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    Giovani tra sogni e bisogni di autorealizzazione



    Giuliano Vettorato

    (NPG 2009-03-25)


    Quali sono i bisogni dei giovani/adolescenti di oggi? Risulta difficile individuare una condizione comune a tutti i giovani, una cultura condivisa. Se da una parte l’indifferenziazione nel mondo giovanile appare assai elevata (Censis, 2002), dall’altra si deve riconosce che la realtà giovanile non è così omologata come gli adulti vorrebbe credere. Le differenziazioni ci sono, e sono notevoli. È dagli anni ’80 che si parla di diverse condizioni giovanili e, ultimamente, di «pluriverso», per indicare la pluralità dei mondi giovanili, dei loro stili di vita, valori, comportamenti. In questo contesto è difficile individuare i bisogni giovanili prevalenti.
    Dagli anni ’70 in Italia e più generalmente in Europa sono in atto rilevanti processi di modernizzazione, postmodernizzazione e globalizzazione, con progressiva comples­­sifica­zione della vita e della società. Ciò ha avuto delle importanti ripercussioni anche sui giovani, le cui condizioni possono essere considerate un prodotto. A loro volta i giovani sono produttori di nuovi modi di adattamento con relativi stili di vita, valori. È perciò difficile distinguere nelle condizioni dei giovani italiani ed europei quali sono i processi di cui sono soggetto attivo da quelli di cui sono invece oggetto passivo: si può dire che tra i giovani e la società, come per qualsiasi altra categoria sociale, c’è una continua interazione, per cui ogni situazione è, contemporaneamente, causa ed effetto di altre situazioni.
    Tutto ciò ha portato ad un accentuato processo di individualizzazione e soggettiviz­za­zione. Processo che concorre ad emancipare gli adolescenti e avviarli verso una autorealizzazione molto personalizzata, anche se questa frantumazione dell’universo giovanile può contribuire alla sua debolezza. Ciò potrebbe spiegare come la risultante sia poi meno differenziata di quello che ci si attenderebbe.
    Tale limite consente però di individuare dei tratti comuni dell’essere giovane oggi, pur con la consapevolezza che questa descrizione è necessariamente generica e non si può applicare nello stesso grado a tutti i giovani.[1]

    AUTOREALIZZAZIONE COME AUTOESPRESSIONE

    Dalle ricerche condotte in Italia (e, più in generale, nell’Europa occidentale) emerge con chiarezza un dato: la costante tendenza della gioventù verso i valori postmaterialisti.
    Inglehart (1977; 1993), applicando la classificazione di Maslow,[2] aveva identificato nell’an­da­mento culturale, soprattutto tra i giovani delle popolazioni economicamente più progredite, un movimento evolutivo verso l’autoespressione, l’autorealizzazione, maggior libertà e autonomia personale. Tale impulso avrebbe spinto a sottrarsi al controllo sociale, all’obbligo di rispettare norme imposte, ad abbandonare gli aspetti formali o i doveri istituzionali.
    Il miglioramento delle condizioni economiche, una stabile condizione di pace e di sicurezza sociale, l’aumento di cultura avrebbe favorito nelle persone il passaggio dal livello di pura sopravvivenza, dominato dalla paura e dall’insicurezza, a situazioni in cui sarebbe possibile l’autodeterminazione personale, l’auto­espres­sione, l’autodirezione, la ricerca di una vita più bella, gratificante e significativa (qualità della vita).
    Questa cultura tenderebbe ad affermarsi progressivamente man mano che le coorti di popolazione giovanile sostituiscono quelle adulte e anziane (generational replacement), diventando maggioritarie.[3] Le caratteristiche di tipo postmaterialista Inglehart (1998) le ha accostate alla cultura postmoderna, pur senza farle coincidere.
    Le ricerche compiute da questo autore nei decenni successivi [4] hanno confermato la sostanziale validità del modello gerarchico dei bisogni di Maslow.
    Da un confronto tra generazioni sembrano, infatti, in rialzo i valori connessi prevalentemente con la sfera espressiva e relazionale. Prevalgono bisogni di ordine affettivo (famiglia, amici, amore) e ludico-espressivo (gioco, divertimento, sport, tempo libero).
    Più in generale, si nota una grande attenzione al «sé», al proprio benessere psichico, oltre che fisico; si ascoltano di più i propri bisogni intimi, si cerca di soddisfare tutte le esigenze dell’organismo.
    Mentre i valori che riguardano la sfera sociale e l’impegno per gli altri (impegno sociale, religioso, politico, culturale) sono costantemente in fondo della scala delle preferenze.[5]
    Il motivo della concentrazione su questa dimensione può essere rintracciato in due caratteristiche della nostra epoca: da una parte il benessere raggiunto, che permette di ritenere abbastanza soddisfatti i bisogni di tipo materiale e consente di rivolgere l’attenzione a bisogni meno pressanti; dall’altra, la disoccupazione e, più in generale, la marginalità sociale degli adolescenti e dei giovani. Situazione che li spinge a cercare la propria realizzazione più sul versante espressivo che su quello strumentale. Questi fattori, insieme alla maggior libertà individuale, alla crescita della soggettività, alla caduta del mito del progresso, all’aumento di possibilità espressive con i nuovi media possono aiutare a capire il motivo del fenomeno.

    La crescita costante dei valori affettivi e relazionali

    Il campo dove i valori hanno dimostrato di essere continuamente in ascesa negli ultimi 30 anni è quello dei rapporti affettivi, siano essi di coppia che di gruppo, mono o eterosessuali. La rete delle relazioni affettive è l’elemento fondamentale attorno al quale gravitano tutti gli altri. I giovani di oggi non saprebbero mai rinunciare alla famiglia d’origine, agli amici, al partner e, più in generale, ai rapporti interpersonali definiti come «positivi».
    «Relazionalità che è innanzitutto un luogo sicuro e rassicurante, un porto in cui riparare e far fronte alle proprie insicurezze e alle incertezze di una società che non pare in grado di affermare paradigmi interpretativi credibili e coerenti» (Buzzi, 2002, 2).
    «Delle relazioni familiari i giovani sentono di aver bisogno in quanto generatrici di autostima, di sostegno psicologico, di aiuto alla crescita della personalità, mentre le relazioni amicali sono ritenute importanti, poiché in esse circola affetto, cooperazione, complicità e, nel caso del partner, amore. […]
    «Il padre e la madre sono visti come coloro che trasmettono valori (incentrati in primo luogo nell’ambito dei rapporti interpersonali), ma sono anche definiti come punti di riferimento primari nel processo di costruzione della personalità, a partire dallo sviluppo della fiducia in se stessi. […].
    «Un’ulteriore figura di riferimento, di carattere quasi genitoriale, è individuata negli allenatori, nei sacerdoti, in alcuni insegnanti e, in generale, in tutte quelle persone che hanno dimostrato di essere capaci di ascolto e che sono riuscite a trasmettere un carisma e una coerenza che li ha resi esempi significativi» (Tucci, 2002, 1).

