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    (NPG 2009-09-35)

    Ricorda Signore
    questi servi disobbedienti
    alle leggi del branco.
    Non dimenticare il loro volto
    che dopo tanto sbandare
    è appena giusto che la fortuna li aiuti
    come una svista,
    come un’anomalia,
    come una distrazione,
    come un dovere.
    (da «Smisurata preghiera»
    di F. De Andrè)

    Giovanni è un ragazzo intelligente. I suoi occhi penetranti, curiosi, profondi stridono un po’ con l’espressione scanzonata da presa in giro o da «adesso ti frego io» ma, in realtà, noi sappiamo che vuole solo giocare d’anticipo, per non essere schiacciato, per non perdersi.
    Giovanni non conosce suo padre. Sua madre ha un buon lavoro fisso ma non le basta per gli abiti griffati, le notti in discoteca, le sedute di bellezza, così talvolta «arrotonda» rendendosi disponibile come accompagnatrice di uomini soli in visite d’affari.
    Giovanni dice che fa bene, che la vita va spremuta più che si può, ma in «quelle notti» non torna in camera sua, sta giù, in garage, a fare e disfare motori, dinamo, generatori. «Il mondo è una grande macchina, dice, e quando riuscirò trovare l’ingranaggio lo smonterò tutto in pezzettini». Così dice Giovanni, e intanto ti guarda, alto e bello, con occhi trasparenti, e se anche tu lo guardi con attenzione gli vedi dentro il buco nero del dolore.
    Giovanni a scuola un po’ ci va e un po’ no: frequenta l’Itis per diventare meccanico ma si annoia, si è sempre annoiato a scuola.
    Va in giro, Giovanni, per la città, per il quartiere; passa dai meccanici – ormai tutti lo conoscono – e per dieci euro li aiuta un po’ con gli scooter; va da amici e conoscenti e fa altrettanto. Poi si prende qualche spinello e la sera lo offre agli amici, perché lo spinello si fuma solo in compagnia, per condividere la noia.
    In oratorio andava quando era piccolo: giocava a basket e a calcetto, era un campione. Adesso ci va ancora ma sta fuori, sul muretto di confine ma fuori. Noi lo vediamo, lo salutiamo, lo invitiamo; lui scambia qualche parola, poi dice che non è più per lui e se ne va. Come la volpe con l’uva.
    Lì fuori Giovanni fuma con gli amici, scherza, commenta le «forme» delle ragazze dall’altra parte del muretto, prende in giro i ragazzi. La sua presenza è sempre meno gradita. I genitori si lamentano. Giovanni viene allontanato una, due, tre volte. Non lo si vede per un pezzo. La sera del suo 18° compleanno Giovanni organizza una «festa del muretto» in pompa magna: fuma, beve e poi passa in rassegna i motorini parcheggiati, ne sfregia due o tre poi sceglie il migliore e vola via. La polizia lo ferma due isolati dopo. Giovanni è maggiorenne. Giovanni è in carcere.
    Storie comuni, si direbbe, quotidiane. Come Cappuccetto Rosso. Il lupo, per sua natura, è sempre cattivo.
    Per Gianni Rodari, invece, la storia non è una, è altre storie, altre possibilità. Cappuccetto Rosso può essere «terribile, armato di trombone come il brigante Gasparone», così «quel che successe poi immaginatelo voi…».[1] È un’altra storia da immaginare, un altro punto di vista, quello del Lupo, preso di mira in tutte le storie. Possibile che per Giovanni la vita sia a senso unico? E se la ripensassimo?

