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    «Senza la carità sono un cimbalo squillante» (1Cor 13,1)



    Paolo e i giovani /9

    Giancarlo Biguzzi

    (NPG 2009-09-47)


    Dopo avere parlato di come pensa e ragiona il bambino, con un salto che il lettore può facilmente colmare, in 1 Cor 13,11 Paolo passa a dire come invece pensa e ragiona l’adulto, che è preso a simbolo di perfezione. L’età giovanile è da Paolo scavalcata e passata sotto silenzio, e tuttavia egli finisce col fare di essa l’età strategica in cui si costruisce (o in cui non si costruisce) la compiuta personalità dell’uomo o della donna. Quella maturità la si conquista dunque nell’età giovanile ed è impresa che, per quanto Paolo scrive, si realizza solo con l’agape.
    In 1 Cor 13 – la sua pagina più famosa –, Paolo tesse infatti l’elogio dell’agàpe, termine greco difficilmente traducibile a motivo della sua densità di significato. È il termine che, poco usato nella lingua greca corrente, servì agli autori del Nuovo Testamento per parlare dell’amore di Dio, dell’amore del Cristo e dell’amore dei suoi discepoli, e basti aggiungere che nella prima lettera giovannea agape è la definizione stessa di Dio a due riprese: «Dio è agape» (1 Gv 4,8.16).
    Se le cose stanno davvero così, il testo di Paolo va interrogato con cura per ricostruire i percorsi che portano un giovane o una ragazza alla realizzazione della propria persona e quelli che invece trattengono sul binario morto dell’immaturità.

    L’articolazione del testo in tre strofe

    Il testo di Paolo si articola in tre «strofe» ben distinguibili per la loro stessa forma grammaticale e sintattica.
    La prima strofa è composta da una sequenza di tre frasi ipotetiche nelle quali alle protasi iniziali circa grandi carismi e gesti eroici, se ne contrappone un’ultima sempre uguale a se stessa la quale, insieme con l’apodosi, afferma l’indispensabilità dell’agape, svolgendo la funzione di ritornello tematico.
    La seconda strofa elenca quindici azioni di cui l’agape è soggetto, espresso o implicito, e dice quello che l’agape positivamente fa o che invece si astiene dal fare.
    La terza strofa, infine, mette l’agape a confronto prima con i carismi, e poi con le altre due virtù che noi chiamiamo teologali (fede e speranza), giungendo alla conclusione che l’agape è perenne e che è superiore anche a fede e speranza.
    L’articolazione di tutto il testo dunque può essere così rappresentata:

    13,1-3: LE IPOTESI DI GRANDI CARISMI O DI GESTI EROICI E L’AGAPE
    13,4-7: LE QUINDICI AZIONI ESEMPLARI DELL’AGAPE
    13,8-13: LA PERENNITÀ E GRANDEZZA DELL’AGAPE

    Le pretese grandezze della prima strofa (13,1-3)

    In ognuna delle ipotesi di 1 Cor 13,1-3 Paolo propone anzitutto una o due protasi che evocano alcuni dei carismi più ricercati dai Corinzi (parlare lingue sconosciute, avere il dono della profezia, la conoscenza dei misteri, la fede che trasporta le montagne…), o gesti che sono o sembrano ispirati da sublime eroismo (distribuire i propri averi, gettarsi nel fuoco per qualche nobile scopo):

    «Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli (…)» (v. 1)
    «E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta della fede da trasportare le montagne (…)» (v. 2)
    «E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto (…)» (v. 3).

    Poi Paolo chiude i tre periodi ipotetici con l’apodosi che ogni volta dichiara il risultato fallimentare di chi si gloriasse di questa o quella pretesa grandezza senza avere l’agape:

    « (…) se non avessi l’agape,
    sarei come un bronzo che rimbomba
    e un cimbalo che strepita, (…)
    non sarei nulla, (…)
    a nulla mi servirebbe».

