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    Una diversa socializzazione religiosa dei giovani?


     

    Intervista a Mario Pollo

    (NPG 2007-01-4)


    Domanda
    . A seguito delle varie esperienze di GMG e della forte presenza di nuovi movimenti ecclesiali, e del contemporaneo declino (quando non assenza) della tradizionale socializzazione religiosa, oggi i giovani tendono ad avere con l’istituzione Chiesa (e con la fede e l’esperienza cristiana) un rapporto diverso. È quello che vorremmo analizzare in questa intervista.

    Anzitutto, quali erano le caratteristiche principali della socializzazione religiosa anche solo di qualche decennio fa, e che ora tende a scomparire (in effetti molti giovani non sono mai stati socializzati religiosamente)? A quali ragioni si possono addebitare tali cambiamenti? E quali le caratteristiche essenziali della «nuova» (o forse carente) socializzazione religiosa che vivono i nostri giovani?

    Risposta. Più che la scomparsa di alcune caratteristiche della socializzazione religiosa oggi si è di fronte a una sua radicale modificazione se non, addirittura, alla sua scomparsa.
    Per comprendere questa affermazione occorre considerare la differenza tra educazione e socializzazione così come è proposta dalla filosofia dell’educazione. Differenza che non sempre è sottolineata perché sovente, in particolare dai sociologi, la socializzazione è considerata sinonima di educazione, quando non addirittura il processo sociale che contiene al proprio interno l’educazione.
    È necessario, invece, precisare che esiste una precisa distinzione tra i due processi formativi costituita dall’intenzionalità e dalla metodicità. Infatti, con il termine «educazione» si intende la relazione intenzionale che un adulto, cui la società attribuisce il ruolo di educatore, stabilisce con un giovane per far sì che questi acquisisca, coscientemente e criticamente, il patrimonio dei testi, dei codici, dei valori e delle regole istituzionali che costituiscono la cultura e il tessuto organizzativo della società in cui vive. La relazione educativa, per essere tale, deve essere strutturata secondo un metodo, e cioè secondo una sequenza logicamente coerente di azioni, e deve utilizzare i luoghi e gli strumenti che la società ha predisposto per tale scopo.
    Un’altra distinzione che viene spesso utilizzata tra socializzazione ed educazione è quella che si basa sulla dicotomia formale/informale. Mannheim, ad esempio, distingue tra «gli aspetti organizzati dell’educazione – quelli che troviamo nella scuola – e il concetto più esteso e generalizzato di educazione sociale che nasce dall’influsso della società educante, nella quale educhiamo mediante gli influssi della società».[1]
    Infine, a livello sociologico, viene utilizzato un ulteriore criterio di distinzione tra educazione e socializzazione indicando in quest’ultima il processo reale che avviene nei rapporti sociali, mentre l’educazione, per contro, rappresenta un sistema ideale e simbolico di significati che si desidera attribuire agli atteggiamenti e ai comportamenti umani. L’educazione, secondo questo pensiero sociologico, rappresenterebbe la tensione «ideale» dei processi reali di socializzazione, il punto di riferimento di progetti di vita che si realizzano concretamente nel corso della socializzazione.[2]
    Dopo aver definito la differenza tra la socializzazione e l’educazione si può cercare di spiegare l’affermazione della scomparsa della socializzazione religiosa ricordando che sino a pochi decenni fa nella nostra società erano presenti, in una relazione di complementarità, sia la socializzazione che l’educazione religiosa. Anzi il percorso di formazione religiosa per molte persone spesso non avveniva all’interno delle istituzioni educative ma all’interno della vita sociale quotidiana e, quindi, attraverso la socializzazione.
    Gli effetti congiunti della secolarizzazione e della modernità hanno profondamente modificato questa situazione e hanno fatto sì che la dimensione religiosa evaporasse lentamente, ma progressivamente e ineluttabilmente, dai processi di socializzazione diffusi, per condensarsi esclusivamente all’interno di forme di educazione specializzate o di processi di socializzazione di gruppi sociali particolari.
    La riduzione della formazione religiosa quasi esclusivamente all’educazione religiosa non è priva di conseguenze, perché quest’ultima si rivolge prevalentemente alla dimensione cognitiva dei ragazzi e avviene dopo che questi hanno già vissuto una socializzazione primaria, quella cioè che avviene essenzialmente all’interno della famiglia o di un suo sostituto, e che struttura la loro personalità fondamentale attraverso l’interiorizzazione degli orientamenti valoriali caratteristici della società e della cultura in cui il processo avviene.[3]
    Questo significa che se nella socializzazione primaria è assente l’interiorizzazione degli orientamenti religiosi, ai ragazzi viene a mancare la base di personalità necessaria all’esito positivo dell’educazione religiosa e della socializzazione secondaria specializzata delle istituzioni religiose.
    Il rischio è che ciò che trasmette l’educazione religiosa attraverso il catechismo e l’ora di religione siano, di fatto, delle semplici nozioni che, al pari di altre, sono soggette all’oblio se non vengono periodicamente riattivate. In altre parole, la formazione religiosa viene ad essere privata della sua dimensione esistenziale profonda e, quindi, può produrre quegli esiti, a volte sconcertanti, che emergono dalle indagini sulla religiosità giovanile.
    A riprova di questa affermazione vi è il dato, emerso da una ricerca realizzata poco più di una decina di anni fa dall’Istituto di Teologia Pastorale dell’UPS [4] e confermato da altre ricerche più recenti, che i giovani che avevano goduto in famiglia di una socializzazione religiosa promossa da entrambi i genitori vivevano un’esperienza religiosa più profonda, coerente, stabile e, perché no, più ortodossa. Per concludere la risposta a questa domanda, è utile anche ricordare che nei processi di socializzazione che le nuove generazioni vivono, intervengono con un ruolo non secondario i mass media, in particolare quelli cosiddetti elettronici. Questi media veicolano idee, valori e esperienze relative alla religioni perlomeno compositi e tutt’altro che coerenti con la tradizione cristiana della nostra società. Questo in presenza di una socializzazione primaria religiosa di orientamento cristiano debole. Il risultato non può che essere per molti adolescenti e giovani un orientamento religioso individualizzato, soggettivo, sincretistico e nomade, in cui ad esempio il Dio di Gesù e Gesù stesso evaporano, lasciando posto a un dio che pur essendo lo stesso si manifesta in forme diverse nelle differenti religioni e a un Gesù grande come uomo ma non Figlio Unigenito di Dio.