    Un lupo allo zoo

    Era l’orgoglio dello zoo: un bel lupo grigio, massiccio, portamento austero, andatura elegante, testa alta e orecchie dritte; un esemplare unico. Era un capo-branco catturato nelle montagne del nord, abituato a prendere decisioni per tutto il gruppo, decisioni difficili ma sagge, che avevano sempre condotto le sue lupe e i suoi lupi fuori dal pericolo e sazi di ottime prede.[2]
    Un giorno come tanti allo zoo arriva una ragazzo come tanti. È strano, però, non comincia a gironzolare con distratta curiosità alla ricerca di qualche fotografia divertente ma si dirige subito verso la gabbia del lupo e lì si ferma, dritto e immobile, senza mai distogliere lo sguardo.
    I due, uno fuori dalla gabbia, l’altro dentro, si fronteggiano: il ragazzo vuol conoscere il lupo, ma quell’interesse inquieta l’animale: non riesce a darsene una ragione, lo rifiuta, si sente ferito nel suo orgoglio. La sua è una storia che non può e non vuole condividere più con nessuno, soprattutto da quando è morta la sua lupa. Tanto meno in quel posto, in quella prigione dove gli hanno tolto la storia, il ruolo, la libertà, la speranza. Infastidito dalla caparbietà del ragazzo, improvvisamente, il lupo decide di fermarsi e di fissarlo in segno di sfida ma non sa in quale occhio guardarlo: lui vede da uno solo – l’altro gli è stato ferito durante la cattura – mentre il ragazzo ne ha due. Il suo sguardo oscilla tra un occhio e l’altro del ragazzo finché, per rabbia o per incertezza, gli sgorga una lacrima. Il ragazzo non si fa attendere, capisce e chiude un occhio: i due ora possono «leggersi dentro», così, sguardo nello sguardo, si raccontano le loro storie, rivivono e condividono il loro passato. L’uno entra nella vita dell’altro, ne fa esperienza, si narra a sua volta. Si attiva il cambiamento. E il futuro di entrambi non sarà più lo stesso.
    Giovanni è in gabbia; il mondo ristretto in cui è compressa la sua vita gli impedisce di vedere oltre. Il suo passato lo inchioda e non sogna un futuro; vive gettato in un presente di noia e di insofferenza. Basterebbe un incontro, qualcuno con cui è possibile leggersi dentro e vedere nuovi percorsi, qualcuno che riesca a creare legami di relazione e lo conduca oltre la gabbia dell’isolamento verso vette di libertà, qualcuno che guardi al di là dei suoi limiti e, con pazienza e umiltà, sia disposto a cercare altre possibilità per condividere un sogno.

    Alzò lo guardo e lo chiamò per nome

    C’era folla quel giorno. Aveva appena compiuto miracoli, la sua fama aveva raggiunto l’intera città e Zaccheo era curioso di natura. Chi era mai costui? Con quale forza, con quale potere riusciva a trascinare le folle? Le sue origini erano umili ma la sua parola era colta, sapiente, ricca. Zaccheo era curioso ma piccolo. Voleva capire che cosa c’era di speciale in quel Gesù, così salì sul sicomoro. Tra le fronde nessuno l’avrebbe notato – sapeva di essere inviso alla gente – ma lui avrebbe avuto un’ottima visuale.
    Ecco, quel Gesù stava per passare, l’avrebbe spiato, forse sarebbe riuscito a vederne il viso e gli occhi. Invece, inspiegabilmente, Lui, unico tra tutta quella gente, l’aveva già visto. Zaccheo sentì lo sguardo di Gesù trafiggergli il cuore, si sentì chiamato (come poteva conoscere il suo nome?) e, prima di rendersene conto, capì che, da quel momento, la sua vita sarebbe stata per Lui.[3]
    Giovanni stava sul muretto: da fuori vedeva dentro, la sua curiosità provocatoria aspettava che qualcuno togliesse il velo, lo guardasse con amore e lo chiamasse per nome. E più aspettava più la rabbia montava, rabbia per un mondo che non si può smontare, per un mondo fermo su se stesso, rigido e bigotto.
    Aspettava uno sguardo e un nome. Qualcuno che lo guardasse con gli occhi del cuore [4] e che non pretendesse di conoscerlo, di sapere la sua storia, di analizzarne la personalità, di giustificarne i comportamenti («un lupo non può che comportarsi da lupo»). Qualcuno che lo vedesse come se fosse stata la prima volta e così, con stupore e senza pre-giudizio, gli chiedesse il permesso di stargli accanto.[5] Gli avrebbe permesso di vedere e di accorgersi di un ragazzo povero che, stanco di mendicare relazioni, si era trasformato in ladro di sguardi, di attenzioni, di considerazioni. Come sarebbe andata se avesse incontrato quello sguardo e se avesse sentito pronunciare il suo nome con amore?

