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    A 40 anni dal Documento di base «Rinnovamento della catechesi» (RdC)




    Intervista a Cesare Bissoli

    a cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 2009-09-20)


    Domanda. Anzitutto cos’è il «Documento di Base»? È un documento significativo e conosciuto o fa parte di una semplice documentazione di archivio? Per cui ha davvero senso parlarne ancora oggi?

    Risposta. Il documento-base in realtà ha per titolo Il rinnovamento della catechesi. È un testo di 144 pagine nell’edizione ufficiale che segna l’avvio storico della catechesi e in generale della comunicazione della fede in Italia dopo la gloriosa, ma ormai impraticabile, forma tradizionale di cui icona è stato il «Catechismo della dottrina cristiana». È questa svolta storica debitamente collegata ad una eccellente presentazione dei contenuti, che ha indotto a qualificare il libro suddetto come «documento di base» (DB). Per cui è un testo significativo, conosciuto da tutti i catechisti, non puro testo di archivio e di cui merita parlarne anche oggi, sia pur nell’ottica di una intelligente rilettura e adattamento. È quanto la Chiesa italiana sta ripensando. Questa prima riposta è la sintesi di tutte le altre che seguono e che servono ad esplicitare il grande valore del giustissimamente chiamato «Documento di base».

    UN PO’ DI STORIA

    D. Andiamo un po’ indietro, ai tempi della sua pubblicazione, il 1970. Erano i tempi della prima recezione nelle chiese del Vaticano II. Il DB ne recepisce le novità, e quali? E come si è arrivati alla sua scrittura? Quali problemi voleva affrontare, a quali esigenze rispondere?

    R. Si può dire senza tema di smentite, che il primo, o uno dei primi frutti del Concilio nella Chiesa italiana, è stato il DB, anzi questo ha fatto la funzione di vettore primario per l’accoglienza del Vaticano II. La ragione è abbastanza semplice: il DB recepisce e traduce in un’ottica catechistica la Costituzione dogmatica sulla Divina Rivelazione, chiamata abitualmente Dei Verbum. Essa – come è noto – costituisce il pilastro portante di ogni altro documento dogmatico, come quello sulla liturgia (Sacrosanctum Concilium), sulla Chiesa (Lumen Gentium), sulla relazione Chiesa-mondo (Gaudium et Spes).
    Perché questa scelta di Dei Verbum come ispirazione normativa? Per due ragioni: perché ivi abbiamo la matrice dell’evangelizzazione, la Parola di Dio, e dunque le radici vitali di ogni altra azione e istituzione ecclesiale: in secondo luogo, perché in Italia dagli anni ’50 era iniziato un profondo rinnovamento catechistico collegato alla Sacra Scrittura, che con il Concilio arrivava a esplicita conferma e potenziamento. Va giustamente ricordato che il Vaticano II non ha trattato di catechesi, ma ne è stato come la carta costituzionale di tutte le grandi espressioni della vita cristiana.
    Come si sia arrivati alla stesura del DB è anch’esso uno dei «miracoli» ecclesiali mai più ripetuti ma che vorremmo rinnovare: in una parola, ha partecipato alla composizione la Chiesa intera: pastori, teologi, catechisti, fedeli. Ne facciamo cenno qui sotto.
    Quanto ai problemi ed esigenze che si volevano affrontare, è presto detto: dare alla Parola di Dio il ruolo centrale, dunque permettere a Gesù Cristo, la Parola incarnata e definitiva, di parlare ai suoi discepoli, e dunque essere Lui il catechista sovrano, e la sua vita, le sue parole, la sua morte e risurrezione quali contenuti.
    Di fronte ad una catechesi-barricata come quella preconciliare, ormai asfittica, pur con i tanti benefici apportati, di taglio apologetico, dottrinale e dentro una società ritenuta religiosa, si volle introdurre il profumo del vangelo e della Scrittura, della personalizzazione del messaggio, dell’attenzione alla vita nel contesto sociale sempre più secolarizzato. Una sorta di rivoluzione copernicana. Sintomatico rimane il cambio di titolo: dal Catechismo della dottrina cristiana si è passati al Catechismo per la vita cristiana.