    La prima pretesa grandezza è quella del parlare in lingue (sconosciute), le quali – si precisa – possono essere sia quelle degli uomini che quelle degli angeli. Le interpretazioni che si possono ricordare a commento sono quella cultuale e quella carismatica. Per i rabbini, dice la prima interpretazione, solo angeli e uomini hanno parole con cui lodare Dio: gli angeli lo fanno con il «Santo! Santo! Santo!» di Is 6,3, e gli uomini con la preghiera dello S?ema‘ («Ascolta, Israele!...»). In questo caso, il «bronzo che rimbomba» sarebbe il gong di rame che talvolta si appendeva ai templi o agli alberi sacri per convocare i fedeli alle celebrazioni o alle feste, mentre il «cimbalo che strepita» rimanderebbe allo strumento musicale a percussione che nei templi di Cibele e Dioniso doveva attirare l’attenzione degli dèi, cacciare i demoni, o provocare stati estatici.
    L’interpretazione carismatica, molto più in continuità con il contesto di 1 Cor 1,12-14 che è interamente dedicato ai doni dello Spirito, intende invece le «lingue degli angeli» come glossolalia (emettere suoni incomprensibili in assemblee carismatiche) da elencare in crescendo dopo le lingue parlate dagli uomini.
    Più che delle speculazioni rabbiniche e pagane, dunque, Paolo era preoccupato della rincorsa corinzia ai carismi, qui come nei capitoli precedente e seguente. E allora, a ragione C.K. Barrett scrive che è mero paganesimo quello di una Chiesa che parla in lingue e non ha l’agape.
    Nella seconda serie di ipotesi le protasi di pretesa grandezza riguardano esplicitamente i carismi, anche se gli interpreti differiscono nel conteggiarli: per alcuni si parla della sola profezia, per altri si parlerebbe di due carismi (profezia e fede), per altri di tre (profezia, conoscenza, fede) o quattro carismi (profezia, conoscenza dei misteri, conoscenza, fede). In ogni caso, la profezia dovrebbe essere la parola ispirata dallo Spirito a qualche membro della comunità in vista dell’edificazione propria e degli altri (cf 14,4). La conoscenza dei misteri dovrebbe significare invece una comprensione particolarmente penetrante della condizione cristiana nella sua dimensione più misteriosa, quella escatologica.
    E la conoscenza sarebbe la capacità di indicare le implicazioni morali per il presente. La fede, infine, non è la fede comune a tutti i credenti, ma quella carismatica che opera cose impossibili alle sole forze umane. In tal modo, l’agape è necessaria a tutti i carismi, dal più piccolo al più grande. E se il glossolalo senza agape è uno che strepita a vuoto, il profeta senza agape è addirittura «nulla».
    Dal «dire» della prima serie (parlare in lingue) e dal «conoscere» della seconda serie (conoscere i misteri), nella terza serie di ipotesi di grandezza Paolo passa al «fare»: a ciò che si può fare con i propri beni e con la propria stessa vita.
    La prima protasi potrebbe essere così parafrasata: «Se sbocconcellassi le mie proprietà [per beneficare il prossimo]…». La grandezza che si ipotizza è un autospogliamento dei propri averi e dunque un distacco e una generosità come quella che Gesù chiedeva: «… vendi tutto quello che hai e distribuiscilo ai poveri» (Lc 18,22).
    La seconda ipotesi di grandezza è quella di un sacrificio ancora più generoso, perché sarebbe il sacrificio della propria persona: «Se consegnassi il mio corpo [alle fiamme?, a qualche rischio estremo?]…». Anche qui, quella che è l’ultima protasi di pretesa grandezza si colloca al vertice di un crescendo, dopo di che viene il ritornello della protasi di contrasto («… ma se non avessi l’agape») e dell’apodosi («… a nulla mi servirebbe»). È inevitabile che qui il nostro pensiero vada ai kamikaze del nostro tempo e al loro discutibile eroismo.
    Dare le proprie sostanze in beneficenza è oggettivamente di sollievo a chi è nel bisogno, e tuttavia Paolo non ha dubbi: senza l’agape, ogni carisma e ogni gesto d’eroismo finisce su di un binario morto. Se non si ispirano all’agape, carismatici ed eroi possono essere mossi dalla vanagloria e dall’ipocrisia, e allora il primo vangelo direbbe che hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt 6,1ss). La mancanza di agape, lasciando il campo a secondi fini di ogni genere, svuota e corrompe dall’interno i doni più grandi e i gesti più generosi, tanto è vero che R. Kieffer può parlare di eroismo «malsano» e H. Schlier può scrivere (affermazione tremenda): «L’uomo a volte si dona per sfuggire all’amore».
    L’agape, dunque, non è semplice altruismo o filantropia, e neppure è un carisma, ma l’anima dei carismi.