    Gli amici

    Subito dopo la famiglia vengono gli amici. I richiami sono quelli della solidarietà, della confidenza, della crescita comune. Con gli amici si condividono esperienze formative, le piccole trasgressioni (come la prima sigaretta) e si apprende reciprocamente, vivendo insieme le situazioni quotidiane tipiche della giovinezza: scuola, sport, divertimento. E gli amici, quelli dello «stare sempre insieme», sono importanti per il consolidamento del carattere e per il superamento dei momenti di crisi (Tucci, 2002, 1).
    «La centralità della dimensione relazionale e soprattutto quella di tipo amicale costituisce uno dei tratti più caratterizzanti la condizione giovanile. In nessuna età della vita infatti il rapporto con l’amico o in gruppo dei pari costituisce un momento così necessario e indispensabile di confronto e di sostegno nell’individuazione della propria identità. Ne è prova il fatto che solo l’1.2% dei giovani dichiara di non avere nessun amico» (Censis, 2002, 27).
    I gruppi possono essere di vario tipo: si va dal «gruppo classe» nell’età scolare, al «gruppo dei pari» nell’adolescenza, «fino all’elaborazione del divario tra il proprio ideale di sé e quello del gruppo, che porterà alla maturazione del processo di identificazione, attraverso la costruzione di un proprio io (che segnerà poi di fatto il distacco da quello collettivo)» (Ibidem).
    Le motivazioni che spingono i giovani all’amicizia sono, innanzitutto, lo scambio con l’altro, indotto dal desiderio sia di condividere le stesse esperienze, sia di confrontarsi con il diverso.
    Altri la vivono in una logica più autoreferenziale: per passare il tempo, per esercitare una leadership, per non dover decidere in prima persona. Altri, soprattutto donne, sottolineano la possibilità di poter esprimere totalmente se stessi (Censis, 2002, 29).
    I gruppi si formano prevalentemente «nei luoghi – e nelle occasioni – in cui i giovani si ritrovano insieme, più per effetto di un percorso involontario di aggregazione inerziale che per un processo intenzionale di selezione sulla base di un interesse condiviso. È così per il 42.2% dei giovani il cui gruppo è costituito da compagni di scuola o di università, o per il 20.6% che si ritrova come gruppo di riferimento quello formatosi per strada, nel condominio o nel quartiere, o, infine, per il 6.1% che si riunisce al bar» (Censis, 2002, 31).
    I luoghi di ritrovo del gruppo variano con l’età:
    «se tra i giovanissimi, la dimensione scolastica e quella di strada sono di gran lunga quelle prevalenti […], al crescere dell’età, le amicizie del lavoro sostituiscono quelle scolastiche o universitarie […], e crescono in modo significativo quelle legate al contesto famigliare» (Censis, 2002, 32).
    «La centralità di ruolo che la relazione di tipo amicale occupa nella vita dei giovani è confermata anche dalla buona consistenza della loro rete di comunicazione testimoniata dalla frequenza e dalle modalità di contatto che intrattengono tra di loro. […].
    «I giovanissimi esprimono […] un livello di relazionalità molto più ampio, testimoniato dall’esistenza di una rete relazionale più consistente, a conferma della centralità che la dimensione amicale riveste nell’età adolescenziale. La stragrande maggioranza ha infatti la possibilità di incontrarsi ogni giorno (il 73.1%) con i propri amici, che coincidono quasi sempre con i membri del gruppo ‘che si ritrovano’ (quello che si forma a scuola o per strada); ma il bisogno relazionale tende a ricoprire tutti i momenti di vita, espandendosi oltre l’incontro, tramite l’invio di Sms (lo fa almeno una volta al giorno il 75% degli intervistati tra 15 e 17 anni), chiamate con cellulare (61.7%), o prolungando idealmente ‘l’incontro’ tramite il telefono (53.2%), strumento che rappresenta ancora il luogo deputato alle lunghe conversazioni» (Censis, 2002, 32).

    In gruppo per parlare

    Lo «stare con gli altri», più che il «fare» è diventata una delle aspirazioni più forti nella vita dei giovani, soprattutto adolescenti, e il modo principale con cui riempire il tempo libero. Questo bisogno viene soddisfatto prevalentemente dal «gruppo» dei coetanei, che rappresenta una soluzione funzionale al bisogno di socialità e di sostegno emotivo nel momento della transizione adolescenziale.
    Tra le varie funzioni che ha il gruppo, quella comunicativa è probabilmente la più importante.
    «Il gruppo è un’occasione che il giovane ricerca per aumentare le proprie possibilità di comunicazione interpersonale, sui temi e sulle emozioni che lo interessano da vicino. Alla domanda ‘che cosa fate?’ la gran parte dei gruppi risponde che ‘stanno insieme’, parlano, si divertono, cioè tutte le attività che rendono evidente un pressante bisogno di stare insieme. Le compagnie di strada non strutturano alcun tipo di attività organizzata, ma al contrario tutto ciò che viene fatto è frutto dell’organizzazione del momento. Ciò che è importante è avere dei tempi e degli spazi per parlare. […] Questo parlare continuo, insistito, emotivamente intenso, rappresenta l’attività più importante, quella cui si attribuisce maggior rilevanza per la sopravvivenza collettiva» (Paroni, 2004, 59).
    Mentre con gli adulti hanno difficoltà ad esprimersi e comunicare con efficacia, tra di loro
    «possono usare un linguaggio spesso originale, creativo, condiviso da tutti, ricorrendo a molti neologismi, termini dialettali, parole storpiate. Si crea quindi un sistema comunicativo altamente simbolico, non verbale, mimico e corporeo, che esclude spesso gli aspetti più razionali dell’apparato linguistico» (Paroni, 2004, 60).
    «Il comunicare è allora l’attività principale del gruppo. Esso è l’antidoto ad una delle maggiori paure dell’adolescente, la paura della solitudine, del non essere riconosciuto ed accettato. Nel gruppo non solo si comunica […] ma si impara anche a comunicare […]. Lo stesso divertimento […] non rappresenta altro che una strategia di riproduzione della comunicazione. Il gruppo continua ad esistere non tanto fino a quando crea occasioni di divertimento, ma fino a quando al suo interno continua la comunicazione» (Paroni, 2004, 60). «Il divertimento consiste nel fare, nel ricordare e nel raccontare ad altri quelle esperienze in cui si è sperimentato un forte legame reciproco e in cui si è approfondita la conoscenza reciproca» (Ibidem, 61).

    I rapporti di coppia

    Una particolare forma di comunicazione è quella che avviene tra uomo e donna, in virtù delle caratteristiche sessuali che li distinguono e li rendono complementari l’uno all’altro. Questa diversità di «genere» costituisce un potente appello ad uscire fuori di sé ed incontrare l’altro, completandosi nel dono reciproco. Questo bisogno è molto sentito dagli adolescenti e dai giovani.[6]
    S’è osservato in questi anni un mutamento di costume che consente di affrontare la sessualità senza quei vincoli biologici a cui era stata da sempre sottoposta. S’è così potuto operare una distinzione tra amore (che ha bisogno di esprimersi anche sessualmente) e riproduzione. Con questa si è ottenuto una liberalizzazione dei rapporti tra i sessi: c’è maggior facilità di stabilire un contatto, di iniziare una relazione, di avere dei rapporti, senza che questo voglia dire subito «matrimonio, figli, famiglia…». Il sesso può essere usato liberamente come espressione del sentimento: c’è una visione più gioiosa, serena, disinvolta della sessualità. L’espressione dell’amore ha riscoperto il linguaggio del corpo. I giovani concepiscono il sesso come «necessità di riscoprire la tenerezza, di imparare a toccarsi e ad accarezzarsi, di vivere liberamente la propria sensorialità, di esprimere – per dirla con la psicoanalisi – tutta la dimensione del corpo perverso-polimorfo» (Borgna, 1983, 138).
    Questo ha comportato un modo nuovo di rapportarsi tra persone, più semplice, più aperto: un riconoscimento della parità tra i sessi.[7] Da parte della donna una maggior consapevolezza di sé e del suo posto nel mondo. Nella società globalmente ciò ha voluto dire una maggior sensibilità alla persona ed al rapporto tra persone.
    Questa nuova sensibilità che comporta l’assunzione di una diversa prospettiva rispetto al sesso e all’amore di coppia, un cambiamento di mentalità soprattutto. Anche se sovente dal rapporto di coppia non ne discende un vero impegno che trasformi il tipo di legame e la qualità dei rapporti.
    «L’amore per la maggior parte dei giovani – anche per quelli di loro che hanno già un legame – rimane una dimensione da sogno: nessuno si nega un futuro in cui ci sia spazio per un innamoramento, ma al tempo stesso, senza una particolare voglia di investire su esso. […] I giovani temono l’impegno che gli investimenti interiori comportano, così come hanno paura di tutto ciò che non riescono direttamente a controllare: la guerra, la violenza, le patologie sociali, nonché tutte quelle insicurezze interiori che procurano noia e spesso non hanno risposte (la solitudine, la morte, la sofferenza e il dolore fisico)» (Censis, 2002, 12).