    D. Un po’ di storia della catechesi. Come si esprimeva fino al Vaticano II? Cosa ha portato di innovazione il Vaticano II nel campo della catechesi? E quali linee principali si sono poi sviluppate da questa «rivoluzione»?

    R. Le ultime righe precedenti già delineano un processo storico. Ma vediamo più da vicino, partendo da… lontano. La catechesi è sempre esistita nella Chiesa, come momento di approfondimento del primo annuncio e del cammino di iniziazione cristiana che portava ad essere credenti nella chiesa (cf Lc 1,1-4; At 2, 42). Con la catechesi si accompagnarono sempre di più, a partire dal Medioevo, dei sussidi chiamati Catechismi. Dal Concilio di Trento (sec XVI) nel difficile confronto con il mondo protestante e successivamente con la corrente anticristiana dell’Illuminismo, il Ca­techismo divenne un testo che garantiva un apprendimento della fede anzitutto sicuro, ben chiaro e preciso dottrinalmente, in modo definitorio, da imparare bene a memoria (per questo fu accolta con favore la forma domanda e risposta, il che non è affatto in sé un errore, ma una buona risorsa pedagogica purtroppo dimenticata). Inevitabilmente ciò che si guadagnava in verità dottrinale, si poteva rischiare di perdere in vitalità esistenziale, con formule giuste, ma poco comprensibili e soprattutto non significative per la vita. In particolare tutta la grandiosa visione biblica della fede, imperniata nella storia della salvezza, svaniva. Finché esisteva la società cristiana e il campanile aveva senso, le usanze cristiane erano coltivate, il divario dottrina e vita non si coglieva o non sortiva effetti negativi. Almeno così sembrava. Ma poi la secolarizzazione acuta del sec XX ha fatto aprire gli occhi: le «piazze piene e le chiese vuote», come dice uno slogan espressivo. Qualcosa non funzionava più in tutto il modo di essere Chiesa e cristiani nel mondo, e segnatamente nella comunicazione della fede, dunque nella catechesi. Qui si colloca il Vaticano II, che nella catechesi entra – come si diceva prima – non perché ne tratti come fa della liturgia, ma perché dà gli orientamenti di base, ispirati alla ritrovata centralità della Sacra Scrittura, attestazione principale della Parola di Dio e insieme al ruolo della comunità ecclesiale come generatrice. Con questa fondamentale innovazione, per cui la catechesi si fa confronto e dialogo di storie di vita, quella di Gesù con la nostra, si aggiunge il contesto vitale della comunità in cui ciò che si apprende si ritrova nei sacramenti e nella vita di carità.

    D. Alcuni studiosi dicono che il documento ha cercato di mediare tra due orientamenti: il primo legato al contenuto del messaggio (l’annuncio, la verità, la chiarezza, il kerygma), il secondo legato al destinatario (la progressività, la trasmissione, le condizioni soggettive e socioculturali). Se è vera tale affermazione, come tali istanze sono state mediate o quale ha sopravvalso?