    La debolezza degli antichi e nuovi luoghi di socializzazione religiosa

    D. Pur non volendo dare ciò per scontato, appare comunque a molti osservatori che i luoghi tradizionali di socializzazione religiosa (famiglia, parrocchia, insegnamento scolastico della religione…) non siano più adeguati, almeno per i giovani.
    Ma anche quella che passava attraverso i gruppi, le gloriose associazioni come AC e Agesci e altre istituzioni educative (oratori…) è in difficoltà. Essi infatti fanno fatica a tenere come luoghi appunto di socializzazione o condivisione di valori religiosi, mentre sembrano tenere per motivi più di tipo amicale, fusionale, ecc. Condivide questo giudizio? Cos’è successo per determinare il venir meno della loro funzione?

    R. La realtà disegnata da questi luoghi tradizionali di socializzazione religiosa è molto variegata e composita, per cui ogni generalizzazione rischia di falsificare la realtà. Tuttavia, pur con la necessaria prudenza, si può affermare che tra le famiglie che vivono tiepidamente sia l’appartenenza alla Chiesa che la pratica religiosa si è oramai consolidata la delega all’esterno dell’educazione religiosa. Infatti, normalmente queste famiglie delegano l’educazione religiosa dei figli o alla parrocchia o alle associazioni e movimenti o alla scuola cattolica. Questa delega è spesso accompagnata da una pressoché totale assenza all’interno della famiglia di ogni forma di vita religiosa e, quindi, di una effettiva socializzazione religiosa. Succede, addirittura, che i genitori invitino i figli a pregare e ad andare a messa ma che loro non preghino e non vadano a messa. Sembrano, apparentemente, dei casi estremi, ma invece sono abbastanza diffusi.
    L’assenza di una socializzazione religiosa primaria nelle famiglie rende in molti casi inefficace, o perlomeno assai debole, l’educazione e la socializzazione religiosa secondaria promossa dalle agenzie educative a cui le famiglie hanno affidato la formazione religiosa dei figli.
    Un’altra situazione, diffusa nelle famiglie che pure hanno al loro interno una qualche forma di educazione religiosa, è quella in cui questa funzione è promossa esclusivamente dalla madre o da una nonna. L’assenza del padre, o di entrambi i genitori, dall’educazione religiosa ha degli effetti negativi e la rende meno incisiva e certamente assai più fragile.
    Occorre a questo proposito ricordare che il padre è colui che deve garantire l’acquisizione del canone culturale e fornire ai figli la formazione necessaria alla loro transizione verso l’età adulta e, quindi, all’inserimento pieno nella società.
    L’assenza del padre dall’educazione e/o dalla socializzazione religiosa priva la cultura sociale trasmessa ai figli degli orientamenti di valore tipicamente religiosi. Ma non solo. In conseguenza di questa omissione, la vita religiosa appare ai figli come un qualcosa di superfluo, di non necessario alla conquista della propria adultità e alla piena partecipazione alla vita sociale.
    Da quanto detto si potrebbe ricavare che la debolezza formativa delle associazioni e dei movimenti è una conseguenza dell’assenza di educazione e di socializzazione primaria in molte famiglie. Tuttavia questa spiegazione è solo parziale. Ci sono, infatti, almeno due altre ragioni alla base di questa debolezza. La prima riguarda l’offerta educativa e socializzante delle associazioni, mentre la seconda la cultura presente nella modernità liquida.
    L’offerta formativa delle associazioni/movimenti è spesso indebolita dalla «bassa soglia», ovvero dalla necessità di offrire ai ragazzi un’appartenenza debole e impegni non troppo lunghi nel tempo per evitare una forte perdita di adesioni. L’appartenenza debole comporta lo sviluppo di itinerari formativi che non propongono scelte radicali o perlomeno del tipo sì/no che potrebbero far entrare in conflitto il ragazzo con le altre appartenenze che sono presenti nella sua vita. Milanesi definiva questa prassi formativa come «iposocializzazione». Ma non solo. L’appartenenza all’associazione si basa fortemente sui rapporti di mondo vitale quotidiano, ovvero su rapporti amicali di piccolo gruppo in cui i ragazzi, in nome dell’appartenenza al gruppo, rischiano di perdere i confini della propria identità e della propria autonomia.
    Spesso, infatti, questi gruppi si fermano allo stadio evolutivo del gruppo in cui la forte coesione del gruppo stesso richiede ai membri la rinuncia ad essere autenticamente se stessi. È un tipo di gruppo che non consente una effettiva crescita delle persone. In più la dimensione emozionale/affettiva prevale nettamente su quella cognitiva/intellettiva.
    Alcune associazioni hanno cercato di superare questa debolezza ricorrendo alla «ipersocializzazione», ovvero alla creazione di un modello formativo che immette il ragazzo in una realtà altra rispetto a quella che vive quotidianamente. Questa azione formativa è resa possibile dal fatto che l’associazione/movimento appare come un castello fortificato in cui è possibile vivere una vita diversa da quella della società esterna.
    Anche questo modello, al di là della sua apparente forza, è debole perché la vita religiosa della persona è grandemente dipendente dall’appartenenza all’associazione/movimento. Quando questa appartenenza viene meno, essa spesso si dissolve.
    Questa doppia crisi delle associazioni/movimenti ha certamente la sua origine in alcune trasformazioni della cultura sociale caratteristiche della modernità liquida come, ad esempio, il politeismo etico prodotto dalla complessità sociale, la temporalità ossessivamente centrata sul presente che dissolve tutto ciò che resiste al fluire del tempo e la concezione della vita come un progetto aperto, la frammentazione dell’identità personale e storico culturale e, infine, l’individualismo che fa del soggetto l’unico responsabile del successo o del fallimento della propria traiettoria esistenziale.