    I nuovi canali dell’autoespressione

    L’autoespressione, oltre alle forme tradizionali, ha trovato una via privilegiata nei nuovi media. La diffusione dei computer, dei videogiochi, di telefonini, dei giochi elettronici ha contribuito ad evolvere un nuovo tipo di uomo, molto più digitale, dove la realtà virtuale si confonde e a volte supera quella reale. Queste nuove condizioni di vita hanno dato origine ad un nuovo modo di vivere, di pensare, di operare, di parlare, di esprimersi. I linguaggi, gli orizzonti, i significati che emergono dalla vita dei ragazzi risultano sovente di difficile decodificazione per gli adulti, ma sono una fonte irrinunciabile di comprensione della loro diversità.
    Al linguaggio concettuale, logico, geometrico del passato (concentrato nella parte sinistra dell’emisfero cerebrale) si sostituisce, per effetto del rapporto privilegiato con i media, il linguaggio analogico, simbolico, emotivo, intuitivo, creativo della parte destra. Di conseguenza si preferisce un approccio e­mo­tivo e concreto alla realtà a scapito di quello analitico, un po’ freddo e distaccato, che vorrebbe la logica scientifica e libresca.
    Il linguaggio dei giovani e adolescenti è fatto di spot e flash. Parole usate come slogan, che colpiscono più per la loro capacità evocativa, che per il contenuto verbale. La grammatica ed il vocabolario si impoveriscono, prevale la logica degli SMS, delle e-mail, delle chat on line con comunicazione sintatticamente incomprensibili, ma molto efficaci sul piano evocativo. Anzi, lo stesso linguaggio si sta evolvendo, come ricerche stanno documentando.
    I mezzi comunicativi diventano sempre meno quelli scritti e sempre più quelli simbolici. La musica è molto di più di un semplice consumo. È un linguaggio, una fede. La musica divide i giovani in tante fedi e in tante religioni quanti sono i generi musicali. «Metallari, punk, dancer, multietnici, techno, ecc., non sono solo generi musicali, ma sono modi di pensarsi e di percepirsi con visioni di stili di vita spesso diametralmente opposti gli uni dagli altri» (Pasqualetti, 2001, 10).
    Legata alla musica e al corpo vi è anche la danza ricca di gesti, riti, significati, finalità. Un’attenzione particolare merita la notte, cercata anche in contrapposizione al giorno spazio del mondo adulto. La notte nel vissuto giovanile appare come «spazio del mistero, dell’avventura, del non definito, del possibile, del trasgressivo, del «poter osare», del limite da oltrepassare… anche a costo della vita» (Ibidem). Vi è anche una ipervalutazione del corpo, uno sfruttamento, un abuso. Certe intemperanze alimentari, motorie (ballo), di resistenza (sulle auto, come sui deltaplani, al mare o sulle montagne), gli eccitanti, le droghe, star svegli per 48 ore di seguito… tutto questo non è fatto per il benessere del corpo.
    «Alla fruizione musicale e sportiva si associa anche una forte partecipazione a sagre e manifestazioni locali, simbolo di un attaccamento al proprio territorio che coesiste pacificamente con la partecipazione al mondo globalizzato» (Buzzi, 2002, 3)
    Indubbiamente l’uso dei nuovi mezzi di comunicazione permette al fruitore di sentirsi protagonista, già solo per la padronanza del mezzo che dilata a dismisura i suoi organi. La presenza istantanea a tutti gli avvenimenti del pianeta allarga il suo universo cognitivo e gli permette di sintonizzarsi con i problemi di tutto il mondo. Nel frattempo matura capacità di uso della nuova tecnologia e padronanza del linguaggio multimediale che diventano, sempre più, anche nuove professionalità messe a disposizione dei nuovi bisogni di comunicazione, di amministrazione, di mercato, di processi produttivi, ecc. Le possibilità di comunicazione interattiva aiuta a sviluppare capacità relazionali nuove, anche se tutto questo si gioca nel virtuale.

    Tempo libero: tempo di relax

    Dietro a queste manifestazioni emerge il bisogno di rilassarsi, liberarsi dalla fatica e dallo stress della vita moderna. Molti adolescenti hanno un grande bisogno di dimenticare tutto, creare una rottura con la quotidianità. Per loro la vita, a dispetto delle apparenze, non è facile: consumano enormi quantità di energie, soprattutto psichiche. Il passaggio dall’età infantile, la fatica di crescere, l’im­pat­to spesso deludente con una società poco accogliente, i conflitti interni, i problemi di identità, dell’immagine di sé, i problemi del proprio futuro, la costruzione di un proprio quadro mentale di riferimento, i problemi affettivi e relazionali… tutto per loro è nuovo e chiede una continua rielaborazione. A questo si aggiungono i problemi quotidiani, dalla scuola alla famiglia, dagli amici all’amore nascente, dal bilancio ai mille impegni da conciliare.
    Ecco allora il bisogno di far festa, di giocare, di divertirsi: tutte attività possibili grazie all’am­­pia disponibilità di tempo libero, il quale sta diventando il «tempo» per eccellenza nell’attuale fase sociale.[8] Il tempo libero è visto come luogo del diritto al piacere, al godimento, alla felicità per se stessa. Una situazione che sta cambiando la società, in cui all’etica del dovere, del sacrificio, di ascendenza calvinista, si contrappone l’etica del gioco, del piacere.
    La ricerca di momenti di festa, di divertimento rappresenta, quindi, un «momento forte». Non è il momento del disimpegno o della passività. È invece il momento in cui le energie personali e collettive vengono messe a servizio di attività che rispondono maggiormente a interessi e bisogni più profondi e vitali.[9] In questa esperienza si intrecciano e coesistono il senso del godimento, della gratuità, del contatto affettivo con sé e della relazione con gli altri. La festa può diventare un’espe­rien­za assai arricchente nel processo di divenire «persona».[10]
    Infatti la festa ha una funzione antropologica fondamentale: sottrarre il tempo all’inelut­tabilità. La festa, ponendo un limite al tempo, ne scandisce il ritmo, gli dà un significato. Oggi che il tempo incalza, quest’interruzione è ancora più necessaria per riscattarlo dalla sudditanza ai ritmi frenetici della produzione e degli obblighi sociali.
    I ragazzi, cercando un tempo non computato, sottraendosi alla logica dell’orologio, indicano un bisogno di uscire dal frenetico ritmo di vita quotidiano per entrare in una dimensione «altra», che dice separazione dalla quotidianità per poterla risignificare.
    Non per niente per molti adolescenti il tempo tra due sabati è tempo insignificante, illuminato solo dall’attesa di tornare in discoteca. È la stessa logica che presiede la formazione delle feste e del calendario.
    Solo che ora non è la mietitura o la vendemmia che sono attese al loro termine per festeggiare, ma è una scuola «lontana» o il lavoro monotono e ripetitivo, o, ancor peggio, la disoccupazione che consegna il ragazzo alla noia di un giorno uguale all’altro, in cui non sa come «sbattersi».

    RITORNO A BISOGNI MATERIALI

    A dispetto della prevalenza postmaterialista, ci sono dati che informano che i bisogni materiali non sono ancora stati del tutto superati. A fronte dell’indubbia crescita economica della società italiana ed occidentale in questi trent’anni, e della situazione generale di benessere, riemergono vecchie povertà, che possono corrispondere alla mancata soddisfazione di bisogni primari, come l’alimentazione, l’abitazione, la salute, la sicurezza, o a problemi sociali ad essi connessi come la disoccupazione, l’emigrazione, la delinquenza, l’alcoolismo, la violenza, ecc.
    Infatti il bisogno insoddisfatto genera disagio, il quale, a sua volta, può dar luogo a comportamenti devianti (Vettorato, 2008).

