro e l’abbraccio accogliente. Dovremmo riuscire ad immaginare modelli operativi che assomiglino all’atteggiamento di Gesù nei confronti di Zaccheo: gli restituisce la consapevolezza della sua grande dignità, facendosi invitare alla sua tavola… e così «lo costringe» a cambiare vita in un modo persino esagerato.
    Il sacramento della riconciliazione è in crisi perché è in crisi la «realtà» che il sacramento celebra e porta a pienezza donata. La crisi non riguarda, in altre parole, la celebrazione ma la qualità della vita che dobbiamo celebrare.
    Di conseguenza, sono convinto che la rinascita del sacramento della riconciliazione richiede un lavoro educativo, diffuso e capillare.
    Di scelte caratterizzanti ce ne sono altre. Per ora mi fermo qui. Avrò di sicuro occasione di ricordarle, nel prosieguo dell’intervista.

    L’ASCOLTO DELLA REALTÀ E LA QUESTIONE EPISTEMOLOGICA

    D. Un punto particolarmente caldo di ogni progetto di pastorale giovanile è quello dell’ascolto della realtà e, in concreto, dell’ascolto dei giovani stessi. Il Concilio, soprattutto con Gaudium et spes, ha indicato una prospettiva molto impegnativa… anche se non facile. Nel progetto di pastorale giovanile maturato in questi anni, quali elementi sono valutati caratterizzanti a questo proposito?

    R. Oggi si parla molto di ascolto della realtà come condizione irrinunciabile per ogni progetto di pastorale giovanile. L’esigenza è diventata ormai un riferimento pacifico. Quasi tutti i documenti ecclesiali incominciano con un capitolo in cui si fa una lettura della realtà. Aiuta i discepoli di Gesù a constatare in quale mondo stanno vivendo, quali problemi devono affrontare, quali ricchezze possono scoprire.
    È evidente che anche il progetto di pastorale giovanile che progressivamente sono andato maturando nella mia riflessione, non poteva non affermare la necessità di fare sempre una lettura della realtà, prima di imbarcarsi in proposte.
    La questione spinosa riguardava, allora come oggi, la qualità della lettura, le strumentazioni di cui dovevamo servirci, l’utilizzo di questi dati nei progetti.
    Tutti noi sappiamo con quale strumentazioni, prima del Concilio e negli anni immediatamente successivi, si cercava di cogliere la realtà. Il sistema era abbastanza semplice. Veniva costruita una specie di gerarchia logica delle discipline. Alcune stavano al vertice, con diritti valoriali indiscussi; altre invece svolgevano solo una funzione ancillare.
    Va detto subito che questo modo di fare non era tipico della sola teologia. Altre scienze lo pretendevano per se stesse con la stessa sicurezza. In questo modo, l’utilizzazione delle discipline necessarie per leggere la realtà e per progettare eventuali trasformazioni, procedeva secondo modelli di dipendenza funzionale.
    Questo modello è stato superato dal Concilio che chiude decisamente con l’abitudine di utilizzare, in teologia e in pastorale, le scienze dell’uomo secondo modelli strumentali, perché va riconosciuta la relativa autonomia di ogni scienza.
    L’indicazione del Concilio determina l’ambito e la qualità dell’ascolto della realtà. Purtroppo l’indicazione non è stata accolta in modo pacifico all’interno delle comunità ecclesiali. Non sono mancate le tensioni e le resistenze. Un certo modo di utilizzare le diverse discipline è stato frenato dalla paura di rovinare l’approccio pastorale con indebite contaminazioni antropologiche.
    Va detto: questa paura non era campata per aria.
    L’attenzione alle diverse discipline nella lettura della realtà si è realizzata, all’interno della comunità ecclesiale e nella riflessione delle persone impegnate nella pastorale giovanile, in una stagione in cui era quasi diventato di moda tentare delle letture della realtà in cui il peso delle discipline sociologiche, politiche, psicologiche, diventava prevalente. Spesso la realtà era letta solo a partire da questo sguardo. E così i risultati condizionavano decisamente il progetto di pastorale giovanile.
    Non è possibile immaginare un serio processo di educazione alla fede se il punto di partenza non è rappresentato da «qualcosa» in cui la fede si esprima in tutta la sua forza. Da una lettura soltanto sociologica o politica della realtà diventa molto difficile perciò immaginare i cammini di trasformazione che permettono di raggiungere l’obiettivo fondamentale dell’incontro personale con Gesù, in un chiaro e condiviso processo di maturazione della fede.
    Il confronto con le diverse discipline nell’ambito della pastorale giovanile è stato vissuto, tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ’80, dentro queste tensioni. Quando si cerca di pensare e di progettare senza riuscire a decantare sapientemente i punti di contrasto ma al contrario prevalgono le posizioni più radicali, quelle della paura o quelle di una utilizzazione scorretta, i risultati non sono certamente felici.
    La riflessione sulla pastorale giovanile, in genere, e la mia personale fatica di immaginare linee di azione per il rinnovamento della pastorale giovanile, ha sofferto di queste tensioni.
    Un poco alla volta, le posizioni si sono decantate ed è maturato un modello, serio e interessante, di utilizzo delle diverse discipline nella riflessione nella progettazione pastorale. Questo è stato uno degli ambiti in cui la collaborazione interdisciplinare, nella redazione di «Note di pastorale giovanile» e nella mia ricerca personale, ha offerto frutti maturi.