    D. I fenomeni citati sopra (GMG ed eventi ecclesiali di grande numero, happenings, e i nuovi movimenti) sembrano in grado di raccogliere le domande o le tensioni ideali e religiose dei giovani. Esprimono un nuovo modo di porsi nei confronti del Cristianesimo e della Chiesa? Quali i guadagni e gli aspetti problematici?

    R. Personalmente sono poco attratto dalle manifestazioni di massa, dal costituirsi delle folle in occasione di eventi particolari; preferisco gli eventi in cui vi è l’incontro di gruppi più piccoli e in cui vi è spazio per la relazione e per il silenzio. Tuttavia riconosco che in molte realtà giovanili queste manifestazioni sono diventate il centro del cammino pastorale in quanto ne sono la meta che apre ad un nuovo inizio. Il limite di queste esperienze dal punto di vista pastorale è costituito dalla loro distanza dalla vita quotidiana e dall’eccessiva accentuazione della dimensione emozionale che propongono. Questo significa che, pur costituendo delle esperienze forti per molti dei giovani che le vivono, non aiutano il giovane a compiere quella necessaria sintesi di fede e vita che caratterizza la fede cristiana. Oltre a questo, non sono molto funzionali alla costruzione di comunità, ovvero di gruppi locali di cristiani che condividono in modo solidale la loro esperienza di fede/vita. Propongono, infatti, un’appartenenza universale ma impersonale, nel senso che essa è deterritorializzata, non legata cioè a una comunità territoriale di vita, bensì a una comunità di destino tessuta con l’ausilio delle comunicazioni elettroniche più che da relazioni tra persone in carne e ossa.
    È certamente vero che queste comunità – pur essendo virtuali e prive di rapporti personali faccia a faccia – influenzano la vita delle persone quanto e, forse, più di quelle tradizionali. Tuttavia, a causa dell’esperienza di alterità debole che propongono, a mio avviso non possono garantire quella comunione che nasce dall’accettazione reciproca della propria diversità, debolezza e, quindi, finitudine umana. Accettazione che può nascere solamente da un cammino pastorale compiuto all’interno di un gruppo che sperimenti una effettiva esperienza di animazione culturale.

    Appartenenza ecclesiale «liquida»

    D. Un sociologo inglese (Peter Ward) parla di «Chiesa liquida», e asserisce che lo spazio ecclesiale proprio dei giovani adulti è appunto quello delle mobilità, minor radicamento nel territorio, con un’altra esperienza del tempo, più pronti a partire per pellegrinaggi che a inserirsi nei ritmi quotidiani.
    Condivide questa descrizione di giovani «liquidi» e quali le ragioni e le espressioni di tale liquidità?