    Povertà, bisogni materiali e delinquenza

    In Italia permangono ancora forme di povertà e marginalità oggettive che aggravano il quadro sociale e contribuiscono a mantener desta la consapevolezza che non tutti sono arrivati a soddisfare neppure i bisogni più elementari, e che l’accesso alle risorse sociali, economiche e culturali, non è realmente aperto a tutti. Permane sempre la figura tradizionale del ragazzo di periferia, che abita in un quartiere invivibile, che non va a scuola, che non ha opportunità valide di inserirsi nella vita ed appartiene ad una famiglia incapace di essere una valida guida. A questo si aggiungono le forme di povertà estrema degli immigrati, che non hanno i mezzi necessari per vivere e si sentono autorizzati a ricorrere a mezzi illeciti per soddisfare i bisogni di sopravvivenza.
    Oltre a queste forme, c’è un progressivo aumento di soggetti anche in età giovanile (dai 17 ai 30 anni) che rischiano di entrare, o sono già entrati, nell’area dell’esclusione sociale, a motivo della disoccupazione, della precarietà occupazionale, della «diversità» socialmente inaccettabile, ecc.
    A ciò sovente si aggiunge l’assenza di informazione e formazione professionale: ciò contribuisce a relegare i giovani periferici in una condizione di dequalificazione professionale, esposta alla concorrenza di manodopera straniera a basso costo e priva di diritti. In quest’area di disoccupazione e in occupazione c’è una forte connotazione femminile, che maggiormente «paga» il prezzo dei mutamenti intervenuti nella famiglia e nel tenore di vita medio (vedovanza, maternità, separazioni, malattie) anche in relazione alle crescenti difficoltà nella ricerca di un’occupazione, della posizione tradizionalmente marginale nel mercato del lavoro (lavoro nero, precario, evasione contributiva, ecc...) e del livello insoddisfacente dei servizi sociali.
    Non pochi giovani si percepiscono in situazione di disagio perché si ritengono insoddisfatti rispetto a bisogni che essi valutano come fondamentali ed essenziali ad una «sopravvivenza adeguata» (deprivazione relativa).[11]
    A motivo di queste povertà proliferano, accanto a vecchie forme di delinquenza minorile (reati contro il patrimonio, o contro le persone), altre (relativamente) nuove, quali la prostituzione (anche maschile), la violenza sessuale (nelle versioni etero e omosessuale), la pedofilia. Un certo tipo di criminalità sembra trovare il suo «habitat» privilegiato in ghetti popolari, tra stranieri (spaccio di droga), nomadi (furti), oppure italiani delle periferie o aree suburbane. Così assistiamo ad un aumento di ragazzi denunciati penalmente, soprattutto nel Meridione, per affiliazione alla mafia o ad altre organizzazione criminali.
    A loro volta tali manifestazioni devianti costituiscono una minaccia per l’intero ordine sociale e determinano un innalzamento della richiesta di sicurezza in tutti i cittadini.

    L’aumento della domanda di sicurezza

    Il bisogno di sicurezza si è rifatto vivo praticamente già in contemporanea con la data di pubblicazione del saggio di Inglehart (1977; 1983).
    Tale bisogno, che a giudizio dell’illustre sociologo era ormai stato saturato nelle popolazioni dei paesi ad economia avanzata, riemerse soprattutto a causa della fine del ciclo virtuoso dell’economia. La crisi occupazionale che ne seguì fu pagata soprattutto dai giovani. Alla mancanza di lavoro si supplì accettando un aumento di precarietà. Ciò produsse un ampliamento del bisogno sicurezza. I giovani reagirono, infatti, da una parte prolungando la loro permanenza nel sistema formativo, dall’altra sviluppando una serie di iniziative per non perdere i benefici acquisiti. Ne conseguì una notevole flessibilità e mobilità: disponibilità a «provare» professioni diverse, a «crearne» di nuove, a passare dal ruolo di studenti a quello di lavoratori, a quello di inoccupati, per poi riprendere magari gli studi.
    La disoccupazione, insieme all’allungamento del tempo di formazione e la procrastinazione del momento d’entrata nella vita adulta, divenne una caratteristica della condizione giovanile, vista come di un periodo di obiettiva «emarginazione». Nel rilevare tale situazione Cavalli (1980) parlò di una trasformazione della fase giovanile da «proces­so» a «condizione», con l’effetto macroscopico di allungamento della fase di socializza­zione, ma anche di mutamento nei modi di vivere la giovinezza e nell’evoluzione verso la maturazione personale e sociale.
    Oltre alle difficoltà occupazionali, il bisogno di sicurezza era provocato anche da motivi sociali. La vita stava diventando sempre più rischiosa ed insicura, ed anche i giovani espressero una sempre più vivace domanda di sicurezza sociale e di ordine. Ciò si manifestò nell’orientamento del voto verso destra, ma anche in forme xenofobe. Infatti negli anni ’90, con l’aumento dell’immigra­zione clandestina, emerse la paura nei riguardi degli immigrati, per tramutarsi, dopo l’at­ten­tato delle Torri Gemelle (2001), in timore di attentati, di esplosioni e di guerra in generale. Oltre a questi, la paura sociale si alimentava per la diffusione della droga, dei vandalismi, dei furti, ed infine della pedofilia (Censis, 2002, 48-52).
    Un ulteriore elemento di insicurezza è costituito dalla crescente difficoltà di scandire in tappe o eventi socialmente riconosciuti la transizione verso l’acquisizione di ruoli adulti.
    Le tappe che segnano tale transizione [12] sono rimaste sostanzialmente le stesse: la fine del corso formale degli studi, l’acquisizione di un lavoro potenzialmente stabile, l’abbandono della casa dei genitori per «metter su» una propria dimora, il matrimonio, la maternità/paternità.
    «Da molto tempo nelle società occidentali si è consolidata una duplice tendenza che da un lato ha avuto l’effetto di restringere il periodo dell’infanzia e dall’altro ha determinato il prolungamento progressivo dei tempi necessari per transitare verso l’età adulta. Nel nostro paese il fenomeno del rinvio delle tappe di passaggio si è configurato in modo molto più intenso che altrove» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2002, 20-21).
    Questa tendenza crea incertezza perché il giovane non sa quando potrà concludersi il periodo di formazione ed attesa. L’incertezza si riflette a sua volta sulle scelte concomitanti.
    Per cui, secondo lo IARD, «la dimensione dell’incertezza è oggi quella che meglio definisce la condizione giovanile» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2002, 520). Questo, sia per motivi sociali (allungamento dei tempi di formazione, difficoltà a trovar lavoro, protezionismo delle famiglie), ma anche culturali. I giovani preferiscono rimanere in tali condizioni di incertezza piuttosto che assumersi il rischio e la responsabilità di affrontare strade nuove per uscirne più rapidamente. Se non hanno «paura di crescere» (Censis, 2002, 49), non dimostrano nemmeno troppa «fretta» di farlo (Cavalli – Galland, 1996).
    Questa insicurezza e incertezza alimenta a sua volta il disagio. Infatti sono le categorie più esposte alla precarietà a manifestare maggior insoddisfazione.[13]

