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    La noia




    Educare le emozioni /5

    Raffaele Mantegazza

    (NPG 2009-05-85)


    È la malinconoia

    che uccide a questa età,
    è il cuore che si scuoia
    cercando quel che ha già,
    e il cielo cade giù con la sua
    tenda buia
    e non esisti più nella malinconoia
    (Marco Masini)

    Sarà triste e deprimente finché si vuole, ma Marco Masini, soprattutto quello degli inizi, conosce bene il mondo adolescenziale: la noia per i ragazzi e le ragazze sembra veramente uno scuoiarsi del cuore alla ricerca di ciò che già si possiede o forse alla ricerca del senso di quello che si possiede: la noia per i nostri giovani e le nostre giovani è l’emozione di chi possiede tante cose ma non il significato del possederle, o per dirla con un altro cantante:

    Esser tutto un momento,
    ma dentro di te
    Aver tutto ma non il domani.[1]

    I ragazzi hanno tutto, sanno tutto, possiedono tutto: ma manca loro la dimensione del senso; questo è quello che è stato loro tolto e che viene sempre più sottratto quando l’adulto, per ovviare all’infelicità del bambino, gli offre inutili cose piuttosto che l’unica cosa della quale essi hanno realmente, disperatamente bisogno: il proprio tempo. La noia dei ragazzi e delle ragazze è lo spazio vuoto lasciato dall’assenza dell’adulto, una assenza scandalosa della quale forse un’epoca più pietosa della nostra sarà in grado di vergognarsi e farci vergognare. Una noia desolante e devastante, quella dei giovani, ma anche una noia che può essere fatta crescere, che può essere educata alla ricerca di vie d’uscita.
    Se la noia da ragazzi/e ha un significato evolutivo, la noia adulta è spesso segnata dal rimpianto, dal confronto amaro tra le promesse adolescenziali che sembravano a un passo dal compiersi e la desolazione di un presente che le ha smentite:

    «non sono io quel medesimo che altra volta si librava su un mare di sentimento, che vedeva a ogni passo nascere un paradiso, che aveva un cuore capace di stringere con amore tutto un universo? E questo cuore ora è morto, estasi non ne sorgono più, i miei occhi sono asciutti e il mio intimo, non più confortato da lacrime ristoratrici mi contrae penosamente la fronte».[2]

    Annoiarsi significa ammettere di avere perduta la partita, di non aver saputo adempiere le speranze dell’adolescenza e cadere nella tentazione del disamore

    Sarà colpa dello specchio
    che riflette l’altro uomo
    che vedevo allora, quello che mi ha fatto un mucchio di promesse e non è
    stato di parola, ma stasera non puoi
    farci niente neanche tu, non amo più.[3]

    La noia è la domenica nella quale tramonta la speranza del sabato: «l’effettiva domenica borghese è una noia sconfinata, l’utopia infernale piccoloborghese della lontananza dal sabato».[4] Quando l’ultima speranza naufraga, quando si coglie il nonsenso di un processo di crescita che ha tradito le speranze piuttosto che realizzarle, in quel momento la noia segna il tempo del ritorno alla routine quotidiana anche se topicamente si sta vivendo ancora l’illusione della festa.

    Questo di sette è il più gradito giorno, pien di speme e di gioia:
    diman tristezza e noia
    recheran l’ore, ed al travaglio usato
    ciascuno in suo pensier farà ritorno.

    La noia è il senso del finito che precipita su se stesso, si rattrappisce lasciando il soggetto in uno stato di amara claustrofobia: non è il ritorno a una finitudine che costituisca il senso della vita e lasci trasparire comunque spiragli di infinito, ma la pura e semplice eclisse dell’infinito, della trascendenza, dell’Altro:

    la noia la noia la noia che hai
    lasciato qui quella noia che
    c’era nell’aria che c’era nell’aria allora è ancora qui è qui che ti aspetta sai e tu ora non puoi certo più scappare
    come hai fatto allora ora sai che vivere
    non è vero che c’è sempre qualche cosa da scoprire e che l’infinito è strano
    ma per noi sai tutto l’infinito finisce qui.