    R. La condivido con due precisazioni. La prima è che la liquidità dell’appartenenza ecclesiale non riguarda solo i giovani adulti ma anche gli adulti tout court. La seconda, che preferisco parlare di questo fenomeno definendolo «appartenenza con riserva» alla comunità ecclesiale locale. Questo tipo particolare di appartenenza è quella che fa sì che quando la parrocchia non è in grado di offrire un’adeguata gratificazione alle attese dei fedeli, in particolare a livello emotivo-affettivo, una parte di questi si metta alla ricerca di un’altra parrocchia o gruppo o comunità che sia in grado di assicurare questa gratificazione. Il risultato di questa ricerca è un nomadismo parrocchiale che mette in crisi il tradizionale rapporto biunivoco tra l’appartenenza territoriale e quella parrocchiale. La parola nomadismo indica che questa ricerca è senza fine. Perché la nuova comunità ecclesiale locale si rivelerà presto a sua volta insoddisfacente, e questo produrrà una nuova migrazione in una sequenza senza fine. Alcune volte questa migrazione conduce verso esperienze religiose «altre» rispetto a quella cristiana.
    Questo fenomeno, anche se espresso da una minoranza di fedeli, deve essere guardato con attenzione perché è il segno di una trasformazione dell’esperienza religiosa che è ben più ampia e diffusa di quella vissuta dai nomadi parrocchiali avendo alla base, in modo particolare, quel fenomeno che viene definito «religione alla carta» e, in generale, il cambiamento dell’attuale cultura sociale che va sotto il nome di liquefazione o di polverizzazione della modernità.
    In altre parole «l’appartenenza con riserva» è la punta di un iceberg che nella sua zona sommersa è formato da una esperienza religiosa nutrita principalmente dall’individualismo, che è il fondamento della «religiosità alla carta», ma anche in modo non marginale dalla deterritorializzazione, dalla centralità del corpo e dalla negazione delle distinzioni tra l’uomo e Dio.
    Per comprendere il ruolo dell’individualismo, è necessario ricordare che la comunità, nelle sue varie forme e manifestazioni culturali, ha sempre rappresentato il luogo in cui le persone potevano inscrivere il proprio progetto personale di vita all’interno di un progetto collettivo e, quindi, condividerlo attraverso i vincoli di solidarietà e altruismo che caratterizzano le comunità autentiche.
    Oggi, nella liquefazione della modernità, si assiste all’attribuzione all’individuo di una centralità assoluta che gli assegna, in modo esclusivo, l’onere di tessere l’ordito della sua vita e la responsabilità totale del successo o del fallimento. Questo genera una profonda angoscia, essendo ogni individuo sottodeterminato rispetto alla propria autocostruzione, che viene esorcizzata in vari modi, in particolare con l’espressione di forme di egoismo radicale che sconfinano verso il narcisismo e che sono socialmente validate attraverso i miti dell’autorealizzazione.
    La dissoluzione dei legami comunitari tocca anche la comunità ecclesiale, che, come si è già accennato, tende a perdere la sua caratteristica di luogo del progetto comune di salvezza per divenire, in molte situazioni, il luogo della convivenza, all’interno di una relazione di intimità, di progetti individuali di salvezza reciprocamente impermeabili.
    In questa comunità nessun membro sembra disponibile a rinunciare a una parte, anche molto piccola, del proprio progetto personale per sostenere il progetto dell’altro o la costruzione di un progetto, che realizzi il bene comune.
    Questo individualismo è alla base di alcune caratteristiche tipiche dell’attuale esperienza religiosa.
    La prima è costituita dalla fluidità e dalla mobilità dell’appartenenza religiosa, che, di fatto, coincide con ciò che è stato prima definito come «appartenenza con riserva» e, quindi, con la punta dell’iceberg dell’esperienza religiosa attuale. La fluidità e la mobilità si manifestano come tendenza delle persone a impegnarsi in modo limitato o da una scadenza o dall’entità dei benefici che pensano di ottenere dall’appartenenza. Quando vivono una delusione tendono ad andare a ricercare una nuova adesione altrove.
