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    Gesù: un incontro per la speranza e la libertà


    Domenico Cravero

    (NPG 2008-04-17)


    Una possibilità offerta a tutti

    Perché oggi un giovane dovrebbe scegliere il Signore Gesù, tra tante proposte più facili, in mezzo a distrazioni e voci tanto dissonanti e contraddittorie?
    L’evangelizzazione non è un’azione di propaganda (proselitismo) bensì è kerigma: un’esperienza concreta per la quale Dio non è un concetto ma una persona, e Gesù non è un personaggio ma una presenza. Qualcuno potrebbe obiettare che quello che conta non è l’annuncio ma la testimonianza, che ciò che salva è la vita spesa nell’amore e non la fede professata, o potrebbe pensare che l’evangelizzazione, in realtà, è solo proselitismo. Il Vangelo contiene una risposta chiara: «Andate in tutto il mondo e fate miei discepoli».
    Se ne comprende l’intima coerenza: se il Vangelo si dice completamente nell’esperienza dell’amore e se la fede consiste in un incontro che rende bella e salva la vita, l’offerta di questa possibilità è un’esigenza dell’amore.
    Come non leggere nel girovagare apparentemente senza meta dei ragazzi, nell’istantaneità con la quale vivono le loro sensazioni e ricercano nell’immediato una traccia di senso, l’indicazione di una svolta epocale profonda? Ciò che rende avvincente oggi la vita è la sovrabbondanza, l’eccedenza di possibilità che il progresso delle scienze, l’avanzamento delle tecnologie, il pluralismo del pensiero mette a disposizione delle persone. Oggi tutto è dato al plurale in una profusione di offerte un tempo neppure immaginabile. La possibilità affascina e invita alla prova, a partecipare dell’abbondanza.
    La possibilità occupa, così, nel pensiero e nella mentalità di oggi un’importanza centrale, il posto che un tempo ricopriva il concetto di natura. Natura è tutto ciò che è dato come fisso e determinato, possibilità è ciò che ognuno potrà divenire mediante l’uso della sua libertà di scelta. Il mondo appena lasciato aveva, così, il senso dell’autorità, intendeva l’insegnamento come trasmissione della verità. Oggi la società è descritta come complessa: il suo modello è il supermercato (la profusione fino allo sperpero), la sua metafora il telecomando (poter scegliere, passare da un’esperienza all’altra, non rimanere troppo a lungo nel medesimo luogo). Tutto pare sottoposto ad un criterio commerciale generalizzato, come se valessero in ogni campo le regole del marketing: ci si concentra sui beni, non sulla verità. Si è costretti a scegliere nella pluralità delle opzioni: ci si interroga sui vantaggi, ci si chiede ogni volta: « a che serve?». La gente vuole scegliere, sperimentare: non accetta nulla in modo passivo, non ripone una fiducia scontata nelle istituzioni, anche le più sacre. Al tempo stesso esige garanzie: di non perderci, che serva a qualcosa, che sia utile… Il potere è dato all’uditorio: è il pubblico che giudica ciò che è buono e non la parola di una qualche autorità (salvo poi cadere succubi delle mode, delle suggestioni, delle dipendenze). L’enfasi è posta sulla scelta e sulla discussione (discussioni in famiglia, a scuola, in parrocchia…): si chiede, si pretende, si valuta, si sceglie, si rimette tutto in discussione…
    La possibilità è intesa in senso concreto e immediato ma, al tempo stesso, vitale perché dà gusto e piacere alla vita. Gli adolescenti vivono in un mondo di possibilità eccedenti: per loro ogni esperienza è reversibile, ogni occasione godibile; il corpo stesso è considerato «plastico», oggetto manipolabile secondo il desiderio. Questo aspetto provocatorio offre in realtà nuove opportunità d’accoglienza del Vangelo, permette di gustare inedite dimensioni dell’intramontabile verità della Parola.
    Ciò che la secolarizzazione ha prodotto non è il tanto insistito principio della «gratificazione istantanea», quasi che l’agire dei simboli e dei riti (e il cammino religioso) fosse cupo e triste mentre la vita materiale tutta leggera e gaudente. Chi pratica un cammino di fede vive anch’egli una vivida emozione che non chiama gratificazione ma piuttosto «stato di grazia» (sotto forma, per esempio, di intima commozione nella celebrazione liturgica, di godimento per la vicinanza di Dio, di distensione e serenità nella preghiera, di pace profonda, di qualità della vita vissuta nell’amore…), percepibile e verificabile nell’esperienza della felicità, intesa non come il risultato di una pulsione (o di una prestazione) ma come uno stato interiore.
    La differenza stabilita dalla «gratificazione istantanea» secolarizzata consiste, piuttosto, nel fatto che, in questo caso, tutto il processo avviene al solo livello individuale; ed essendoci solo individui, non si aprono orizzonti, al di là del proprio desiderio e non si creano simboli con cui «percepire» una presenza che sta oltre (trascendenza) pur essendo «dentro» (immanenza).
    Il tempo senza durata e lo spazio senza luogo della socializzazione degli adolescenti indicano bene l’intensità di una ricerca che non si soddisfa del relativo delle esperienze quotidiane e che, implicitamente, tende all’assoluto, così come la noia è una ribellione dell’intelligenza di fronte al vuoto della gratificazione istantanea individualistica e la tristezza un segno inequivocabile di una mancanza e di una delusione profonda. I confini incerti del sentire del momento (agisco «se me la sento», «ora no, forse domani»…) delineano un’esperienza troppo angusta che non realizza un’autentica fedeltà a se stessi e che chiede di essere sorpassata. Il consumismo distrae e banalizza le grandi domande di senso, ma queste non possono essere messe a tacere completamente e definitivamente. Le persone oggi, però (e non solo gli adolescenti), non sono tanto alla ricerca di ragioni forti di verità per rivolgersi a Dio, ma di esperienze reali e credibili per scoprirlo come Amore e ricercarlo ogni giorno (come d’altra parte insegna la preghiera cristiana).
    La sfida culturale non consiste più nella capacità di dare motivazioni fondanti per un impegno coerente nella pratica della fede, ma piuttosto nell’offrire stimoli efficaci nel rilancio quotidiano del desiderio. L’orientamento verso il divino non è sostenuto tanto da concetti dottrinali e astratti o da pratiche prestabilite e obbligatorie ma da gratuità e gratificazione, connesse a simboli emozionanti ed efficaci.
    La maturazione della fede, che comporta invece una decisione definitiva che deriva dall’incontro con il Signore Gesù e dal suo invito «vieni e seguimi», non può che essere narrativo, lento e paziente. Le metafore bibliche del credente, d’altra parte, descrivono la fede come un cammino, una crescita verso una statura mai raggiunta. L’interiorizzazione del divino comporta il cammino dell’«homo viator, spe erectus», del viandante che cerca la sua terra, del pellegrino che cammina verso la meta, dell’innamorato che attende il suo amore… Metafore, come si vede, vicine al girovagare adolescente.