    Lettura «sociologica», lettura «pastorale»

    D. È chiaro il modello. Ed è utile constatare le difficoltà incontrate nel cammino per maturare questa sensibilità. A questo punto, una domanda è d’obbligo: dove sta allora la differenza tra una lettura sociologica della realtà e una lettura pastorale della stessa realtà?

    R. C’è diversità tra una lettura socioculturale della realtà e una lettura pastorale?
    Quante volte ci siamo posti questa domanda e quante discussioni abbiamo fatto sulle risposte che sono state maturate. L’azione politica e quella educativa hanno come orizzonte la trasformazione del tessuto collettivo, una diversa distribuzione del potere e delle risorse, la maturazione personale e la definizione di un sistema di identità. Tutto questo, evidentemente, ha a che fare con la salvezza di Dio e con la costruzione del suo regno. In primo piano però sta una preoccupazione e una prospettiva che non riguarda la specificità dell’azione pastorale, se non nel rapporto di segno verso la realtà. Collocare qui il compito della pastorale giovanile è operare una scelta decisamente riduttiva.
    La pastorale, infatti, investe in modo tematico la specificità cristiana della vita della storia e cerca una decisione, consapevole e riflessa, verso il coraggio di scegliere Gesù come l’unico signore della nostra vita. Si colloca quindi in un orizzonte che affonda le sue radici nella concretezza della storia quotidiana, ma va oltre: tocca il mistero dell’esistenza personale e collettiva e cerca in modo esplicito l’incontro personale con Gesù nella Chiesa.
    La differenza fra una lettura pastorale e una lettura sociologica si colloca perciò nella sostanza delle cose, e non solo nelle intenzioni di chi fa questa lettura. Questa constatazione sottolinea la funzione speciale della teologia nella lettura e nella progettazione pastorale. Una lettura della realtà che non faccia spazio in modo esplicito e formale alla teologia, non potrà mai essere utilizzata per la costruzione di un progetto di pastorale giovanile.
    Attraverso questo sguardo, che si spinge fino alle soglie del mistero, la pastorale cerca di raggiungere anche la definizione delle «sfide», la ricerca cioè delle preoccupazioni prioritarie e specifiche.
    Sfida significa una interpretazione riflessa del vissuto culturale attuale per cogliere i segni di novità presenti e quei dati di fatto che provocano il progetto di esistenza diffuso e generalmente consolidato. La «sfida» è, di conseguenza, un contributo e una provocazione: una provocazione che regala contributi preziosi, proprio mentre sollecita ad intervenire coraggiosamente.
    Gli stessi dati parlano secondo modalità diverse a partire dall’intenzionalità di chi li recensisce o li utilizza. La sua soggettività e il progetto per la cui realizzazione è impegnato, sollecitano a percepire, in modo inedito, problemi (attese che gli vanno deluse) e germi di novità che sfuggono totalmente a partire da altre intenzionalità.
    La pastorale di solito utilizza tranquillamente il materiale prodotto a partire da altre preoccupazioni, consapevole che tutta la complessa vicenda dell’uomo rientra nell’angolo di prospettiva dell’educazione alla fede.
    Su questo materiale comune lancia uno sguardo, penetrante e specifico.
    Questo è il punto a cui è giunta la mia riflessione in ordine alla pastorale giovanile. Esso giustifica da una parte l’importanza di un ascolto della realtà attraverso l’utilizzazione delle discipline competenti, ma assicura dall’altra la qualità di un ascolto che permetta davvero di dire qualcosa di consistente per chi ha intenzione di fare progetti di pastorale giovanile.