    La seconda caratteristica è data dal legame tra impegno e crescita e autorealizzazione personale. Non vale la pena impegnarsi in qualcosa che non produce felicità e che sia svolto senza gioia. La disaffezione nei confronti della pratica religiosa è una manifestazione concreta di questa caratteristica e può essere sintetizzata dalla frase: «La messa domenicale mi annoia e non ne ricavo niente».
    La terza caratteristica è la scomparsa dello spirito di sacrificio. Per la stragrande maggioranza delle persone e dei cristiani «perdere la propria vita» in nome della fede e della vita futura è assolutamente impensabile.
    La quarta caratteristica è costituita dall’emergere di un individuo olistico, che ha preso il posto della società olistica. Questo significa che la persona percepisce in modo completo e integrato ciò che sino a poco tempo fa considerava in modo separato e settoriale. Ecco, quindi, la necessità, nella sua esperienza religiosa, di prendere in considerazione tutte le dimensioni di cui si sente formata, razionale ed emotiva, spirituale e materiale, psichica e corporea.
    L’insieme di queste quattro caratteristiche spiega la comparsa di una religione alla carta: «Scelgo di andare la perché...», oppure ci si costruisce con il proprio gruppo una esperienza religiosa su misura. Una scelta alla carta che vale anche per le prescrizioni morali, nel senso che si accettano quelle più gradite e si rifiutano le altre. Un esempio tipico riguarda la morale sessuale. Anche per quanto riguarda gli articoli di fede si assiste a una scelta soggettiva. Ad esempio, nella fase storica attuale i cattolici privilegiano l’umanità di Gesù, il Dio Amore rispetto al Dio del giudizio, al Cristo maestoso e lontano, così come, spesso, escludono l’esistenza dell’inferno e del diavolo.
    Nella esperienza religiosa della maggioranza delle persone non vi è più la distinzione tra il bene e il male, ma tra il gradevole e il penoso o tra ciò che può essere creduto o non creduto.
    Una variante estrema della religione alla carta è costituita dalla religione «fai da te» che quasi sempre è un bricolage sincretistico.
    Esempi di questo tipo di esperienza religiosa sono rintracciabili nei comportamenti delle persone che seppur sedotte dal buddismo tibetano si recano in pellegrinaggio a Compostela, oppure di quei cattolici che visitando Benares non si limitano a fare i turisti ma cercano di sperimentare l’esperienza religiosa che gli indiani fanno in quel luogo.
    La globalizzazione e la comunicazione di massa rendono disponibile nel mercato dell’immaginazione un numero ampio di soggetti e di materiali con cui costruire la propria sceneggiatura religiosa.
    Si può affermare che l’appartenenza con riserva è un modo di vivere, all’interno dell’appartenenza ecclesiale, la religione alla carta.
    Come si è visto, l’appartenenza con riserva non è cha la punta di un iceberg molto più grande e complesso nato dalla frantumazione della banchisa della prima modernità. L’aspetto consolante è che le caratteristiche dell’esperienza religiosa descritte se da un lato sono fortemente relate alla liquefazione della modernità, dall’altro lato sono strettamente individuali e, quindi, legate alla mutevolezza e alla fragilità delle persone: prive dunque dei requisiti necessari alla loro trasmissione verso le nuove generazioni.
    Questo significa che il futuro non è compromesso. È quindi possibile prevedere un ritorno verso appartenenze più solide e il recupero nell’esperienza religiosa di un’Alterità e di una Trascendenza non immanenti. Per questo è però necessario un impegno pastorale ed educativo diverso da quello proposto spesso da alcuni percorsi pastorali contemporanei.