    Le quindici azioni dell’agape nella seconda strofa (13,4-7)

    La seconda strofa è caratterizzata da due interessanti fenomeni di linguaggio.
    Il primo è la personificazione dell’agape. Il fenomeno non è nuovo. Basti pensare alla personificazione delle Leggi nel dialogo platonico del Critone (50.A-54.D), alle due personificazioni della Patria nelle Catilinarie di Cicerone (1, 17-19; 1, 27-29), alla personificazione della Sapienza o della Parola di Dio nell’AT, alla personificazione di Legge, Peccato, Morte ecc. nelle lettere paoline o, infine, alla personificazione della Continenza nelle Confessioni di sant’Agostino (8, 11). Lo scopo di questa e di ogni personificazione è di dare la massima enfasi possibile a un principio astratto e impersonale.
    Nel nostro caso l’agape, a motivo del genere femminile del termine, prende la forma di una donna, di una signora esemplarmente operosa, e lo scopo è che possano essere meglio detti l’ispirazione profonda e il dinamismo segreto di cui non possono fare a meno i carismi.
    L’espediente retorico della personificazione è finalizzato al secondo, quello per cui l’agape è soggetto di quindici verbi di azione, non di verbi-copula con un aggettivo o un nome quale predicato. Lo notano tutti i commentatori: «Aucun adjectif – neanche un aggettivo», scrive C. Spicq, e G. Friedrich: «[Paolo] non descrive l’essenza dell’amore, ma il suo agire», e R. Kieffer: «L’agape è dunque in piena azione». Nelle traduzioni correnti sembra che gli aggettivi siano inevitabili: «L’agape è magnanima, benevola è l’agape», «La charité est longanime, la charité est serviable…», «Love is patient and kind», ma l’uso di essi allontana la traduzione dal testo greco perché trasforma l’agire dell’agape, del quale il testo parla, nelle qualità dell’agape, che nel testo sono fuori campo. Poiché a volte nelle nostre lingue mancano verbi che possano tradurre quelli greci, per restare più fedeli al testo si potrebbe introdurre il verbo «agisce» facendolo seguire da complementi di modo: «L’agape agisce con magnanimità, con benignità, ecc.».
    I quindici verbi di cui l’agape è soggetto si possono raggruppare in base alle loro caratteristiche morfologiche. La serie è aperta da due azioni positive (v. 4a), ed è poi proseguita da nove verbi che sono costruiti con la negazione «non», all’infuori dell’ultimo che però è legato all’ottavo con un «invece» di contrapposizione (vv. 4b-6). La serie si conclude infine con quattro altre azioni che hanno «tutto» come complemento oggetto (v. 7). L’elenco è ovviamente esemplificativo e non esaustivo, e deve dire come l’azione dell’agape si esplichi in tutte le direzioni.
    Le prime due azioni dicono come la carità agisca con animo grande e con benignità. Nel suo animo grande e benigno, chi ha l’agape non può convivere poi con almeno sette forme di meschinità: la gelosia o l’invidia, la frivolezza e l’ostentazione, il gonfiarsi di sufficienza e d’orgoglio, la mancanza di proprietà e di tatto, la ricerca di se stessi e del proprio interesse, l’eccitazione fanatica e scomposta, il rancore e la rappresaglia e, infine, il godere dell’ingiustizia. A diretto contrasto con il godere di ciò che è ingiusto, viene come nona azione dell’agape il farsi invece coinvolgere nella gioia per la verità. Poi, a chiusura, vengono le affermazioni del «tutto»: l’agape è così forte che tutto porta e sopporta, e tutto crede, non perdendo mai la fiducia né la speranza.