    DISAGIO DA BENESSERE

    C’è un altro tipo di disagio che non nasce da situazioni materiali deprivate, da marginalità sociale e culturale, bensì dall’eccedenza delle opportunità, dall’abbondanza di beni di consumo, dal centro e non dalla periferia del sistema socio-economico. L’abbondanza produce una situazione di sofferenza diffusa o disagio, chiamato anche «a-sintomatico», cui mancano molti degli indicatori che una volta definivano il disagio o la marginalità sociale. Questo «disagio diffuso» o «a-sintomatico» si qualifica per «una molteplicità di elementi insignificanti (se visti singolarmente, per quanto riguarda la storia dei singoli soggetti) che possono però nel complesso determinare una condizione ultima di disagio» (Guidicini – Pieretti, 1995, 17).
    Questa «a-sintomaticità» del disagio chiede di «spostare l’interesse sull’informale, sulla cultura, sullo psichico, sulle microfratture che si rigenerano costantemente dentro al sistema relazionale» (Guidicini – Pieretti, 1995, 21).
    Si tratta del disagio che nasce da situazioni, come la mancata comunicazione interpersonale, la solitudine e l’isolamento che colpisce i giovani senza appartenenza, gli alienati e i culturalmente sradicati; l’handicap e il disagio psichico e fisico; la deprivazione culturale; l’impossibilità e incapacità di certi giovani ad accedere alle istituzioni o alle opportunità offerte dal sistema economico-sociale e culturale, che possono andare dal tempo libero (attività sportive, associazionismo, turismo, ecc.) alla cultura (Internet e i nuovi linguaggi) alla partecipazione sociale (partiti, sindacati, associazioni, movimenti, ecc.).
    Il nuovo povero è in realtà l’escluso dalla capacità di esercitare il controllo (cioè di conoscere ed utilizzare) sulle nuove conoscenze tecnico-scientifiche. In questo senso la nuova povertà [14] si identifica quasi totalmente con la marginalità economica e sociale e si esprime non solo in termini economici ma anche culturali e psicologici. Un’area sempre più connaturata con la nostra società postmoderna (Bauman, 2005).
    Alcuni giovani, dietro ad un’identità di facciata apparentemente funzionante, nascondono una notevole fragilità interna. Un certa parte di giovani ha difficoltà di adattamento all’interno della propria attività primaria (in genere scolastica). Sovente queste difficoltà hanno un fondamento relazionale. Ciò significa che questa dimensione psicologica è quella più fortemente correlata alle espressioni del disagio e della devianza, sia come causa che come effetto.
    Molte di queste forme denunciano sia carenze di tipo evolutivo della personalità sia situazioni poco favorevoli dovute al sistema sociale.

    Bisogno di appartenenza: in che termini si declina la nuova solidarietà?

    L’appartenenza è il bisogno che occupa il terzo posto nella scala di Maslow, il primo dei valori post-materialisti. Le ricerche IARD, mentre documentano il progresso dei valori postmate­rialisti, dimostrano pure che prevale la dimensione individualista della libertà, mentre i valori solidali si riducono sempre più. La mobilitazione civile e politica non è diventata un tratto stabile delle nuove generazioni.
    Se negli anni ’60-’70 la militanza politica aveva fornito una fonte di identificazione e di appartenenza, dalla fine degli anni ‘70 la presa di distanza dei giovani dalla politica, intesa come militanza o come «dimensione pervasiva che informa di sé tutte le attività e le relazioni umane» (Cavalli – De Lillo, 1984, 85), si è fatta sempre più marcata. In compenso è cresciuta l’adesione episodica a temi, come la pace, il disarmo, la scuola, l’ambiente. Possono essere queste le nuove forme della solidarietà e della democrazia partecipativa, come asseriva Inglehart (1990)?
    Su tale argomento si è registrato un vivace dibattito tra gli sociologi fin dagli anni ’80. La tendenza a mobilitarsi su temi «issue oriented» poteva costituire un dato a favore delle ipotesi di Inglehart, ma anche una «strategia dell’evitamento, descritta da Offe a proposito dei Verdi tedeschi» (Ferrarotti, 1986, 15).
    È stata sottolineata l’alta adesione all’associazionismo, a forme di volontariato, all’aggre­ga­zione di base, o ad iniziative localistiche come nuova via alla partecipazione democratica. La strategia adottata dalla maggior parte dei giovani sarebbe quella di valorizzare i rapporti del «mondo vicino» – luogo di evidenze originarie e di rapporti faccia a faccia – per ricostruire un senso, un rapporto sociale. Ciò può esser anche vero, ma indica comunque il venir meno di un concetto classico di partecipazione politica, intesa come «forma di agire dotata di un minimo di organizzazione e di continuità» (Cavalli – De Lillo, 1988, 92). È la famosa «sindrome privatistica» rivelatrice di disgregazione del sociale, di perdita di connessione tra mondo vitale e sistema sociale (Ardigò, 1980, 23).
    Negli anni più recenti anche tali forme di partecipazione di base hanno mostrato segni di flessione: «I giovani preferiscono di gran lunga la dimen­sione di gruppo spontanea a quella organizzata» (Censis, 2002, 33). E, tra le strutture organizzate cui i giovani tendono ad aderire con maggiore frequenza, prevalgono quelle meno gerarchiche e che presentano maggiori spazi di libertà individuale (Ibidem).
    Ciò non vuol dire che non esiste più solidarietà, ma che il valore primario è la libertà, ed anche le forme di impegno e solidarietà sociale devono declinarsi in accordo con tale valore, come riconosce acutamente il CENSIS:
    «Spontaneità e libertà nell’impe­gno, autorganizzazione, rifiuto di formalismi e gerarchie, improvvisazione, ma anche disponibilità a impegnarsi solo laddove è possibile restare protagonisti delle proprie azioni, sono infatti attitudini tipiche della gioventù, tipiche del nostro tempo, che contra­stano spesso e volentieri con gli imperativi del gruppo organizzato. In quest’ottica il declino dell’associazionismo […] sembra esprimere più che il rifiuto categorico di ogni forma di impegno da parte delle giovani generazioni, l’inadeguatezza delle soluzioni organizzative attuali a coniugarsi con una domanda di impegno sociale probabilmente mutata, perché sempre più rispondente a un modello antropologico centrato sul primato della libertà e dell’azione individuale» (Censis, 2002, 33).
    Questo nuovo tipo di socialità è il segno di un ripiegamento su solidarietà «corte», immediatamente controllabili, fungibili, e fonti di gratificazione immediata.
    In tal modo si delineano le tappe della socialità e dei rapporti primari: dalla famiglia al gruppo per concludersi nel rapporto di coppia (Cipolla, 1989, 59).
    «L’atteggiamento altruistico puro è criticato come irrealistico: «io non sono d’accordo che bisogna essere solidali con tutti. Io sono solidale con le persone che stimo», mentre si enfatizza la solidarietà ad personam, rivolta all’amico: “quando c’è amicizia c’è anche la solidarietà”» (Tucci, 2002, 2).
    Diamanti (2001; 2003) in più occasioni ha evidenziato qualche elemento di novità nel panorama giovanile con il nuovo millennio. Mostrerebbero innanzitutto un più accentuato interesse per il sociale, per l’ambiente, per il territorio; si evidenziano anche nuove attenzioni politiche, che portano ad orientarsi piuttosto a sinistra nel voto. Lo stesso autore, nell’analisi dei dati IARD (1997; 2002), ha sottolineato da un lato, il persistere di un forte radicamento locale, dall’altro la tendenza a combinare i diversi livelli territoriali in forme flessibili e aperte anche ai territori trans-nazionali.
    «Tale quadro non è cambiato: quattro giovani su dieci esprimono un sentimento di appartenenza prioritario per il comune in cui vivono, mentre solo un quarto opta per l’Italia» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 275).
    Pur percependo la minaccia dello sradicamento territoriale, frutto della società postmoderna, complessa e multiculturale, i giovani reagiscono coagulandosi attorno al recupero delle tradizioni locali senza rinunciare ad essere contemporaneamente cittadini di qualcosa di più vasto.
    «Essi appaiono, anzitutto, attaccati alla loro città, ma anche alla nazione. Si dichiarano orgogliosi di essere italiani, ma senza esprimere identità esclusive. Essi, cioè, non appaiono né localisti né nazionalisti. Si dichiarano orgogliosi di essere italiani, ma senza esprimere identità esclusive. Piuttosto, in questi anni hanno allargato il loro sguardo oltre i confini nazionali. Si presentano, quindi, più cosmopoliti e più europei. Con una battuta: hanno molte patrie, molti orizzonti territoriali; e, dunque, nessun riferimento esclusivo» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2002, 338).
    Di conseguenza emerge un bisogno per certi versi nuovo, o almeno più evidente: la necessità di trovare nuove forme per esprimere la solidarietà.
    Dal punto di vista più politico è impressionante il numero di giovani che manifesta disgusto per la politica, anche se la percentuale nei riguardi dell’edizione del 2000 è diminuita (23.1% vs. 26.5%); comunque sempre più alta di quella dell’83 (12%). In ogni caso la stragrande maggioranza non si sente politicamente impegnata, anche se un 38.3% si tiene informato. Però non rifiutano la partecipazione concreta, magari parlandone o assistendo ad un dibattito in TV. Solo un 23% non partecipa mai (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 290-291).
    Prescindendo da motivi diffusi, come la tendenza generale all’astensione dal voto e alla sfiducia verso la politica, caratteristiche delle democrazie più avanzate, resta da individuare quali sono le motivazione dei giovani italiani. Essi, di fronte ai problemi sociali, invece di provocare tensioni al cambiamento, cercano soluzioni individuali, si ripiegano su se stessi o nel piccolo mondo dove i processi e le reazioni sono più controllabili e dove si percepisce il «senso» del proprio impegno e della propria attività. Il dato confermerebbe «quanto il processo di progressiva individualizzazione e assunzione della libertà a valore fondante del vivere sociale, finisca per risultare incompatibile con logiche di aggregazione che presuppongono al contrario il sacrificio della propria individualità a vantaggio di quella comune» (Censis, 2002, 33).