    Nuovi tempi e spazi nell’esperienza religiosa dei giovani

    D. Tempi e spazi religiosi dei giovani sembrano qualitativamente diversi da quelli delle generazioni passate (come tempi e spazi congrui per il tempo urbano e lo spazio globalizzato).
    Sta emergendo appunto una nuova figura di cristianesimo segnato da nuovi spazi e da un nuovo rapporto col tempo (ritmi, scansione, durata)? È proponibile dall’istituzione ecclesiale come via per accedere ai giovani?

    R. Per prima cosa è necessario chiarire che i tempi e gli spazi religiosi che i giovani abitano sono stati prodotti dalla cultura sociale generata dal mondo adulto, non sono una loro invenzione... al massimo, la loro interpretazione dello spazio-tempo costruito dalla modernità liquida aut seconda modernità.
    Si tratta, come ricorda Paul Virilio, di uno spazio-tempo che si è trasformato in spazio-velocità. Per comprendere questa affermazione è necessario ricordare che la modernità ha disgiunto lo spazio e il tempo nell’esperienza della vita quotidiana. Il tempo si è autonomizzato dallo spazio, perchè la velocità di movimento non è più stata legata alla velocità di organismi o elementi naturali, diventando una questione di ingegno. In altre parole, la velocità non è più dipesa dalla capacità di locomozione degli esseri umani o degli animali, come ad esempio il cavallo, ma dall’invenzione di mezzi di locomozione come il treno, l’automobile, l’aereo o di comunicazione come il telegrafo, la radio e il telefono. All’interno di questa disgiunzione la velocità è emersa come elemento importante nella definizione dello spazio, perché ha fatto sì che le distanze perdessero la loro consistenza oggettiva per assumere quella soggettiva, fortemente dipendente dalla stessa velocità.
    Il compimento di questa trasformazione dello spazio-tempo in spazio-velocità è pienamente in atto in questa seconda fase della modernità per effetto dell’evoluzione degli strumenti di comunicazione, sia di quelli del trasporto delle merci e delle persone che di quelli della trasmissione delle informazioni e dei comandi dell’azione.
    I fenomeni sociali, economici e tecnologici che sono alla base della formazione dello spazio-velocità hanno avuto dei profondi effetti sia sul vissuto del tempo, in particolare trasformando il tempo noetico in tempo spazializzato, sia sull’organizzazione sociale dello spazio con l’omogeneizzazione dei luoghi e la nascita dei non luoghi.
    Personalmente ritengo che queste trasformazioni non siano foriere di qualcosa di positivo per quanto riguarda l’esperienza religiosa.
    Per quanto riguarda lo spazio, il mio pessimismo nasce dal fatto che questa trasformazione, oltre ad accentuare la desacralizzazione dei luoghi, priva i luoghi delle celebrazioni liturgiche della memoria, e quindi della tradizione, ne riduce l’identità e non consente la nascita di relazioni umane diverse da quelle in atto nella vita sociale quotidiana.
    Per quanto riguarda il tempo, il risultato più evidente è la perdita della dimensione storica dell’esperienza cristiana, l’indebolimento della progettualità e della coscienza individuale.
    Questo significa che la Chiesa, più che adattarsi a queste trasformazioni spazio-temporali, deve operare per ricostruire luoghi autentici e una diffusa nootemporalità