    Contenuto della terza strofa, difficoltà e possibili soluzioni (13,8-13)

    La terza strofa, la più difficile da interpretare, si articola in quattro segmenti.
    Il primo è l’affermazione iniziale sulla perennità dell’agape e sulla caducità di tre carismi: le profezie, il parlare in lingue, e la scienza (v. 8). Il secondo segmento è una prima illustrazione riguardante la caducità di profezia e scienza (vv. 8-11) che cesseranno, perché sono parziali, e lasceranno il posto a ciò che è perfetto. Nel v. 11 l’imperfezione e la maturità sono esemplificate poi con ciò che si fa quando si è bambini e quando si diviene adulti. Una terza illustrazione (v. 12) riguarda la visione imperfetta («come in uno specchio» – gli specchi antichi erano di rame battuto e, quindi, riproducevano le immagini con molte deformazioni) e oscura («in modo confuso»), e la conoscenza parziale del tempo presente: «Adesso noi vediamo (…), adesso io conosco (…)». La visione mediata e difettosa che si ha ora diverrà visione a faccia a faccia, e la conoscenza parziale del presente diventerà perfetta come quella con cui siamo conosciuti (ovviamente da Dio; v. 12b). Tutto è concluso da una battuta finale secondo cui tutte e tre le virtù teologali (fede, speranza, carità) permangono, e secondo cui, però, di tutte e tre quelle virtù l’agape resta la più grande (v. 13).
    La difficoltà maggiore di tutta la strofa è quella di determinare qual è il tempo in cui i carismi vengono dismessi, in cui invece le tre virtù teologali permangono, e in cui, infine, l’agape è tuttavia superiore a fede e speranza. In secondo luogo è difficile precisare che cosa assimili le tre virtù per essere tutte ugualmente perenni, e che cosa invece contraddistingua l’agape così che essa è più grande di fede e speranza.
    Le interpretazioni che si possono dare circa i tempi della cessazione dei carismi e del «permanere» di fede, speranza e agape, sono due. La prima ambienta sia il superamento dei carismi sia la permanenza delle virtù teologali nella vita del cristiano: 1 Cor 13 parlerebbe dell’immaturità e della maturità che si succedono nel processo di crescita del credente. Finché è alla ricerca dei carismi, il cristiano è immaturo. Quando invece giunge a trovare il suo appagamento nelle sole tre virtù teologali, egli è allora maturo e «perfetto». Il lato debole di questa interpretazione è che le virtù teologali dànno di Dio una conoscenza mediata e non «faccia a faccia», né danno una conoscenza analoga a quella con cui Dio ci conosce.
    Non resta allora che affidarsi alla seconda interpretazione, quella secondo cui il tempo dell’imperfezione è il tempo presente, e il tempo della perfezione è quello dell’escatologia. Nel tempo presente i carismi, che sono transitori, si accompagnano con le virtù teologali che invece sono perenni e, mentre nell’escatologia i carismi non entreranno a motivo della loro parzialità e imperfezione, in essa entrerà invece l’agape. In altre parole, ora fede-speranza-agape ci permettono di vedere come in uno specchio, e quella visione giungerà alla perfezione nell’escatologia, quando vedremo «faccia a faccia». Allo stesso modo, ora fede-speranza-agape ci danno una conoscenza parziale di Dio, ma nell’escatologia conosceremo e ameremo come siamo conosciuti e amati. È così che anche fede e speranza «restano» e hanno perennità, a differenza dei carismi.