    Il senso della questione «epistemologica»

    D. Le cose dette fanno intravvedere che a monte di ogni buon progetto di pastorale sta una «questione epistemologica». È d’accordo con la constatazione? Come la vede urgente e risolvibile? Nel cammino percorso in questi anni sono emersi contributi interessanti al riguardo?

    R. La questione epistemologica è certamente una di quelle più scottanti per tutti coloro che non si accontentano di fare qualcosa di buono, ma cercano di capire come e perché agire.
    Essa riguarda soprattutto il livello di lettura della realtà. Ma non solo questo. Anche nella elaborazione dei progetti entrano in gioco differenti discipline, e la teologia è impegnata a dialogare con scienze che hanno statuti formali molto diversi dai suoi. Per questo, non si può fare un buon progetto di pastorale («buono» nel senso di autentico e corretto), senza affrontare almeno implicitamente la questione epistemologica.
    Me la sono posta tante volte, nel lungo cammino di questi anni di riflessione e di progettazione. Alle prime intuizioni si sono succedute gli approfondimenti e il tentativo di mettere sulla carta le conclusioni. Oggi posso produrre una letteratura di supporto non indifferente.
    Incomincio con la chiarificazione dei termini e poi entro nel merito, indicando la prospettiva in cui mi riconosco.
    La questione epistemologica riguarda le procedure logiche attraverso cui le diverse discipline comprendono e assolvono i loro compiti. Siccome ci stiamo interessando di pastorale giovanile, mi preoccupo di affrontare due questioni, molto connesse: la natura della pastorale giovanile nel confronto con le altre discipline (teologiche e antropologiche) che si interessano di temi simili, e la metodologia scientifica che essa utilizza per costruire progetti operativi.
    La pastorale giovanile, in quanto educazione alla fede, non coincide con nessun processo educativo: non è riducibile ad esso, né può essere elaborata solo a partire da indicazioni di ordine metodologico e pedagogico. Essa riconosce che ogni persona con cui dialoga è spontaneamente aperta verso il mistero di Dio, perché è già avvolta dal suo amore che chiama e salva. Sa di possedere mezzi educativi (la parola, i sacramenti, l’esperienza salvifica della comunità), la cui efficacia sfugge alla misurazione delle scienze umane. Impegna tutte le sue risorse, in modo esplicito, al servizio di questo orientamento trascendente.
    Eppure, la pastorale è consapevole che questa responsabilità originale non la sottrae affatto ai compiti e alle logiche comuni ad ogni processo educativo. La costruzione di una maturità di fede e l’utilizzazione di strumenti in cui operare la salvezza costringono, infatti, chi fa azione pastorale a misurarsi con processi e dinamiche, segnate da una chiara autonomia educativa. La pastorale giovanile s’interroga sul tipo d’uomo verso cui orientare il suo servizio; e in questo si scontra con l’antropologia che offre una rassegna di progetti d’uomo, elaborati nell’ambito culturale di sua competenza. Essa inoltre non è l’unica agenzia educativa, né tanto meno è quella dotata di maggiore influsso. Esistono altre proposte (scuola, famiglia, società complessiva, mezzi di comunicazione sociale, subculture giovanili e ideologiche...) che emettono in continuazione valori e modelli di comportamento.