    Una sconfitta nei confronti della quale anche la contrapposizione tra vita e morte cessa di avere senso perché la vita è già morte, avendo lasciato alle spalle ogni tensione all’infinito e all’Oltre, come capta al soldato ferito della novella di Hemingway:

    «Il dottore mi disse poi che la moglie del maggiore, giovanissima e che lui non aveva sposato finché non era stato definitivamente esentato dal servizio, era morta di polmonite. Una malattia di pochi giorni. Nessuno si aspettava la sua morte. Il maggiore non venne all’ospedale per tre giorni. Poi tornò alla stessa ora con una banda nera al braccio. Quando tornò c’erano grandi fotografie incorniciate appese alle pareti, di ogni specie di ferite prima e dopo la cura con gli apparecchi. Davanti all’apparecchio del maggiore c’erano tre fotografie di mani uguali alla sua completamente guarite (...). Le fotografie non contarono un gran che per il maggiore perché lui, ora, guardava soltanto fuori dalla finestra».[5]

    Combattere la noia, anzi utilizzarle in senso educativo significa insegnare ai giovani a tollerarla e ad affrontarla ma anche portarli alla «ricerca di un attimo che non diventi nausea o noia una volta passato»,[6] far loro vivere esperienze autentiche che non siano allineate sullo scaffale del Tutto Uguale che la società odierna presenta loro.
    Ma occorre anche entrare nella noia e coglierne i lati poetici e creativi: quando la noia diventa ciò che la poesia simbolista definiva spleen, allora è possibile guidare i giovani all’attraversamento dei suoi territori mostrando come essa, similmente a tutti i moti dell’animo, non possieda solo caratteristiche distruttive o autodistruttive ma apra la strada a nuove forme e modalità di conoscenza. Soprattutto la noia ci fa riflettere sul nostro rapporto con la natura, sul nostro proiettare su di essa i nostri sentimenti, ma più radicalmente sul nostro poter cogliere il senso della natura solo umanizzandola, addomesticandola, cioè portandola letteralmente nella domus dei nostri stati d’animo.
    Quando le strisce immense della pioggia sembrano le inferriate di una vasta prigione e muto, ripugnante un popolo di ragni dentro i nostri cervelli dispone le sue reti.[7]
    È una conoscenza emozionata e emozionale quella che la noia ci restituisce, una conoscenza della natura che è in consonanza con gli stati d’animo dell’essere umano, che lo aiuta a cogliere le segrete corrispondenze; solo in questo senso l’uomo si colloca come principe nella natura che gli risponde:
    Sono un principe che regna su un paese di piogge.[8]
    Sarebbe allora interessante per esempio che i percorsi educativi a proposito della natura affrontino anche questo tema: la natura come noia, come infinita ripetizione, come eterno ritorno del sempre identico: sarebbe interessante che si mostrasse ai ragazzi e alle ragazze la poesia non solo delle limpide mattine di maggio, delle assolate spiagge ferragostane o delle innevate colline natalizie ma anche di

    quei giorni zoppicanti
    dove sotto
    i fiocchi grevi delle annate di neve
    la noia, triste frutto dell’incuriosità
    prende misura d’immortalità.[9]

    Ma per fare questo, per poter realmente educare alla noia, occorre aver provato almeno una volta nella vita l’angoscia pronta «a piantarmi sul cranio la sua bandiera nera»,[10] occorre essere stati in grado di sfuggire alle chele della noia, occorre essere adulti. Finché crescere significherà giocare assurde schermaglie contro la noia, contrapponendole cose (SUV, cellulari, playstation, reti internet) e non progetti e speranze, allora sarà ben difficile riuscire a educare i ragazzi ad affrontare questo avversario che può essere anche un amico. Nella sua canzone basata su un ardito neologismo, Masini ci folgora con una strana strofa:

    la noia è come il blues ti fa pensare
    a dio leggera come un gas
    che penetra il tuo io
    la noia è nostalgia di un posto
    che non c’è,
    è voglia di andar via da tutti
    e anche da te.