    R. Certamente ogni cambio specie nella Chiesa non è mai innovazione assoluta, una sorta di rivoluzione totale, altrimenti si dovrebbe affermare che prima o dopo il Concilio vi è stata una grave deficienza che ne compromette l’autorità. Perciò ciò che il Concilio afferma, in verità ha le sue radici nella grande Tradizione (è il pensiero di Benedetto XVI). Per la catechesi è stata fatta una sintesi dei due orientamenti, almeno come possibilità, dato che il Vaticano II non ha teorizzato alcunché di catechistico. Era compito successivo conciliare via kerigmatica e via antropologica. Vi sono state accentuazioni diverse. Nel 1955 con la pubblicazione del Catechismo Tedesco ebbe successo la via kerigmatica legata alla Bibbia; negli anni ’70 l’asse si spostò sulla via antropologica. La Chiesa italiana nella produzione del DB prima e poi dei Catechismi cercò di fare sintesi, si può dire con un certo accento, non prevaricatore, sulla presentazione del kerigma. Ma già nel Catechismo dei giovani 1, Io ho scelto voi, l’attenzione all’esperienza dell’adolescente è marcata. Il problema dunque non sta nella scelta tra due orientamenti, ma nell’equilibrio della sintesi, tenendo conto che il Catechismo va mediato ultimamente dal catechista in relazione all’uditorio.

    L’ARTICOLAZIONE DEL DOCUMENTO

    D. Passiamo in rassegna l’articolazione e i contenuti del documento. Quali le intuizioni più significative?

    R. Il DB è composto di dieci capitoli.
    Punto di partenza è «la Chiesa e il ministero della Parola di Dio» (c. 1), cui si susseguono «le principali espressioni del ministero della Parola» (c. 2), tra cui emergono «finalità e compiti della catechesi» (c. 3). «Il messaggio della Chiesa è Gesù Cristo», questo è il criterio di ogni catechesi (c. 4). Vengono quindi delineate esigenze e criteri «per una piena predicazione del messaggio cristiano» (c. 5), quindi le «fonti della catechesi» (c. 6), «i soggetti della catechesi» (c. 7), la collocazione della «catechesi nella pastorale della Chiesa locale» (c. 8), «il metodo della catechesi» (c. 9). Chiude il capitolo sui protagonisti: «I catechisti» (c. 10).
    È un eccellente quadro che porta in sé tutti gli elementi di un manuale di catechesi. È doveroso dire che il Direttorio Catechistico Generale (DCG) del 1971 attinge a piene mani dal DB, estendendo a tutta la Chiesa le sue indicazioni. Del resto collaboratori del DCG erano gli estensori del DB!
    Le intuizioni più significative sono anzitutto il DB preso nella sua totalità, nel disegno che esprime. Dentro tale disegno vi sono accenti notevoli, come la centralità del cristocentrismo, la comunità come soggetto responsabile, la finalità della catechesi espressa come integrazione fede e vita o operare una mentalità di fede, l’affermazione che la Scrittura è «il libro» della catechesi, la doppia fedeltà a Dio e all’uomo, l’estensione della catechesi alla totalità delle età della vita (non solo dei bambini) e a tutte le sue situazioni o condizioni dell’uomo, e finalmente il marcato accento sulla figura del catechista nel triplice compito di testimone, insegnante ed educatore. Ma forse la cifra del DB e l’anima del suo pensiero sta nelle parole conclusive: «La esperienza catechistica moderna conferma ancora una volta che prima sono i catechisti e poi i catechismi, anzi prima ancora sono le comunità ecclesiali» (n. 200).

    D. Il cammino successivo della chiesa in Italia in che modo ha realizzato o portato a compimento le intuizioni del DB? E in riferimento ai catechismi, oggi si parla da più parti di un loro superamento. Quale la sua opinione e giudizio? E di passaggio, si sta forse pensando a nuovi testi di catechismo?