    Anche nell’esercizio specifico della sua funzione, sceglie e utilizza metodi, modelli, strumentazioni non direttamente deducibili dalla fede, ma di natura educativa e culturale. Con buona pace di ogni fondamentalismo religioso, lo sono sempre anche gli eventi radicali della vita cristiana: Bibbia, Liturgia, Sacramenti. Essa dialoga, per necessità di cose, con le varie metodologie pedagogiche, sapendo con certezza che nessun orientamento, neppure il più tecnico, è neutrale rispetto all’educazione alla fede.
    L’abbiamo fatto in questi anni, cercando spassionatamente un dialogo con tutti coloro che potevano offrirci contributi interessanti da qualche punto di prospettiva. Il dialogo è stato privilegiato, per evidenti ragioni, con coloro che si interessano esplicitamente di educazione (per riconoscere i processi e le condizioni di maturazione delle persone) e con tutto il mondo della teologia (per penetrare un poco meglio i temi della fede).
    Attraverso questi molteplici e differenti contributi abbiamo cercato di leggere un poco meglio la realtà, di cogliere, in modo complessivo, le attese giovanili, le convergenze e le divergenze, i condizionamenti legati al peccato personale e strutturale.
    Il dialogo non è stato facile… anche perché la tentazione di non aver bisogno di confronti e di ascolti ritorna spesso in chi è abituato a risolvere da solo tutti i problemi.
    Un’altra cosa va aggiunta, per precisare meglio la questione epistemologica.
    Il compito che la pastorale giovanile vuole affrontare è complesso e articolato, come appare dalle riflessioni appena suggerite. Ma è però profondamente unitario.
    La molteplicità delle discipline va quindi risolta in un dialogo e in un confronto attorno all’unico problema. Diventa interdisciplinarità: collaborazione fra specialisti di ambiti disciplinari, che interagiscono fra loro anche nella metodologia e nella strutturazione concettuale.
    L’impresa è difficile.
    La teologia pretende di dire l’ultima parola nel nome del mistero che interpreta. Essa gioca tutte le sue risorse su strumentazioni speciali, che attingono direttamente al mistero di Dio e dell’uomo. Ma questo non è praticabile, quando ci si muove sul terreno concreto, delle scelte e delle progettazioni. Anche in questo caso la «parola» eterna si fa parola d’uomo, e si misura con le logiche povere e incerte di ogni parola umana.
    La stessa tentazione l’hanno le scienze dell’educazione. La voglia di risolvere le questioni «dai tetti in giù» (come loro compete), si scontra con il compito della pastorale giovanile che guarda tutto l’uomo, nella sua complessità indisponibile.
    Ma le difficoltà non finiscono qui.
    La pastorale giovanile definisce il suo statuto scientifico nel confronto interdisciplinare, realizzato dalla prospettiva della fede e nel tentativo di superare persino la pluralità di approcci in un unico processo in cui discipline epistemologicamente distinte si unificano creativamente in una sintesi nuova rispetto ai contributi che l’hanno costruita. Essa, dunque, pur essendo come un nome collettivo di una pluralità di scienze, è «scienza» e «arte» autonoma, perché antropologia, scienze dell’educazione, della comunicazione e teologia dialogano attorno all’unico problema in modo interdisciplinare fino al punto da costituire, soprattutto nel momento dell’azione pastorale e della sua progettazione e verifica, un evento transdisciplinare.

    D. Detto così… sembra un problema teorico, troppo specialistico per chi è costretto a misurarsi ogni giorno con situazioni urgenti e drammatiche. Ci può aiutare a verificare se tutto questo deve interessare anche gli operatori sul campo?