    Chiedere indicazioni

    Un giorno dovevo recarmi in un piccolo teatro in un quartiere di periferia a me sconosciuto. Non trovando indicazioni stradali, mi fermai in una piazzetta. Era l’ora di cena, il cielo era carico d’acqua e il luogo quasi deserto. Seduti sul muretto di confine alcuni ragazzi punk ridevano e fumavano incuranti delle avanguardie di un acquazzone di tutto rispetto. Non avevo alternative e, titubante, mi avvicinai. Non mi degnarono di uno sguardo. Le possibilità di trovare il teatro si stavano riducendo a zero, così presi coraggio, mi avvicinai ancora e chiesi indicazioni. Non credevo ai miei occhi: i loro visi si illuminarono, e fecero a gara per darmi una risposta. Alla fine ebbe la meglio una ragazza che mi spiegò per filo per segno il percorso comprese le indicazioni per parcheggiare e per tornare indietro, dato che le strade erano a senso unico. Li ringraziai ma un altro ragazzo mi disse: «Non perda tempo, vada che sta per arrivare il finimondo!».
    Mi hanno dato indicazioni e si sono preoccupati per me. Loro. I ragazzi punk del muretto.
    Altra situazione, altra città, Palermo. Siamo in macchina, è mezz’ora che giriamo senza trovare la via indicata sulla piantina. C’è un bar, uno di quei soliti locali con la gente fuori, seduta sugli scooter, che commenta la partita della domenica o gli attributi delle passanti. Chiediamo indicazioni. Un uomo ci dice di seguirlo, cavalca lo scooter e parte.
    Prima emozione: stupore. Seconda emozione: sospetto. Che cosa vorrà? Anche in questo caso non abbiamo molte alternative e lo seguiamo. Ci porta sul posto poi, prima che si abbia il tempo di ringraziarlo, gira il motociclo e, con un cenno della mano, se ne va. Avevamo scommesso che ci avrebbe chiesto qualcosa. Avevamo ipotizzato una storia di disoccupazione, di espedienti, di lavoro nero. Avevamo messo in campo tutti i nostri pregiudizi, così non abbiamo goduto del gesto gratuito che quello sconosciuto ha voluto offrirci.
    Giovanni sapeva tutto sui motorini. Sapeva truccarli ma sapeva anche ripararli, con competenza e abilità, con passione e dedizione. La sua vita passava attraverso quella porta stretta: lì, forse, il senso avrebbe preso le sembianze di uno scooter. Ma la porta, oltre che stretta aveva la maniglia rovesciata: più si fletteva in basso, più si chiudeva. Bisognava cambiare punto di vista, avremmo dovuto chiedere noi il permesso, chiedere indicazioni: «Giovanni, ci insegni a …?». Il pre-giudizio incatenava noi più di lui, credevamo bisognasse prendersi cura di un «lupo in fieri», per evitare il peggio … Non era nei nostri pensieri rovesciare il guanto, capovolgere la prospettiva e chiedergli che ci aiutasse. Un lupo non aiuta. Un lupo divora nonne e bambini. Bisogna allontanarlo, portarlo fuori dai confini.