    R. Il primo passo decisivo è stata la lettura attenta del DB e la formazione dei catechisti e dei pastori su di esso. La prima infornata di catechisti, dunque fino alla pubblicazione avvenuta dei Catechismi, almeno nella loro prima edizione (fino a metà degli anni ’80) è stata formata sul DB. I Catechismi definiti unitariamente «Catechismo della Conferenza Epi­scopale Italiana per la vita cristiana» poi ripartito in 8 volumi, hanno cercato di tradurre in formule scritte le intuizioni del DB. Si assiste fatalmente ad un «abbassamento» di tono per un adattamento alla situazione concreta, prima nel passare dalla teoria del DB alla stesura scritta (i Catechismi) e poi arrivando ancora più in «giù»(ma è passo necessario oltreché inevitabile) alla mediazione del catechista. In sintesi si può affermare che l’azione dei catechisti è stata encomiabile specie nella prima generazione, quella formata sul DB. I Convegni nazionale del 1988 e del 1992 ne sono una prova sicura.
    Insomma ciò che di buono sussiste nella catechesi italiana viene dal ciclo ora indicato.
    Parlare di superamento in termini radicali è di chi non conosce il DB né la storia della catechesi, sbagliando poi nell’imputare a dei testi ciò è invece responsabilità delle «teste». Le cose vanno meno bene non perché si è seguito il DB e i Catechismi che ne dipendono, ma perché lo si è fatto troppo poco. Si ricordi poi il cambiamento più grande avvenuto nella società e nella Chiesa. In tale quadro contestuale non parlerei di superamento, ma di adattamento, dello stesso DB e dunque dei Catechismi. Attenzione comunque a non tagliare il cordone ombelicale con il Concilio (Dei Verbum).

    L’IMPATTO PASTORALE

    D. Il significato del DB va ben oltre l’ambito del catechistico: esso ha avuto grande impatto nei progetti di pastorale giovanile. Per quale ragione? E cosa soprattutto è stato assunto dalla teologia pastorale e dalla PG? Quale piattaforma di pensiero sta alla base del modo di evangelizzare di DB?

    R. Riconosco che il DB ha influito anche sulla Pastorale Giovanile, come del resto era inevitabile laddove l’annuncio ai giovani veniva e viene preso sul serio. Il respiro del Concilio è la forma più moderna e attuale del Vangelo. Attaccarsi al Vangelo senza il Concilio è come tagliare l’albero su cui si è seduti. In quest’ottica ritengo il DB ancora valido nelle sue intuizioni per una catechesi del mondo giovanile: cristocentrismo, comunità, integrazione fede e vita… Il problema piuttosto è un altro, di cui il DB non è responsabile. È il profondo cambio del pianeta giovani che va considerato, e dunque va ripensato il processo del contatto con essi, dove assume valore essenziale il momento educativo tramite la relazione con i giovani di tutti i soggetti responsabili (genitori, docenti, clero, operatori sociali). Se si tiene conto di questa esigenza, allora i due Catechismi dei giovani 1 (Io ho scelto voi) e II (Venite e vedete) tornano a parlare con accenti di verità e di personalizzazione che sono ancora validi.
    Che cosa abbia assunto la teologia pastorale e la PG dal DB, non mi è facile dirlo. Se attingono dal Concilio sono sulla stessa lunghezza d’onda del DB.
    Vi è piuttosto da chiedersi se e come teologia pastorale e PG citate impostano un vero annuncio della fede e l’educazione ad essa. Se lo fanno sul serio (non sempre ciò appare in forma ampia e sistematica, ma piuttosto fatta di frammenti emotivi), continuano ad avere come utile piattaforma il modo di evangelizzare del DB che abbiamo fin qui sufficientemente spiegato.

    D. Certi concetti e formule del DB sono ancora molto citate, quasi a diventare degli slogan: ad esempio, criterio dell’Incarnazione, mentalità di fede, integrazione fede-vita (e dunque l’interiorizzazione della fede), duplice fedeltà (a Dio e all’uomo), riferimento cristocentrico («Educare al pensiero di Cristo, a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere e ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo», n. 38). Cosa esprimono fondamentalmente, e sono significative-determinanti anche in questo mutato contesto socioculturale e del cammino della chiesa?