    R. Lo pensavo anch’io, ma un poco alla volta ne ho percepito tutta la risonanza pratica, proprio nella sua complessità teorica.
    Un esempio può servire di conforto anche per gli amici che hanno attraversato le stesse perplessità. L’ho sperimentato, mettendo in crisi chi aveva la risposta troppo pronta.
    La celebrazione dell’Eucaristia è sempre un incontro con la morte e la resurrezione di Gesù nello Spirito Santo. La sua efficacia salvifica non dipende certo dalle nostre modalità celebrative: canti, lingua, ritmo, coinvolgimento… non sono mai la fonte della nostra salvezza.
    Se però ci chiediamo: una Eucaristia celebrata dopo una giornata di intensa condivisione, preparata con cura e vissuta in modo intenso… è la stessa Eucaristia celebrata nella cattedrale della città, alle 6 del mattino, da un presidente assonnato e davanti ad un gruppetto sparuto di cristiani nascosti negli angoli bui della Chiesa? Se rispondiamo «sì», allora ogni fatica di «attiva partecipazione» è inutile. Se rispondiamo «no», ne scapita la nostra correttezza teologica. Sul piano teorico, la risposta è facile e nasce su alcuni «distinguo» sicuri. Su quello pratico, ritorna la questione teorica dell’epistemologia.
    La fretta e il buon senso non bastano davvero. La risposta deve nascere da una chiara meditazione sulla fede: la questione è pastorale e non metodologica. Riguarda cioè la natura dell’esperienza di fede e non le modalità operative della sua trasmissione. Per decidere come affrontare questo problema pastorale, dobbiamo considerare l’evento che dà origine alla decisione di fede: la Rivelazione.
    Lo riporto al suo impianto globale: lì la pastorale sta di casa, come modalità «transdisciplinare» di affrontare questioni concrete e complesse. Alla radice sta, ancora una volta, l’evento dell’Incarnazione e le sue conseguenze in ordine al rapporto tra fede e cultura.
    Il contenuto della Rivelazione è Gesù Cristo: il mistero di Dio in Gesù Cristo. E cioè l’alleanza: un’alleanza d’amore tra tre Persone nell’unità di una stessa vita (ciò che Dio è); un’alleanza d’amore tra Dio e l’uomo per la realizzazione della salvezza (ciò che Dio fa); un’alleanza d’amore tra gli uomini e Dio nella e per la fede (ciò che Dio attende). Questo annuncio presenta un carattere trascendente. Possiamo intervenire con azioni educative in una esperienza che è tutta dalla parte della trascendenza?
    Ci ricorda il già citato paragrafo di Dei Verbum che la Parola di Dio è «incarnata». Assume cioè una sua visibilità umana, per farsi conoscere, per rendersi vicina e accessibile all’uomo, in vista della fede. C’è quindi un aspetto della Rivelazione, inseparabile da quello trascendente, che è alla portata delle capacità di apprendimento umano. Possiamo dire che esiste, nella Rivelazione, un visibile rivelatore dell’invisibile, un contenente veicolo al contenuto, un significante che conduce al significato.

    Il dono di Dio e il modo della presenza

    Nella Rivelazione è importante distinguere tra il dono di Dio e il modo con cui questo dono si rende presente, vicino, provocante. La presenza di Dio è sempre mistero santo, sottratto ad ogni possibilità di manipolazione e di comprensione esaustiva. Dal dono di Dio scaturisce l’appello alla libertà e responsabilità di ogni uomo. Tutto questo investe innegabilmente il dialogo diretto e immediato tra Dio e ogni uomo e tocca quelle profondità dell’esistenza umana che sfuggono ad ogni processo educativo. Dono e chiamata si realizzano però in parole umane: assumono cioè una dimensione di visibilità storica e quotidiana, legata a quelle modalità educativo-comunicative, che sono oggetto anche delle scienze dell’educazione e, in generale, dell’approccio antropologico.
    Se il mistero ineffabile di Dio è incontrabile solo nel suo visibile (quel visibile che l’incarna, l’esprime, lo rende vicino e comunicabile), tutto ciò che permette al visibile di diventare più trasparente, rispetto al mistero che si porta dentro, favorisce l’accoglienza del mistero stesso. Si giunge perciò al contenuto solo passando attraverso il segno: il dialogo immediato e diretto di Dio che chiama alla salvezza è normalmente servito e condizionato dalle mediazioni pastorali in cui questo dialogo si esprime.
    A questo livello si collocano i compiti concreti di ogni azione pastorale. L’attenzione si concentra sul segno e, di conseguenza, si sposta dal piano dell’oggettività e delle sicurezze teoriche, a quello della soggettività dei giovani, di quello che essi possono comprendere, vivere, realizzare. La fede, competente e operosa, dell’educatore è chiamata in causa. Egli vuole servire il contenuto, costruendo eventi in cui il segno sia trasparente e provocante. Chi ci ha provato, può raccontare la fatica dell’impresa, trascinato continuamente dalla fedeltà a Dio e ai giovani, nell’unico gesto concreto. Alla sera, prima di addormentarsi, si impegna in un esame di coscienza di professionalità pastorale, e prende sonno chiedendo allo Spirito di Gesù di trasformare le pietre in figli di Abramo.