    Il bisogno di stima

    La psicologia pone il bisogno di stima in relazione con situazioni problematiche come la depressione, forme borderline, o altri disturbi (solitudine, anoressia, assunzione di stupefacenti e psicofarmaci). La frequenza con cui negli ultimi anni tali problematiche sono state trattate può essere assunto come indicatore della rilevanza del bisogno di stima/autostima.
    A livello sociologico tale bisogno può essere rintracciato nel desiderio di protagonismo, di sperimentazione di sé, di autonomia. Quali gli spazi sociali per l’in­tra­pren­den­za ed il protagonismo giovanile, se la partecipazione viene scoraggiata, si allungano i tempi della formazione, vengono contratte le prospettive occupazionali, rinviate le tappe di ingresso nella vita adulta? Si rompe uno meccanismi tradizionali attraverso cui il giovane diventava membro attivo ed apprezzato della società e si assumeva le sue responsabilità.
    Tale meccanismo viene progressivamente rimpiazzato da altri accorgimenti, che possono lasciare interdetti gli adulti, ma che sono inevitabili di fronte al blocco sociale nei riguardi dei giovani. Ad essi non rimane oggi, come ambito di sperimentazione sociale, che i consumi, i mass-media, i gruppi e la scuola.
    La scuola non è più vista dai giovani come luogo centrale per l’elaborazione e la formazione culturale. Essa ha perso gran parte della rilevanza sociale perché non riesce ad intercettare né la domanda giovanile, né quella sociale. Nè serve a preparare ad una professione futura, perchè il mercato del lavoro cambia continuamente e richiede figure professionali sempre nuove, cui la scuola non riesce ad adeguarsi in tempo.
    C’è una generalizzata disaffezione dei giovani verso la scuola e più ancora verso l’istruzione come strumento di autorealizzazione, di inserimento e di successo sociale. Lo evidenzia l’elevata dispersione scolastica, nonostante tutti gli sforzi delle autorità competenti. Tale fenomeno è forte­mente correlato con i percorsi del disa­gio e della devianza giovanile. Sovente chi è espulso dai percorsi scolastici, è già stato emarginato dai compagni. Non gode così di uno dei pochi benefici che essa rappresenta per la maggioranza degli allievi: la socializzazione orizzontale.
    Il protagonismo deviante nei gruppi adolescenziali
    Il bisogno di protagonismo sociale viene soddisfatto prevalentemente attraverso il gruppo. In esso l’adolescente ha l’occasione di evolvere in socialità e di elaborare una propria identità che si avvale dei modelli e dei meccanismi del gruppo per manifestarsi e definirsi. Le attività comuni nel gruppo sono la possibilità per sperimentare e conoscere i propri limiti e risorse, i limiti delle proprie prestazioni fisiche e le possibilità che derivano dalle recenti trasformazioni del corpo, i limiti delle nuove acquisizioni psichiche e la sperimentazione delle proprie capacità di ragionare, teorizzare, verbalizzare.
    Ciò porta l’adolescente a contrap­porsi alla società degli adulti, a costruire un sistema di valori e norme alternativo al sistema sociale vigente. In questo processo il gruppo fornisce un sostegno emotivo e culturale, aiutandolo a superare le angosce di separazione connesse con questo strappo. Il gruppo, infatti elabora un sistema di regole, di valori, ma anche di codici comunicativi come il linguaggio, il vestito, i luoghi di ritrovo, gli interessi, i gusti musicali, gli atteggiamenti e comportamenti che costituiscono la cultura del gruppo e servono come elemento di differenziazione dagli altri gruppi e soprattutto dagli adulti.[15]
    Il gruppo diventa un «luogo di elaborazione di senso» e «mondo vitale» per molti adolescenti (Baraldi, 1988). Il gruppo diventa dunque un riferimento anche dal punto di vista normativo tanto che i comportamenti e gli atteggiamenti vengono generalmente uniformati a quelli dei coetanei (Maggiolini – Riva, 1999). Le regole del gruppo sovente contemplano la messa in atto di comportamenti trasgressivi. Ciò si combina con la tendenza, tipicamente adolescenziale, di considerare il rischio come una prova di coraggio.[16] Tali comportamenti nascerebbero da due ordini di motivi: lo sviluppo dell’identità e la partecipazione sociale (Bonino et al., 2003). Il comportamento a rischio sarebbe un «comportamento con­tenitore, uno spazio per esprimersi liberamente e essere protagonisti» (Valario et al., 2005, 36).
    Ecco perché «molti adolescenti sono attratti da comportamenti ‘spericolati’ che soddisfano il desiderio di vivere sensazioni nuove ed eccitanti: questo fenomeno è noto come sensation seeking, ossia ricerca di sensazioni forti. Spesso tali condotte sono sostenute da un atteggiamento di ottimismo ingiustificato, basato sulla credenza di essere immuni dal pericolo e dall’egocentrismo caratteristico dell’adolescenza. Per un adolescente affrontare sfide che tendono a superare le sue normali capacità è funzionale all’esigenza di ‘sentirsi adulto’ e permette di lenire le ansie legate ai cambiamenti di questo delicato momento di crescita. Il legame con il gruppo dei pari, inoltre, fornisce il ‘teatro’ ideale per la messa in atto di comportamenti trasgressivi, attraverso i quali il/la ragazzo/a dimostra il proprio valore e si sente accettato. La situazione di gruppo, inoltre, facilita un abbassamento nella percezione dei pericoli insiti in una determinata situazione» (EURISPES, 2002, 140).
    Il gruppo adolescenziale richiede autentiche dimostrazioni di fedeltà; spesso sottopone a «prove di iniziazione» i nuovi arrivati per valutarne la forza e il coraggio – ed eventualmente assegnare loro un ruolo – e rappresenta anche lo spazio che accoglie l’emergenza dell’agire deviante (De Leo – Patrizi, 1999). Antropologi e psicologi ipotizzano che tali comportamenti tendano a supplire la mancanza di «riti di passaggio» che dovrebbero sancire il passaggio dall’età infantile a quella adulta (Vallario et al., 2005). Tali «riti di passaggio» sarebbero invece celebrati nel gruppo, che è funzionale al momento di transizione dell’adolescente dallo status infantile a quello adulto. Nel gruppo l’adolescente può trovare uno spazio in cui può esprimersi con maggiore libertà ed autonomia e la necessaria sicurezza per superare i compiti di sviluppo connessi a tale fase evolutiva. Il gruppo dei pari, infatti, diviene luogo dove condividere la propria «immaturità». Qui l’immaturità e l’incompiutezza possono, in un confronto paritario, generare quei processi creativi che aiutano l’adolescente nella sua crescita (Baldascini, 1993, 149-162).
    Il forte senso di lealtà che si sviluppa verso le norme, i codici, le figure di riferimento del gruppo, può portare al «conformismo». Questo legame di dipendenza impedisce a volte al singolo di sottrarsi alle proposte del gruppo e di valutare autonomamente il rischio, per la paura dell’esclusione con l’accusa di essere codardo o traditore.
    Per tale motivo aumentano i casi di violenza collettiva «espressiva» o «simbolica»: una violenza, cioè, che non ha degli obiettivi precisi (procurarsi dei beni altrimenti non accessibili, imporre il proprio potere in un territorio, ecc.).
    Questo tipo di devianza è messa in atto sovente da ragazzi appartenenti a famiglie benestanti (baby gang) e si manifesta con comportamenti violenti e immotivati, che vanno da forme di bullismo a scuola, al lancio di pietre contro autovetture, al danneggiamento di cabine telefoniche o di cassonetti o di autovetture per la strada, fino ad arrivare in casi estremi fino all’omicidio gratuito.
    Sembra che il comune denominatore sia costituito da una certa difficoltà a riconoscersi ed integrarsi in questa società. Difficoltà che si esprimerebbe con rabbia distruttrice contro tutto ciò che simboleggia una civiltà da cui si sentono attratti e, insieme, respinti. Tali manifestazioni diventano più evidenti nelle grandi concentrazioni urbane e si manifestano contro i simboli del centro (metropolitana, vetrine, automobili).
    Sovente le radici del malessere stanno anche nelle situazioni familiari, ed in particolare, nell’atteggiamento di genitori troppo impegnati nel lavoro alla ricerca sempre più intensa del benessere, ma poco attenti ai figli, ad un sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità. L’esplodere di tali comportamenti devianti, che costituiscono per lo più la reazione dei figli a tale contesto, coglie spesso i genitori impreparati.
    Tali aggregazioni raramente assumono il carattere della «banda»: manca loro sia la strutturazione interna rigida, la programmazione di obiettivi concreti e utilitari, la violenza o la determinazione che permette di affermarsi contro altri gruppi o contro le forze dell’ordine. Sono gruppi composti quasi esclusivamente da adolescenti, ed hanno generalmente una vita alquanto labile.