    R. Mi piace questo elenco di elementi «positivissimi» del DB che integrano quanto da me detto fin qui. In questo mutato contesto sociale ed anche ecclesiale conservano il valore del progetto che designano, ma resta vero che occorre inculturarlo in tale contesto di postmodernità con questi soggetti umani. Il lavoro da fare è tanto, e non basta appellarsi e servirsi di un libro, cioè il DB e i Catechismi della CEI. Occorre che i cristiani facciano di se stessi un libro credibile: testimoniare con il libro della propria vita, in cui l’altro mi legga, cammini con me, mangi con me, entri dentro di me ed io in lui, come ad Emmaus.
    Ecco, proprio Emmaus diventa sempre più icona della catechesi attuale almeno nel mondo occidentale.

    D. Una parte importante del documento è quella relativa al metodo catechistico, un discorso quanto mai attuale. Quali strade ha percorso il Documento e quali strade vengono preferite oggi? Ed emerge come bisogno la stessa figura del catechista o, in ambito pastorale, dell’educatore?

    R. Il metodo o strada da percorrere per smerciare un prodotto può avere e deve avere una carta topografica, ma poi il cammino reale deve farlo il catechista nel suo contesto. Questa volontà di non fornire ricette si traduce nell’impegno – come si diceva sopra – di andare oltre il dualismo tra via kerigmatica e via antropologica. Lo fa il DB nel c. 9 sviluppando la nota affermazione di «fedeltà a Dio e fedeltà all’uomo: non si tratta di due preoccupazioni diverse, bensì di un unico atteggiamento spirituale che porta la Chiesa a scegliere le vie più adatte, per esercitare la sua mediazione tra Dio e gli uomini» (n. 160).
    Il catechista sarà dunque colui che si impegna a «fare posto all’iniziativa di Dio» attraverso tre momenti: avvalersi dei racconti evangelici e della Scrittura in generale; «rendere presente la Chiesa», «sapersi ritirare ed attendere», lasciando spazio alla preghiera; il catechista si impegna anche «a servizio degli uomini», curando la relazione personale, la pedagogia dei segni, la propria competenza teologica e pedagogica, il tono del dialogo.
    Ultima affermazione rilevante, il catechista opera dotato di «responsabilità personale e di fiducia». Sicché «l’azione educativa rimane sua, inconfondibile, viva, quasi creatrice» (n. 181). Dove si trova altrove un elogio così impegnativo e un impegno così elogiato a riguardo del catechista? Di qui il dovere di una formazione seria che ci tocca tutti. Purtroppo non sempre è stato così.

    D. Come e in cosa collegare PG e catechesi? C’è un ritorno ai (ad una conoscenza dei) contenuti della fede nella PG, una maggior sottolineatura dell’istanza veritativa rispetto alla creazione di una «mentalità di fede»? A questo proposito nelle comunità ecclesiali l’attenzione alla catechesi sembra comunque di molto allentata in cambio di una più pervasiva cura o animazione pastorale. È un’impressione che corrisponde alla sua esperienza, quali rischi o vantaggi comporta? E dove-come salvaguardare la dimensione veritativa?

    R. Le domande poste sono serie, anzi preoccupanti. A mio parere la gioventù di casa nostra, cioè nel cortile della Chiesa, vive una colossale ignoranza del credo cristiano, e questo perché non pare capirne più la rilevanza esistenziale, il «vale la pena» di interessarsene: si può vivere «come se Dio non esistesse». Eppure recenti indagini dicono che i giovani non sono alieni, ad es. nella scuola di religione, di venir a conoscere la religione cattolica. Manca questo ponte tra un interesse potenziale del giovane e una risposta adeguata della Chiesa.
    Un fattore da integrare è il momento intellettivo, razionale della catechesi, così intrinseco al credo cristiano, con un minimo di sistematicità e una gerarchia di verità. L’emozionalismo, lo sperimentalismo, l’emotività, il fattore estetico, il movimentismo dei pellegrinaggi e delle marce, insomma il clima di new age paiono fare da filtro occludente un discorso più oggettivo, scolastico, ordinato. Occorre ripensare il rapporto tra PG e catechesi, rigettando l’opposizione tra ricerca di verità e mentalità di fede, ma mostrandone le implicanze necessarie.
    Qui dà a pensare l’impostazione pastorale di Benedetto XVI che tende continuamente a far coniugare verità della fede e verità della ragione. A mio parere ai giovani non è data una sufficiente educazione alla razionalità, come potere e come limite, e dunque l’apertura alla religione è vista come scelta fideistica. I diritti della verità, nella religione e nella vita, poggiano sul riconoscimento del diritto della verità ad esserci, come pure la gioia di fare un cammino in essa che va all’umano al divino, in una circolarità permanente.