    L’agape in rapporto a fede e speranza

    Resta da conciliare la medesima permanenza di agape e di fede-speranza con l’affermazione secondo cui invece l’agape è più grande anche di fede e speranza (v. 13).
    Una qualche soluzione sul piano logico è difficile dal momento che Paolo non spende una sola parola per motivare il suo assunto e, tagliando corto, chiude il discorso quasi d’autorità.
    C’è di più: il confronto con fede e speranza in 1 Cor 13 è di per sé estraneo, se non di disturbo. In un testo che vuole celebrare la grandezza dell’agape è di disturbo infatti dire che qualcosa le è pari. Sembra quasi che l’affermazione dell’uguale perennità venga da un interlocutore di Paolo, o da un contraddittore. Sembra che Paolo accetti l’obiezione e poi replichi senza portare altri motivi che le grandi cose dette circa l’agape nell’elogio che ne ha tessuto. Il verso 13,13 si potrebbe allora parafrasare in questi termini: «È vero quello che tu dici, che fede speranza e agape permangono allo stesso modo. E tuttavia l’agape, per tutto quello che ho detto, è pur sempre la più grande». Insomma, non la logica ma la retorica aiuterebbe a capire il v. 13,13.
    Nella terza strofa si ha dunque una serie di tre confronti. Il primo confronto è tra l’agape e i tre carismi di profezia, lingue e scienza, e porta a constatare la superiorità dell’agape sui carismi quanto a permanenza. Gli altri due confronti sono tutti e due tra agape da una parte e fede-speranza dall’altra, ma mentre uno porta a sottolineare la loro pari dignità teologale relativizzando in qualche modo l’agape, l’altro porta all’affermazione della superiorità dell’agape anche su fede-speranza. Se poi si volesse motivare la superiorità dell’agape su fede-speranza che Paolo ha tralasciato di motivare, si potrebbe dire con H. Schlier che «Dio stesso non è né fede né speranza, ma è amore».

    L’agape come via

    A immediata introduzione della pagina sull’agape, in 1 Cor 12,31 Paolo diceva ai Corinzi che, se pure fanno bene a cercare i carismi, lui indicherà appunto nell’agape la via maestra: «Desiderate intensamente i carismi più grandi. E, allora, io vi mostro la via più sublime».
    Ma più che ai Corinzi, Paolo sembra aver indicato nell’agape la via maestra proprio al giovane in cerca di percorsi su cui realizzare la propria persona, e che non vuole restare un eterno adolescente (terza strofa).
    Con le ipotesi di pretesa grandezza gli fa capire che i gesti o i progetti estremi rivelano una invidiabile generosità di fondo ma possono poi rivelarsi sterili perché, dopo un po’ di clamore, magari anche mediatico, finiscono nel senso di frustrazione, se come molla hanno solo il narcisismo e la volontà di sentirsi protagonisti (prima strofa).
    Con l’esemplificazione dei quindici verbi di cui l’agape è soggetto, a chi vuole addentrarsi nella vita con aderenza ad essa e senza megalomanie, Paolo infine dice di cercare la grandezza d’animo, la passione per la giustizia, la capacità di tutto portare e sopportare, e dice di non dare spazio invece ad alcuna delle forme di meschinità e di egocentrismo che sono infinite (seconda strofa).
    In questa memorabile pagina di Paolo c’è qualcosa che egli non dice e non esplicita, e di cui però si ha un forte presentimento: il presentimento del Cristo. Se Paolo presenta la via maestra, e se lo fa con parole così ispirate, non può non venire alla mente che Gesù ha detto di sé: «Io sono la via». Dopotutto, molti interpreti di Paolo fanno notare come in 1 Cor 13 l’agape sia intercambiabile con «Gesù»: «Nel testo di 1 Cor 13 si potrebbe leggere ‘Gesù’ al posto di ‘agape’» (N. Johansson); «L’elogio dell’agape è una cristologia velata» (B. Standaert); «L’inno all’agape fa vedere in filigrana la figura del Cristo, pieno di bontà e dedito al servizio, icona della carità del Padre» (M. Sewodo); «Via via che procede la descrizione paolina dell’amore, diventa evidente che l’unico modello umano che noi possiamo seguire è Gesù di Nazaret» (C.K. Barrett); «Paolo non avrebbe mai scritto l’elogio della carità, se non avesse avuto l’esperienza viva di Cristo» (S. Cipriani).
    Nelle sue lettere Paolo cita raramente le parole di Gesù, e del suo ministero pubblico non rievoca alcun episodio. Ma le quindici azioni dell’agape equivalgono ad altrettanti episodi dei quattro vangeli canonici. Sono il vangelo in miniatura scritto da Paolo.


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