    La noia fa pensare a Dio; non a un Dio riempitivo, un Dio tappabuchi, ma un Dio che è desiderio di trascendenza in un mondo disperatamente orizzontale e piatto, in un deserto che non è sede di una promessa come per i popolo ebreo ma è deserto «e basta». La noia fa pensare a un Dio che crea il mondo perché si annoia, perché non si basta più, perché non può più vivere senza l’Altro, o meglio perché solo con l’Altro può essere il Dio vivente e non solo il Dio nascosto.[11] È il concetto di Dio che ritroviamo nella concezione mistica giudaica dello tzim-tzum secondo la quale YHWH nel processo di creazione si contrasse e si ritirò per lasciare spazio al mondo, dimodoché piuttosto che di autoaffermazione di YHWH occorrerebbe parlare di un suo «farsi da parte», «lasciare la scena». È necessario autolimitarsi per lasciare spazio all’altro, e solo in questo modo si sconfigge la noia: la noia è sentimento sociale e la via d’uscita da essa non può essere solitaria: solo aprendosi all’Altro l’Io esce dalle «inferriate di una vasta prigione» C’è noia allora perché contemporaneamente c’è poco e troppo «io»: c’è un «io» ipertrofico e claustrofobico che continua a pensare di poter vivere nel delirio della propria illusoria autosufficienza; e c’è un «io» relazionale – che costituisce la vera e non illusoria struttura dell’»io» – del tutto assente, da sviluppare e da promuovere. In questo senso allora la noia è «nostalgia di un posto che non c’è», sì una u-topia, di un luogo nel quale poter vivere insieme agli altri e alle altre colorando la natura di tutti i toni delle emozioni e dei sentimenti. Ma in questo posto non si arriva mai da soli; annoiarsi con qualcun altro di fianco significa già superare la noia, anche se si tratta del compagno di banco con il quale si dice «che noia!» ascoltando le parole del professore. Anche dalla noia, come diceva don Milani, «uscirne insieme è la politica».

    ATTIVITÀ

    Quando ci si annoia? Cosa si può fare per sconfiggere la noia? Una semplice attività può portare a scoprire come la noia possa addensarsi anche nelle pieghe delle giornate apparentemente più limpide o nel mezzo delle attività apparentemente più remunerative dal punto di vista del divertimento. Forse ci si annoia a scuola: ma cosa capita quando ci si annoia nel momento in cui ci si dovrebbe divertire? E come può la fantasia aiutarci a uscire da queste impreviste situazioni?

    Si preparino alcuni bigliettini riportanti situazioni apparentemente positive: «sulla spiaggia al mare a ferragosto», «con il/la fidanzato/a la sera di San Valentino in pizzeria», «allo stadio la domenica del derby», «in gita a Parigi con la scuola», ecc. Si dividano i ragazzi in sottogruppi e si faccia pescare a sorte a ogni gruppo un bigliettino. Poi si chieda di scrivere una storia nella quale un soggetto si annoia in quella situazione specifica; dalla storia deve essere chiaro il motivo della noia. Poi si chieda ai sottogruppi di pescare a sorte un altro bigliettino: i biglietti per questa seconda attività devono riportare semplicemente nomi di oggetti: un «martello con il manico rotto», «una cannuccia di plastica piegate in due», «una lattina di olio lubrificante», ecc.: possibilmente devono essere oggetti che non abbiano nulla a che fare con le situazioni del primo gruppo di bigliettini e soprattutto oggetti inutili, rotti o inutilizzabili, Si chieda ai ragazzi di proseguire le storie indicando come il/i protagonista/i può/possono utilizzare l’oggetto pescato in sorte per sconfiggere la noia. Le storie lette insieme possono essere un’utile introduzione per una profonda discussione sulla noia e le sue dimensioni quotidiane nonché sulla fantasia come contravveleno.

    NOTE

    [1] Francesco Guccini, Canzone delle domande consuete.

    [2] Johan Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther, Milano, Mondadori, 1989, pag. 106.

    [3] Roberto Vecchioni, Non amo più.

    [4] Ernst Bloch, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 2004, pag. 940.

    [5] Ernest Hemingway, In paese straniero, in I Quarantanove racconti, Milano, Mondadori, 1980, pagg. 245/6.

    [6] Bloch, cit. , pag. 1159.

    [7] Idem, Spleen (LXXVIII), I Fiori del male, ora in Opere, Milano, Mondadori, 1996 pagg. 153-154.

    [8] Ibidem.

    [9]  Idem, Spleen (LXXVI), ivi, pag. 151.

    [10]  Charles Baudelaire, Spleen (LXXVII) ivi pag. 153.

    [11] Utilizziamo il termine “Dio nascosto” nel senso della mistica ebraica e sufi e in quello dello pseudo-Dionigi, non nel senso pur grandioso ma leggermente differente, della teologia di Karl Barth.


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