    UNA RICONSEGNA?

    D. Nel 1988 c’è stata una «Lettera di riconsegna» da parte dei Vescovi: perché e cosa volevano sottolineare o rilanciare?

    R. In tale data si era al termine di una sofferta verifica dei catechismi voluta dalla Congregazione del clero. Se ne erano visti i benefici, ma anche i limiti dovuti sia all’accelerazione dei tempi che chiedevano nuovi accenti catechistici sia alla appena avviata formazione dei catechisti. Cambiare il DB? ci si chiese. Il no dei Vescovi fu risoluto. Piuttosto facciamone una «riconsegna» ai catechisti sottolineando aspetti nuovi in coniugazione con il tempo.
    Tale «riconsegna» venne fatta nella splendida cornice del citato Convegno nazionale dei catechisti nell’aprile del 1988 a Roma.
    Mentre si rimarcano i punti indiscutibili del DB, come la formazione alla mentalità di fede, nella Lettera di riconsegna si introducono alcuni aspetti e sensibilità da tener presenti. Per la prima vola si parla di «progetto catechistico» italiano come qualcosa di organico e sufficiente per una buona catechesi; ma si ricorda anche la prospettiva missionaria o l’intento evangelizzante di ogni catechesi; emerge l’invito a fare itinerari catechistici in relazione ai bisogni e possibilità delle persone; si afferma la priorità della catechesi degli adulti; si sviluppa il triplice lineamento del catechista «testimone, insegnante, educatore».
    Dunque l’intento dei Vescovi era di tenere conto delle istanze emergenti avvalendosi della mediazione del DB e dei catechismi nazionali. Era un portare avanti il DB o arretrare ad esso i problemi del tempo sempre più acuti? Oggi si discute ancora, e sta lì un nodo centrale della catechesi italiana in sede normativa.

    D. C’è necessità oggi di rilanciare le proposte del DB, di scrivere un’altra «Lettera di riconsegna»? Quali punti dovrebbe toccare?

    R. Non so se si debba ristampare il DB o continuare almeno il cammino con una seconda Lettera di riconsegna. Lasciando che il DB continui dare i suoi frutti nella formazione dei catechisti, è meglio considerare i compiti nuovi emergenti e su di essi impostare il futuro delle norme e dunque la pubblicazione di guide e di testi.
    E cose da rivedere certamente vi sono, come appare dalla domanda ultima, cui ci colleghiamo. In ogni caso vi è oggi in Italia una riflessione approfondita sul futuro del DB e dei relativi Catechismi. Colpisce che dei Catechismi dei giovani e degli adulti non si venda più neppure una copia. È previsto un seminario nazionale nella primavera del 2010 sul DB nel suo quarantennio. La CEI non incalza per il cambio. Invece nell’As­so­ciazione Italiana Catechesi (AICa) si avverte il bisogno del cambio, avvertendo probabilmente più ciò che non va che il profilo futuro che deve avere.

    D. Ultima domanda provocatoria: in una società postcristiana e con i nostri giovani, non è più urgente e prioritaria l’evangelizzazione e in essa anzitutto il primo annuncio, rispetto alla catechesi, almeno quella tradizionale? Anzi, forse prima ancora una forma di educazione spirituale, come terreno comune per l’educazione dei giovani per la situazione odierna di multireligiosità? Temi che toccano ovviamente anche la pastorale… Anche gli itinerari di educazione alla fede non devono essere ripensati sulla base di queste nuove istanze? E come?