    Indipendenza/dipendenza dai nuovi media

    Riguardo alla rivoluzione dei «nuovi media» e alle possibilità comunicative che essi mettono a disposizione, sono da prendere in considerazione eventuali influssi negativi cui possono dar luogo. Si può, infatti, riscontrare «dipendenza» da tali strumenti, sia per i condizionamenti sulla struttura cognitiva e valoriale, sia sulle capacità comunicative interpersonali. Possono accentuarsi fenomeni di passività, sottomissione, abulia, con scarsa propensione ad affrontare le difficoltà della vita e soprattutto ad interagire profondamente con le persone. Riguardo alle modificazioni sulla struttura cognitiva e valoriale, era già stato osservato, in tempi non sospetti, che questo «godere l’intensità e le sensazioni della superfi­cie delle immagini» (Burgalassi, 1989, 70) senza attingere ad una maggior profondità potesse delineare un nuovo tipo di cultura.
    La cultura delle nuove generazioni risulta piuttosto effimera ed è accusata di contribuire alla creazione di atteggiamenti superficiali. La sensibilizzazione da mass-media può dar luogo a «strutture giovanili deboli che – lasciate a se stesse – rischiano di incrementare paurosamente gli ambiti dell’emar­ginazione, della patologia sociale, dell’infelicità umana» (Burgalassi, 1989, 70).
    La realtà diventa ciò che «appare», e non ciò che «è». Prevale la civiltà dell’immagine. L’apparenza è più importante della sostanza. Domina la «percezione» sulla riflessione, la novità sulla solidità, lo spettacolo sul lavoro.
    Lo stesso consumismo, indotto dalla pubblicità attraverso i mass-media, sembra sfruttare la logica dell’apparire, che diventa «ostentazione». Di conseguenza l’immagine che i giovani danno di sé appare spesso con­trad­dittoria: «vivono accarezzando sogni, ma riescono a farli diventare progetti più nel mondo virtuale che in quello reale» (Orlando-Vettorato, 2002, 33).

    DESTRUTTURAZIONE DEI VALORI E DEI BISOGNI

    Rispetto alle ricerche di Inglehart, se da una parte i dati di questi anni sembrano confermare sostanzialmente le sue previsioni, dall’altra mostrano segni di involuzione, che ne sminuiscono la portata e rendono difficile osservare una linea evolutiva precisa verso valori e bisogni postmaterialisti.
    Dalle ricerche emerge invece la crescita di «bisogni misti» (Sorcioni, 1992). I giovani sembrano essere, come osservava Ricolfi (1990, 522), «materialisti sul piano dei valori e dei modelli culturali e postmaterialisti sul piano delle preferenze».
    Il miglioramento delle condizioni generali di vita comporta, da una parte un’evoluzione dei bisogni, con l’evidenziazione di «una struttura dei bisogni sempre più ‘esigente’ e omogenea tra i giovani che chiedono più cose, più opportunità materiali e strutturali, ma anche più comunicazione, più partecipazione/appartenenza/identificazione» (Malizia – Frisanco, 1991, 32). Dall’altra, per effetto dell’innalzamento della soglia di bisogni e la moltiplicazione delle opportunità, si ipotizza
    «un costante conflitto tra valori-bisogni di tipo acquisitivo-realizzativo (la competitività, il successo, il guadagno, la capacità di consumo, la possibilità di status e di potere) e quelli di tipo espressivo-postmaterialistico (la spontaneità, la fraternità, l’autenticità dei rapporti interpersonali, la libertà personale, la qualità della vita)» (Malizia – Frisanco, 1991, 31-32).
    A fronte di significative avanzate dei valori post-materialisti, si segnalano infatti frequenti regressioni a valori e bisogni materiali, soprattutto in occasione di recessioni economiche, di difficoltà occupazionali o di aumento di insicurezza sociale. Questo fenomeno era stato previsto da Inglehart, il quale affermava che lo spostamento dai valori materialisti a quelli postmaterialisti non eliminava il permanere dei bisogni materiali: «il postmaterialista non è un anti-materialista, procede alla soddisfazione di bisogni postmaterialisti solo dopo aver soddisfatto quelli materiali, ma non vi rinuncia» (Inglehart, 1998, 57).
    Ciò non può non rinviare alle antinomie presenti a livello sociale, che si riproducono all’interno dei singoli.
    Oltre alle incertezze sociali, è la ripresa di attenzione per i valori materiali, dettati da esigenze di status e ruolo, misurate attraverso il possesso di beni materiali «status symbol», che pone degli interrogativi profondi sul modello di Maslow-Ingehart. Il ritorno a bisogni e valori materialisti, proprio in nome di quel progresso che ne avrebbe dovuto assicurarne il superamento, costituisce un motivo assolutamente nuovo e non previsto, che rimette profondamente in discussione la gerarchia finora adottata. I bisogni non appaiono più disposti in forma organica e gerarchica, come Maslow ed Inglehart avevano ipotizzato. Ciò non consente di affermare che essi non ci siano, solo che la combinazione di scale di valore diverse manifesta una diversa coscienza del bisogno. Non sono cambiati i bisogni, è invece venuta meno la percezione di una priorità nella loro soddisfazione. Il giovane, se impossibilitato ad appagare un bisogno, preferisce cercare un altro modo per soddisfarlo ed eventualmente cambiare l’ordine d’importanza da attribuire ad ogni singolo bisogno.
    Non che la tensione all’autorealizzazione e ad una qualità di vita migliore sia tramontata. Ma sono gli strumenti ed i percorsi per arrivarci che sono cambiati. Ciò porta ad un rimescolamento dei motivi e dei valori, con presenza di istanze sociali, esigenze e valori materiali ed immateriali anche opposti tra loro, «la cui possibile coesistenza anche in uno stesso individuo tende inevitabilmente a generare gerarchie valoriali instabili, potenzialmente antinomiche e per loro natura in continua trasformazione» (Sorcioni, 1992, 9). Queste comprendono esigenze di autoespressione, di difesa della posizione socio-economica (occupazione e reddito) o dell’identità territoriale. Coesistono simultaneamente spinte verso modelli di società aperta e chiusure verso l’esterno (rifiuto dell’immigrazione). Un crogiuolo di esigenze ed aspettative, entro il quale possono manifestarsi pulsioni integrative e spinte disintegrative, e dove i problemi di identità possono esprimersi in una logica tanto complessa quanto socialmente dolorosa.
    Questi fenomeni darebbero luogo ad una «generazione combinatoria» (Sorcioni, 1992) e comproverebbero la mancanza di criteri stabili di orientamento valoriale, tendenza a combinare bisogni, valori e linguaggi a seconda del momento, senza alcun criterio ordinatore, semplicemente guidati dalla ricerca del piacere o dall’impulso del momento.
    Secondo il CENSIS (2001, 8), le caratteristiche della «nuova cultura giovanile» rispecchiano «fedelmente, e freddamente le contraddizioni, le antinomie e le patologie dell’attuale contesto sociale». E Cavalli, nell’ultimo rapporto IARD, sottolinea la sostanziale convergenza tra giovani e adulti in molte scelte valoriali (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 27-28).
    Per il resto viene confermata la lettura di Inglehart, ma con tempi e modalità di attuazione diversi da quelli previsti. Anche tra i giovani italiani sta emergendo un uomo postmoderno, caratterizzato dalla ricerca di condizioni di vita qualitativamente più significative, di soddisfazione immediata dei propri bisogni, alla ricerca i rapporti interpersonali e sociali soddisfacenti. Da uno stile di vita più gioioso, immediato, spontaneo. Un uomo che non cerca nella politica, nelle mete ideali, nei grandi progetti storico-collettivi la sua realizzazione, ma nel quotidiano, nelle relazioni faccia a faccia, nella costruzione di un mondo vitale carico di senso. Un uomo teso alla difesa dell’ambiente, della natura, della convivenza pacifica tra tutte le genti. Un uomo contrassegnato dalla tolleranza, più che dalla affermazione intransigente di principi assoluti.
    Un uomo che, probabilmente, è alla ricerca di un senso a tutto quello che fa. Senso che sovente gli viene garantito dal «fare», da una giustificazione ex-post, da un senso comune che è quello dell’ambiente in cui vive.
    Un senso che, tuttavia, forse non basta e va cercato in una dimensione più alta.