    L’età della speranza

    La fede cristiana non è indottrinamento, insipida diffusione di un messaggio: è la costruzione di una speranza, l’annuncio di una notizia che fa piacere sentire.
    In un tempo caratterizzato dalla caduta della speranza e dal disorientamento etico ma anche dalla possibilità di esercitare una libertà democratica senza precedenti, la richiesta che più sembra emergere dai cittadini è la garanzia della sicurezza. Spesso s’interpreta l’incertezza come se questa dipendesse da un difetto di informazione sul futuro: in realtà quello che manca è un progetto, una speranza capace di dare forma a quel futuro. D’altra parte, la sicurezza e la coerenza, per manifestarsi con sufficiente perspicacia hanno bisogno di un supplemento d’idealità e di speranza personale e collettiva. George Bernanos già anni fa aveva descritto con precisione lo scenario giovanile di oggi: «quando la gioventù si raffredda – scriveva – il resto del mondo batte i denti».
    Vivere è sempre più una fatica, la leggerezza del sentirsi liberi e svincolati dagli impegni etici diventa presto un obbligo insopportabile: è sempre più difficile essere all’altezza di sé, delle aspettative degli altri. Questa inquietudine del vivere alimenta nuove domande di senso, produce forme spontanee di disgusto del vivere materiale, suscita un’imprevista disponibilità alla ricerca religiosa e attese diffuse di spiritualità. Oggi i desideri più profondi dei giovani sono quasi mai presi in considerazione dalla società: nell’incontro con il Vangelo e le comunità cristiane i giovani possono sentirsi ascoltati e valorizzati e le loro domande trovare attenzione. La crisi aperta dalla secolarizzazione può rappresentare una grande opportunità di mettere a disposizione di tutti l’eccellenza della salvezza di Cristo.
    La speranza è uno stato e uno slancio interiore che ha il potere di trasformare la realtà perché permette di cogliere ancora e sempre vie nuove, anche quando l’orizzonte dell’immediatezza sembra negarle. Per chi spera non ci sono situazioni che condannano all’immobilità: in ogni momento è data ancora e sempre una possibilità, come pregava il salmista: «spera in Dio, perché ti rattristi? Ancora potrò lodarlo!» (Salmo 42), come insegnava il profeta: «le misericordie di Dio non sono finite» (Lamentazione 3,22).
    La tradizione cristiana coglieva della speranza direttamente la sua dimensione oggettiva: la vita eterna. La mentalità secolarizzata avverte meno il fascino dell’eterno e riporta la speranza al suo aspetto soggettivo (cosa la rende possibile), intendendola in senso pratico (come organizzarla e renderla operativa).
    Anche nella storia biblica i motivi di speranza, le risposte alle provocazioni della vita si formulano e si precisano a partire da situazioni concrete: la presa di coscienza di condizioni di schiavitù, di eventi di liberazione (Esodo) o di riscatto del popolo (ricostruzione del dopo esilio); la riflessione sui grandi interrogativi del vivere e dell’esistere (Genesi); l’esperienza del patire e del morire (Giobbe); il bagaglio di saggezza e di sapienza che si accumula nella storia della gente che vive e ripensa la sua avventura personale e collettiva (Proverbi); il misterioso intreccio di pena e godimento della vita di ogni giorno (Cantico, Qoelet).
    La particolare condizione del cattolicesimo in Italia (un misto di appartenenza senza fede e di fede senza appartenenza, una fede mai del tutto dimenticata o rinnegata, ma in qualche modo sospesa, rinviata) richiede che siano costantemente richiamate le esperienze fondanti della speranza e sia illustrato nel modo più evidente il rapporto che la fede stabilisce con la vita, condizione essenziale perché la speranza appaia reale e concreta.
    È necessario richiamare un passaggio delicato della pastorale giovanile missionaria che miri ad una semplificazione del credere e curi fin dall’inizio l’intimo legame dell’annuncio della fede con la speranza che rende libera e felice la vita.
    Nell’evangelizzazione s’intrecciano dimensioni diverse e complesse.
