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    La generazione del nulla


    Quando la vita perse il senso

    Umberto Galimberti

    (NPG 2007-08-78)


    Come «anticipo» del nuovo libro di Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani (Feltrinelli), pubblichiamo quanto comparso su Repubblica, che riprende l’introduzione e l’ultimo capitolo. Un libro «inquietante», ma ricco di spunti di analisi e di sfide per l’educatore.

    I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.
    Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso.
    Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto quell’analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome. E del resto che nome dare a quel nulla che li pervade e che li affoga? Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le parole che invitano all’impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in quell’inarticolato, all’altezza del quale c’è solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro segreta depressione come stato d’animo senza tempo, governato da quell’ospite inquietante che Nietzsche chiama «nichilismo» e così definisce: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al ‘perché?’. Che cosa significa nichilismo? Che i valori supremi perdono ogni valore».
    E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti più o meno sincere, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come rumore insensato, in quella stagione dove i nostri giovani passano, dalla primavera in cui la vita li ha immessi, a quell’inverno dell’ anima dove anche il rigore del gelo si fa sempre meno avvertito.
    Un po’ di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un po’ di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica di quell’individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che, stante l’inaridimento di tutti i legami affettivi, non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a quell’unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama denaro.
    Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo, ma l’individuo è solo la vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, quando non di sensi e di legami affettivi, in cui la nostra cultura particolarmente si distingue, è ovvio che le cure farmacologiche a cui oggi si ricorre fin dalla prima infanzia o quelle psicoterapiche che curano le sofferenze che originano nel singolo individuo sono per la gran parte inefficaci. E questo perché se l’uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde, il disagio non è più «psicologico», ma «culturale». E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un’implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime.
    E che dire di una società che non impiega il massimo della sua forza biologica che i giovani esprimono dai quindici ai trent’anni, progettando, ideando, generando, se appena si profila loro una meta realistica, una prospettiva credibile, una speranza che, proprio perché non è una promessa vuota, è in grado di attivare quella forza che i giovani sentono dentro di sé e poi fanno implodere, anticipando la delusione per non vedersela di fronte? Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della nostra cultura? Un segno ben più minaccioso dell’avanzare degli integralismi di altre culture, dell’efficientismo sfrenato di popoli che si affacciano nella nostra storia e con la nostra si coniugano, avendo rinunciato a tutti i valori che non si riducano al valore del denaro.
    Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della «ragione strumentale» che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell’orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l’aridità del sentimento. E in effetti, scrive Heidegger, «l’esito dell’aggirarsi del più inquietante fra tutti gli ospiti è lo spaesamento come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia». ( ... )
    Vorrei intanto che si facesse piazza pulita di tutti i rimedi escogitati senza aver intercettato la vera natura del disagio dei nostri giovani che, nell’atmosfera nichilista che li avvolge, non si interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha sempre fatto, ma – e questa, come ci ricorda Guenther Anders, è un’enorme differenza – sul significato stesso della loro esistenza, che non appare loro priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso. La negatività che il nichilismo diffonde, infatti, non investe la sofferenza che, con gradazioni diverse, accompagna ogni esistenza e intorno a cui si affollano le pratiche d’aiuto, ma più radicalmente la sottile percezione dell’insensatezza del proprio esistere. E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daímon che, quando trova la sua realizzazione approda alla felicità, in greco eu-daimonía?
    In questo caso il nichilismo, nella desertificazione di senso che opera, può segnalare che a giustificare l’esistenza non è tanto il reperimento di un senso, sognato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità quanto l’arte del vivere (téchne tou-bíou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gno-thi seautón, conosci te stesso) e nell’esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron).
    Questo spostamento potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell’espansione della vita a cui per natura tendono la giovinezza e la sua potenza creativa. Se proprio attraverso il nichilismo i giovani sapessero operare questo spostamento di prospettiva capace di farli incuriosire di sé, «l’ospite inquietante» non sarebbe passato invano. Ma perché ciò possa avvenire è necessario che gli adulti non si consegnino alla rassegnazione e alla fatalità, ma sappiano accompagnare i giovani alla scoperta della loro simbolica, che è custodita e secretata nel loro cuore ora silenzioso ora tumultuoso, della cui forza, forse, li abbiamo privati, spuntando quelle che il Salmo 127 definisce «frecce»: «Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza».
    Per riscoprire questa simbolica occorre distanziarsi dallo sguardo sociologico che punta gli occhi sulla devianza (i drogati, i violenti, gli sfaccendati), versione scientifica delle ansie genitoriali che si nutrono di timore per il futuro, senza neppure il sospetto che la devianza forse altro non è che la frustrazione della simbolica che anima la giovinezza. E anche dallo sguardo psicologico che considera la giovinezza come un’età di mezzo in cui non si è più bambini e non si è ancora adulti, e perciò età faticosa, difficile, fonte di sofferenze e di ansie, età di transito, età inadeguata. Niente di più falso. La loro età non è un «transito». Il futuro è già ben descritto nel loro presente giovanile che, se può apparire aberrante, è solo perché noi adulti, consegnati alla nostra rassegnazione, quando non al cosiddetto «sano realismo», abbiamo svilito il segreto della giovinezza, che è quel dispositivo simbolico in cui sono già ben scritte e descritte le figure del futuro, che solo la nostra pigrizia mentale e affettiva ci impedisce di cogliere.

    (La Repubblica 5 ottobre 2007)


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