    D. Ci sono autori che parlano di «lettura spirituale» della realtà, in ordine alla pastorale. Lei non ha mai usato questa espressione. Preferisce parlare di «lettura di fede». È la stessa cosa o, eventualmente, dove sta la differenza?

    R. Non mi piace la polemica, soprattetto se è costruita su un gioco di parole. Dico il mio punto di vista e il lettore può fare la sua valutazione.
    Una lettura della realtà che faccia spazio decisivo alla teologia è radicalmente una lettura di fede. Nella fede riconosciamo la presenza operosa di Dio nell’avventura esistenziale di ogni persona. La presenza di Dio è il principio costitutivo, intimo ad ogni uomo più di se stesso. Questo lo dobbiamo riconoscere come condizione pregiudiziale di ogni sguardo posato sulla realtà se vogliamo essere nella verità: una lettura della realtà che ignori la presenza operosa di Dio è una lettura sempre parziale e da ogni lettura parziale non possiamo ricavare serie indicazioni di trasformazione.
    La lettura di fede non è una lettura lontana dalla realtà, che prende in considerazione problemi un poco strani, lontani dalla vita quotidiana delle persone. La lettura di fede è la lettura della quotidianità di tutti, tentando di avvicinarsi, nell’intricata trama delle cose di tutti i giorni, al mistero santo di Dio, per cogliere il suo progetto di riconoscimento e di trasformazione. A tutto questo va aggiunto un pizzico di sapienza: amore appassionato, condivisione, quadro di valori orientativi, ricerca e invenzione di senso.

    D. Leggendo queste riflessioni resta l’impressione che lei privilegi la dimensione pratica su quella teorica. Di solito si parla di «teologia pastorale» e invece lei continua a parlare di «pastorale». Perché? Dove sta la differenza, se c’è una differenza? Le sembra qualificante la distinzione?

    R. L’impressione è molto corretta. Pone l’attenzione su una distinzione che è veramente molto importante e chiarificante. Mi sto preoccupando di «pastorale giovanile». Il sostantivo è «pastorale». Lo considero veramente sostantivo: oggetto formale della riflessione. Quando parlo di «teologia pastorale», pastorale funziona come aggettivo qualificativo di «teologia». La differenza è sostanziale. In questo caso, infatti, devo comprendere prima di tutto le esigenze della teologia. Esse hanno qualità, caratteristiche, urgenze tutte speciali. Chi le disattende, si colloca in un terreno non autentico. Quando al centro colloco la pastorale, metto una prassi concreta, impegnata a riconoscere e a risolvere problemi, utilizzando tutte le risorse di cui la comunità ecclesiale dispone. Sul piano della pastorale, l’urgenza dei problemi e la preoccupazione della loro soluzione possono far passare in un secondo piano, almeno cronologico, quelle dimensioni che invece sono qualificanti per la teologia, anche per quella pastorale.
    Sono convinto che non pochi equivoci nascano dal confondere una ricerca pastorale con una ricerca di teologia pastorale. La pastorale ha bisogno di riflessione, per non diventare affanno pragmatico. La teologia è uno degli ambiti della sua riflessione: non certo l’unico, per tutte le ragioni che ho ricordato poco fa, cercando di comprendere appunto il suo statuto epistemologico.

    (continua)


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