    (1) La domanda centrale della missione: «cosa deve fare la comunità per annunciare oggi il Vangelo?», s’incrocia con
    (2) l’interpellanza della coscienza cristiana: «cosa vuole Dio da me, oggi? Come posso vivere la vita stessa di Gesù» (vocazione).
    Che la chiesa possa annunciare il Vangelo senza la testimonianza di vita dei cristiani (la risposta della loro vocazione, nella pratica della carità) è contraria alle indicazioni di Gesù («non chi dice Signore, Signore entrerà nel regno dei cieli ma chi compie la volontà del Padre» (Mt 7,21).
    (3) La pastorale assume entrambe le preoccupazioni in termini impegnativi: «attraverso quali segni dei tempi e testimonianze di vita lo Spirito la invia la Chiesa nel mondo di oggi?».
    (4) La domanda essenziale della vocazione missionaria diventa, allora: «sono (siamo) una testimonianza efficace del Vangelo?». O, in altre parole: «qual è il senso dei comportamenti cristiani agli occhi del mondo? Negli ambienti che frequento io sono riconosciuto come il discepolo del Signore?»
    La criticità riguarda soprattutto la presa in considerazione della seconda domanda, senza la quale la prima e la terza non possono trovare risposte soddisfacenti e la quarta viene semplicemente omessa.
    La formazione della coscienza personale del giovane cristiano, è dunque la questione pastorale fondamentale, e la pastorale vocazionale la determinazione più importante della comunità cristiana. Occorre che la pastorale giovanile promuova, innanzitutto, la consapevolezza del problema: le difficoltà evidenti nel correggere il distacco tra adesione di fede, celebrazione liturgica e scelte di vita dei giovani cristiani. Per essere testimoni credibili della fede è necessario acquisire competenza (proporzionata all’età e alle condizioni concrete) sulla vita quotidiana (cioè saper vivere bene). La domanda che interpella il cristiano è precisa e non può essere elusa: «nella mia classe, sul mio posto di lavoro, nell’esercizio della professione, nei locali che frequento, nello sport che pratico (...) sono segno trasparente del Vangelo, di fronte a tutti?»
    La fede cristiana, non è una religione emozionale perché individua nelle forme delle relazioni umane l’espressione compiuta della fede («da questo sapranno che siete miei discepoli se avrete amore gli uni per gli altri»: Gv 13,35), la sola che consente, per esempio, di conferire alla liturgia la dignità di «servizio di Dio», di culto e sacrificio della vita (Rom 12).
    II criterio della verifica pastorale, circa la vitalità della pastorale giovanile, non può che essere l’organizzazione della speranza e la testimonianza cristiana nei luoghi e nei tempi della vita dei giovani cristiani. Una parrocchia dal volto missionario coltiva la scelta coraggiosa di accompagnare gli adolescenti in tutti i momenti e i luoghi in cui la loro vita si esprime.
    Senza la risposta vocazionale i sacramenti tendono ad essere vissuti in ottica soggettiva: non danno forma alla vita quotidiana, piuttosto ne svelano drammaticamente il vuoto di senso; rischiano di essere fuga dalla realtà. Perché edifichi la speranza, l’evangelizzazione deve suggerire i modi concreti con cui vivere la fede e tenersi lontano dal rischio della consolazione virtuale e dal rifugio dell’immaginario. La religione emozionale estranea dalla vita. L’evangelizzazione s’arricchisce invece quante più forme di esperienza umana si accolgono. Non basta l’accoglienza (il sentirsi bene nel gruppo) e la partecipazione liturgica attiva (già per sé impegnativa); è richiesta una competenza, anche secolare (cosa significa vivere bene), sulla vita quotidiana, da parte degli operatori pastorali, che deve trasparire nella predicazione, nella qualità della celebrazione, nella coerenza delle proposte catechistiche e formative, se si vuole correggere l’impronta clericale della pastorale, che tende a fare della parrocchia un mondo chiuso e autoreferenziale (il parrocchialismo) dal quale non possono sorgere adolescenti evangelizzatori, cioè cristiani consapevoli.