    Il lavoro educativo dell’animazione

    D. Che lavoro educativo intravede, a parte l’aspetto religioso, in questa peculiare situazione?

    R. Questa situazione evidenzia la necessità di un intervento educativo sviluppato secondo il modello dell’animazione culturale.
    Che, dal mio punto di vista, è quello che meglio di altri risponde alle sfide poste dalle trasformazioni sociali e culturali della modernità liquida aut seconda modernità e che, come prima si è visto, sono alla base di molti dei problemi con cui deve fare i conti la pastorale giovanile.
    Infatti l’animazione culturale persegue l’obiettivo generale di abilitare il giovane a dare senso al quotidiano attraverso lo sviluppo di una identità personale e storico-culturale non frammentata e narcisistica, capace di sostenere lo sviluppo di una partecipazione solidale alla vita sociale e, infine, di aprire il giovane al mistero della trascendenza. L’animazione si propone, cioè, di aiutare il giovane a scoprire il progetto di vita che ne può realizzare l’unicità all’interno, non di una cura di sé egocentrica, ma di una relazione di alterità autentica e, quindi, della costruzione di legami sociali in grado di manifestare l’interdipendenza tra io e noi.
    Tutto questo utilizzando un metodo fondato sull’accoglienza adulta del mondo giovanile, sull’esperienza di una vita di gruppo fondata sulla riscoperta della comunicazione autentica in chiave esistenziale e sulla presa di coscienza di sé e degli altri.
    A monte del metodo e degli obiettivi vi è un’antropologia che accoglie il mistero dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio, che riconosce la dimensione progettuale, culturale e simbolica dell’essere umano, la sua finitudine radicale e la sua grandezza che gli fa abitare i confini tra il finito e l’infinito.
    Il filo rosso che cuce il metodo, gli obiettivi e l’antropologia dell’animazione è l’amore alla vita, la scommessa che è possibile far crescere e onorare la vita anche laddove esistono segni di morte che la minacciano
    Ora, al di là di questi brevi accenni, non è possibile descrivere in poche righe il modello educativo dell’animazione culturale per cui rimando all’intervista pubblicata nel numero di ottobre 2005 di NPG e al volume Animazione Culturale in cui questo modello è descritto adeguatamente.

     

    NOTE

    [1] Mannheim K., L’uomo e la società in un’età di ricostruzione, Comunità, Milano, 1959, p. 57.

    [2] Besozzi E., Elementi di sociologia dell’educazione, Carocci, Milano, 2000, p. 75.

    [3] Parsons T., Il sistema sociale, Comunità, Milano 1981, p. 217-218.

    [4] Pollo M., L’esperienza religiosa dei giovani. I dati, Elledici, Leumann, 1995.


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