     

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    NOTE

    [1] A. De Lillo, nell’ultima indagine IARD, pone il problema metodologico della complilazione di graduatorie di valore. Ritiene che tre siano i fattori che maggiormente influiscono sulla variabilità delle preferenze: il genere, l’età e il capitale culturale (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 140). Secondo queste indicazioni le nostre riflessioni dovrebbero tener conto di tali fattori; ma, per ragioni di spazio, ci limitiamo alle tendenze generali, senza entrare in quelle più particolari.

    [2] A. Maslow (1973) aveva suddiviso i bisogni umani fondamentali secondo questa organizzazione gerarchica: a) bisogni primari, fisiologici (o materialisti): bisogno di sostentamento, bisogno di sicurezza; b) bisogni secondari, sociali e di autorealizzazione (post-materialisti): bisogno di appartenenza e amore, bisogno di stima, bisogni intellettuali ed estetici. Questi bisogni sarebbero animati da un principio progressivo e gerarchico. Una volta che un bisogno è stato appagato l’organismo avverte l’esigenza di un bisogno di tipo superiore.

    [3] È di fondamentale importanza, secondo Inglehart, il periodo in cui una persona ha ricevuto la sua socializzazione: il tipo di bisogno che è stato percepito come «il più importante» nel periodo della socializzazione determina anche il tipo di valori di base di quella persona.

    [4] Inglehart ha continuato le sue ricerche, estendendole progressivamente dal primo nucleo, che comprendeva negli anni ’70 i paesi della CEE, gli USA, il Canada, la Svizzera, il Giappone, ad altri fino a raggiungere, dopo trent’anni, circa l’80% della popolazione mondiale (https://www.worldvaluessurvey.org/). Va comunque tenuto presente che lo schema originario di Inglehart è stato messo in discussione e rivisto in tempi recenti dallo stesso autore e da altri (cf Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 151, n. 18).

    [5] Anche nell’ultima ricerca IARD la gerarchia dei valori rimane la stessa, a parte l’introduzione dell’item «salute» che conquista il primo posto. Per il resto si conferma una «crescente attenzione verso le aree della socialità ristretta (famiglia, amore, amicizia), diminuzione del ruolo del lavoro nella scala delle priorità, scarso interesse verso l’attività politica e, più in generale, verso l’impegno sociale e la vita collettiva» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 140).

    [6] «Il terzo posto, tra le persone significative, spetta al partner. E viene considerata ugualmente importante la continuità del rapporto (la crescita comune con l’altro), quanto l’esperienza conclusa, interpretata come una tappa di rilievo nel generale processo di crescita e socializzazione» (Tucci, 2002, 1).

    [7] L’ultima indagine IARD conferma che, se da una parte permangono stereotipi e differenze di «genere», quando entrano in scena i rapporti di coppia «le disparità fra ragazzi e ragazze, pur senza scomparire, si attenuano fortemente: gli uni e gli altri appaiono infatti impegnati nella costruzione di un universo di significati che parla il linguaggio del riconoscimento reciproco e della simmetria. […] Apertura verso la sfera dell’intimità e le dimensioni espressive della relazione; investimento sugli aspetti emozionali e comunicativi dello stare insieme; importanza assegnata al comprendersi, allo scambio con l’altro: centralità dell’esperienza che si vive insieme, qui e ora» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 244-245).

    [8] «Nella nuova società, caratterizzata dalla rivoluzione tecno-scientifica, il tempo libero diventa il luogo previlegiato della seconda rivoluzione culturale, che è di natura etico-estetica» (Dumazedier, 1978, 179).

    [9] «Il tempo libero [...] si manifesta nella sua dimensione più nuova proprio nella misura in cui esso afferma positivamente il diritto alla manifestazione completa delle tendenze più profonde dell’essere, represse dall’esercizio degli obblighi istituzionali. Il tempo libero riscopre il valore del gioco, la cui pratica terminava con l’inizio dell’età del lavoro e il cui valore risultava perduto con l’infanzia. L’infanzia e la gioventù: fonti permanenti dell’arte dei poeti, tendono a diventare le fonti di un’arte di vivere per tutti» (Dumazedier, 1978, 180).

    [10] «Il tempo libero rappresenta per i giovani un investimento strategico nella definizione e costruzione della propria personalità» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 340).

    [11] «La sensazione di povertà relativa, […] ha una componente soggettiva e può comportare, più della povertà economi­ca, insoddisfazione, senso di disagio e rischio di devianza» (Caliman, 1997, 114).

    [12] «La transizione nelle società moderne è scandita dal superamento di soglie, ovvero da tappe di passaggio, indispensabili per poter ricoprire stabilmente quelle posizioni sociali che contraddistinguono l’individuo adulto e lo differenziano dall’adolescente. Da un punto di vista metodologico è possibile far riferimento a cinque tappe principali che, pur non essendo tutte prescrittive dal punto di vista dell’individuo, appaiono socialmente necessarie per la riproduzione fisica e culturale di una società» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2002, 20).

    [13] «Coloro che mostrano insoddisfazione sono […] i giovanissimi, non ancora del tutto usciti dalle turbolenze adolescenziali, le ragazze, e coloro che non hanno riferimenti lavorativi, […] le situazioni intermedie di moratoria prolungata. […] Il disagio è quindi legato all’esperienza della precarietà prolungata» (Buzzi – Cavalli – De Lillo, 2007, 23).

    [14] Con il termine nuove povertà si intende la frustrazione di bisogni di tipo secondario, bisogni emergenti o meta-bisogni, in cui entrano elementi che hanno a che fare con la cultura, la psiche, lo spirito, ecc.

    [15] Baldascini (1993) sostiene la sostanziale importanza del gruppo per fare l’esperienza della «devianza» in adolescenza.

    [16] «L’adolescenza rappresenta la fase del ciclo di vita in cui il bisogno di rischiare, inteso come assunzione di rischi in termini comportamentali, si esprime con particolare intensità. Esso si manifesta tramite numerosi comportamenti di sperimentazione che fanno parte dei normali processi di sviluppo. Si tratta di condotte che consentono all’adolescente di mettere alla prova le proprie abilità e competenze, di concretizzare i livelli di autonomia e di controllo via via raggiunti e di sperimentare nuovi e diversificati stili di comportamento» (Malagoli Togliatti, 2004, 67).


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