    Il lupo di Gubbio

    Si narra che ai tempi di Francesco, nel contado di Gubbio, gli abitanti vivessero nel terrore a causa di un ferocissimo lupo che non solo divorava bestie di ogni sorta ma anche bambini, donne e uomini. La gente non usciva se non per necessità e, comunque, armata. La vita della città era insostenibile. La paura faceva da padrona e, si sa, la paura armata non può che generare il male. Francesco ne venne a conoscenza. Non attese che il lupo varcasse le porte della città ma si recò lui stesso dalla bestia armato solo di una croce. Portava la pace e una doppia promessa: il lupo non avrebbe più compiuto il male ma gli eugubini l’avrebbero accolto nella città e avrebbero condiviso con lui il cibo e il tempo. La vita continuò in questo patto di cura reciproca fino a quando, due anni dopo, il lupo morì di vecchiaia con grande dispiacere per tutti: nella riconciliazione l’odio si era convertito in amore e la bellezza aveva nuovamente preso dimora in Gubbio. Il perdono aveva donato alla storia un’altra possibilità: aveva svelato la gioia di chi era fuori dai confini e si vede avvicinare dal sorriso e dalla tenerezza della convivialità tra diversi.
    Il lupo di Gubbio ha trovato un nuovo senso per la vita. E non divora più nonne e bambine.
    Giovanni stava fuori dai margini, era arrabbiato con chi stava «dentro le mura», tanto arrabbiato che aveva deciso di sbriciolare loro mondo come un ingranaggio mangiato dalla ruggine. Finché la ruggine non aveva intaccato anche lui.
    E faceva paura. E la paura rifiuta, nega, espelle.
    E aveva paura. E la paura sfregia, distrugge, uccide.
    La paura oscura i sogni, taglia le ali alla speranza, chiude a chiave le possibilità.
    Se solo uno di noi fosse uscito con sguardo, cuore e mente puliti e liberi, se uno di noi avesse osato varcare i confini delle paure reciproche recandogli un dono di pace, un per-dono che non azzera la memoria ma le toglie le catene del passato e la libera verso future esperienze, Giovanni, forse, avrebbe potuto varcare la soglia, oltrepassare il muro, esplorare altre possibilità di essere.[6] Forse, lui che con i motocicli ci sapeva davvero fare, avrebbe trovato chi gli chiedeva un aiuto: per il motorino, per la bicicletta, per quelle moto di grossa cilindrata su cui aveva più volte allungato uno sguardo impudicamente desideroso. Forse la sua vita dentro confini condivisi gli avrebbe dischiuso altre possibilità, gli avrebbe regalato un tempo per parlare, per seminare, per ricucire; gli avrebbe insegnato un tempo per cercare, per amare, per ri-nascere.[7]
    E Giovanni avrebbe raccontato un’altra storia, il lupo sarebbe arrivato in tempo per sgominare una rapina ai danni della nonna proprio quando Cappuccetto Rosso stava per giungere a destinazione salvandola così da una potenziale violenta aggressione.
    Cento altre storie diverse sarebbero state possibili se solo avessimo cercato di dare ali alla speranza per volare al di là del muretto.

    NOTE

    [1] G. Rodari, Le favole a rovescio, Emme Edizioni, Milano, 2008, p. 136.

    [2] Testo liberamente tratto da D. Pennac, L’occhio del lupo, Salani, Firenze, 1993.

    [3] Riadattato dal Vangelo secondo Luca 19,1-10.

    [4] Cf R. De Monticelli, L'ordine del cuore. Etica e teoria del sentire, Garzati, Milano, 2003.

    [5] Uno dei concetti-cardine della pedagogia a indirizzo fenomenologico è l’epochè, ovvero l’astensione dal giudizio. L’accostarsi alle persone «come se fosse la prima volta» permette di stupirsi per il loro manifestarsi al nostro sguardo: è questa una seconda categoria della pedagogia fenomenologica. Si veda, tra gli altri, il testo: V. Iori (a cura di), Quando i sentimenti interrogano l’esistenza. Orientamenti fenomenologici nel lavoro educativo e di cura, Guerini, Milano, 2006.

    [6] «Il confine è sempre, oltre che luogo di separazione, anche luogo d’incontro» (D. Bruzzone, Ricerca di senso e cura dell’esistenza, Erickson, Trento, 2007, p. 211).

    [7] Liberamente tratto da Qoelet 3,1-8


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