    R. Oggi se intendiamo la catechesi in senso stretto, cioè come approfondimento di una fede ricevuta e mantenuta, dobbiamo riconoscere che tale catechesi appare insufficiente, perché si manifesta il bisogno di un primo fondamento. Di fatto molto pochi seguono la via tradizionale, pur essendo i Catechismi nazionali non così piattamente tradizionali. Vi è una serie di esigenze precedenti da assolvere.
    Ne ricordo tre che vanno nella direzione anche di una PG aperta all’annuncio.
    Vi è in radice il problema di una fede che non è più così scontata. Ecco allora l’emergere di un vocabolario nuovo che mette in circolazione esperienze originarie nella fondazione della Chiesa, quali primo annuncio, catecumenato, processo di iniziazione. La catechesi sarà al seguito di questa semina essenziale della Parola di Dio. La PG deve assumere per il mondo dei giovani una impostazione catecumenale per cui si fa con loro per la prima volta, o in ogni caso si rifà come fosse la prima volta, il cammino per diventare cristiani dal Battesimo, alla Cresima, all’Eucaristia.
    Un secondo problema è dato dal pluralismo culturale e in particolare religioso. Qui il DB e i Catechismi non possono essere adeguati. Bisogna ripensarli per tale situazione. E non è facile. Ma personalmente non mi muoverei affidandomi ad una storia delle religioni, ma apprendendo il cristianesimo evangelico stabilirei un confronto con religioni e culture diverse. Il Vangelo non elimina il diverso ma vi apporta il discernimento paolino: «Tutto esaminate, quello che è buono tenetelo» (1 Tess 5,21). Alcuni preferiscono rispondere con un itinerario kerigmatico, spirituale, ‘benedettino’, tale da porre la pietra evangelica di fondazione, e quindi rendere capaci ad un confronto che arricchisce senza provocare confusioni. Anche questa scelta vale se non si fa rigida e non dimentica la fragilità dell’interlocutore
    Il problema che riguarda l’educazione spirituale come previa a quella catechistica non saprei come intenderla. Se vuol dire creare le premesse umane per un’apertura alla fede, è giusto purché si arrivi anche all’annuncio esplicito della fede.
    Mi piace pure e sottoscrivo il termine «educazione» usato più volte nella domanda. È forse il punto da maggiormente sviluppare nel DB. «Evangelizzare educando ed educare evangelizzando» è un binomio-chiave recepito nella seconda edizione del DGC. È diventata una «emergenza» la necessità di educare. In tale impegno si manifesta la sintesi più armonica tra azione di Dio e azione dell’uomo nella comunicazione della fede.
    Un’ultima osservazione vorrei fare, che chiude il questionario e insieme apre su una buona pratica: non si può attendere la domanda umana per dare la risposta divina, ma occorre esprimere la proposta della fede in modo tale da suscitare la domanda e l’attenzione della persona.
    È lo stile di Gesù quando disse la parabola: «Un seminatore uscì a seminare…» (cf Mc 4,3), non selezionando prima il terreno, ma facendo in modo che quello buono fruttificasse.
    Un desiderio profondo come un’intima nostalgia mi agita dentro: facendo il nuovo DB (non potrà mancare qualcosa di analogo!), operare in modo che sia frutto di una Chiesa intera e in comunione, come all’inizio del DB: vescovi, teologi, catechisti, operatori pastorali, dunque anche animatori di PG, tutti coinvolti in un cammino comune, senza fretta di concludere né la pretesa di un testo perfetto, ma tutti inseriti nel progetto comune di una Chiesa che annuncia il Vangelo agli uomini (giovani) del Duemila con la stessa fiducia, coraggio e pazienza nei primi tempi della Chiesa.


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