    La fede che mette le ali

    «Anche i giovani faticano, gli adulti cadono, ma quanti sperano nel Signore mettono ali come aquile, camminano senza stancarsi (Is 40, 30). La fatica dei giovani era già riconosciuta nell’antichità. La giovinezza, età del sogno e della promessa di vita, è allo stesso tempo metafora della speranza e della fragilità della vita, poiché in nessun altro arco d’età diventa evidente come, tolta la speranza, la persona cade nell’apatia e nella tristezza.
    L’iconografia classica rappresentava la speranza come un’ancora, gettata in alto che dà stabilità e sicurezza, o come una vela che raccoglie il vento dello Spirito e fa volare.
    La testimonianza attiva della speranza è la vera sfida della nuova evangelizzazione. È anche il servizio più importante che la comunità cristiana può fare alla società.
    La speranza «mette le ali» («furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei»: Ap 12,14): non smette mai di far intravedere altre possibilità di stimolare nuovi progetti, di affidare compiti sempre nuovi.
    L’«organizzazione della speranza» offre continue opportunità ai giovani cristiani di rendere ragione dei motivi della loro fiducia nella vita, della loro attiva costruzione del futuro. Più precisamente, essa crea il contesto giusto per poter raccontare la bella storia del Vangelo. Il Signore Gesù è la «pienezza della vita» (Gv 1,14) che eleva la fragile condizione umana alla pienezza divina della vita data in abbondanza (Gv 10,10). Il Padre che Gesù ha fatto conoscere al mondo è un Dio che ama la felicità, che tiene alla sue creature, che fin da ora «tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere» (1 Tim 6,17). La vita nuova di Cristo tocca l’essere umano intero e trasfigura i vari aspetti della vita. Risana, umanizza e fortifica. Riguarda anche il piacere del mangiare insieme, l’entusiasmo di fare un cammino comune, il gusto di lavorare e di apprendere, la soddisfazione di servire chi ha bisogno, il contatto con la natura, l’entusiasmo dei progetti comunitari, il piacere della sessualità come linguaggio dell’amore maturo e fedele.
    La vitalità che il Cristo offre invita ad ampliare gli orizzonti, a liberarsi dai condizionamenti della società, a realizzare pienamente il caratteristico bisogno di «trasgredire» (inteso come «andare oltre») degli adolescenti perché risponde pienamente al sogno della bell’età del vivere «liberi, indipendenti e felici».
    Il bene della speranza appare nella sua essenzialità di fronte alla morte, realtà che interroga e inquieta molto gli adolescenti. La fine del tempo assegnato alla vita di ognuno elimina di fatto ogni possibilità materiale. Non si può avere speranza, dunque, se non in orizzonte di eternità. La vita felice richiede una condizione ulteriore: che sia piena di senso, che si apra alla speranza in una continuità oltre la morte, che faccia pregustare qualcosa della vita eterna. Solo l’amore osa tanto! La morte ha un nemico ed è l’amore. Chi ama fa vivere la persona amata, si ribella al pensiero della sua morte, continua ad amare e a sentirsi amato anche dopo la morte. In realtà solo l’amore rende bella la vita, la riempie di senso e di valore, la trasforma in un’opera buona. La speranza in una vita bella e buona poggia in definitiva su un’unica condizione: la generosità che rende capaci di amare e l’umiltà che accetta di essere amato. Questa è anche la condizione per vivere il «comandamento nuovo» dell’amore che è il testamento e la testimonianza di Gesù che ha dato la sua vita liberamente e per amore.
    L’organizzazione della speranza è dunque la vera forza della nuova evangelizzazione.
    La pastorale giovanile deve trasformarsi in un vigoroso polo di irradiazione della speranza, deve portare una ventata di Spirito che rinnovi l’entusiasmo dell’evangelizzazione, deve costituire la primavera della comunità cristiana che libera dalla rassegnazione, dalla disillusione, dall’adattamento standardizzato.


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