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    Il rischio e l’iniziazione



    Educare il corpo /6

    Pierangelo Barone

    (NPG 2007-09-52)

    In educazione il termine rischio rimanda a molte possibili interpretazioni e letture. Nel dibattito più recente ci si è spesso soffermati sulle connessioni che si determinano tra l’esperienza educativa e formativa e la dimensione del rischio che inevitabilmente accompagna il lavoro dell’educatore. Sappiamo bene come ogni impresa educativa chiami in campo la dimensione del rischio: ad esempio nel rischio stesso implicato dalla relazione con l’altro da me, rispetto alla quale in qualità di educatore so già in partenza di espormi sempre alla possibilità del rifiuto o dell’insuccesso. Il rischio, poi, evoca facilmente nell’immaginario pedagogico la dimensione dell’avventura; c’è un fascino profondo che ci spinge a viaggiare e a realizzare esperienze inconsuete, che si può spiegare con l’attrazione verso il rischio implicato nell’affrontamento di situazioni che chiedono di rivedere sostanzialmente il nostro saper fare in contesti totalmente nuovi e, per certi versi, spiazzanti: è questa una delle chiavi di lettura della potente fascinazione che la dimensione avventurosa riveste complessivamente nelle esperienze degli uomini. Il rischio infine ci riporta al corpo, nel senso in cui lo intende David Le Breton,[1] come necessità antropologica che risponde alla crisi dei significati e dei valori rispetto ai quali un tempo, l’Uomo si costituiva come soggetto identitario, per cui oggi esporre il corpo a prove rischiose sempre più connotate in senso estremo rappresenterebbe l’agito inconscio di una ricerca di sé che trova nel rapporto con la morte il proprio significato fondamentale. Il comportamento rischioso, quindi, come portale d’accesso all’autenticità di sé: se sono capace di affrontare e superare situazioni in cui il mio corpo è sottoposto ad esperienze di limite, posso finalmente accettarmi e rassicurarmi sul mio «essere al mondo».
    Avventura e rischio sono quindi concetti interrelati con il corpo e ci spingono a guardare ancora più in là, sul versante della riflessione pedagogica e antropologica, tanto che nell’accezione di rischio introdotta da Le Breton vediamo la necessità di integrare un terzo fondamentale termine che è spesso implicato nelle esperienze formative, soprattutto se considerate in rapporto all’adolescenza: l’iniziazione. Come è noto, questo concetto appare significativamente nelle analisi antropologiche delle società pre-industriali e scarsamente alfabetizzate, per descrivere la funzione di alcuni rituali di passaggio il cui scopo principale era quello di «drammatizzare» e «rappresentare» la trasformazione sociale dei giovani membri di una comunità in uomini o donne «adulti». L’iniziazione in questi casi coincideva, stando alle descrizioni forniteci dai ricercatori che hanno studiato sul campo i fenomeni rituali legati a quelle culture, con situazioni ed eventi particolari caratterizzati da un forte valore simbolico; si trattava spesso di esperienze in cui i giovani iniziandi dovevano affrontare situazioni di una certa pericolosità, in cui dare prova di coraggio e resistenza al dolore, alla fatica, alla paura. Al centro delle esperienze iniziatiche era posto quasi sempre il corpo dell’iniziando.
    Tornando alle suggestioni di Le Breton, proviamo allora ad analizzare il senso che assumono i comportamenti rischiosi dei nostri ragazzi oggi, mettendo in relazione la dimensione del rischio e la dimensione iniziatica. Se è vero che nel processo di crescita che presiede il percorso di costruzione identitario degli adolescenti la necessità del rischio e il bisogno di iniziazione appaiono istanze insopprimibili, di cui anche l’esperienza educativa è pervasa, ci interessa capire meglio quali differenze e quali intrecci vi sono tra l’esperienza rischiosa e l’esperienza iniziatica. Crediamo non si possano appiattire semplicemente l’una sull’altra, come d’altra parte tanto l’una quanto l’altra si implicano vicendevolmente. Le Breton sostiene, in particolare rispetto alla valenza del rischio in adolescenza: «nella sua infinita varietà, il rischio è un modo di verificare la potenza personale dell’individuo e di testarne la saldezza […] Il rischiare s’impone tanto più al giovane dato che egli si sente insicuro, incerto sulla maniera di condurre la sua vita. L’avvicinarsi alla morte, anche da lontano, attraverso un’attività fisica o sportiva oppure un acting out, consente al giovane di sentirsi rassicurato sulla sua legittimità ad esistere».[2] Assumendo come valida la riflessione qui proposta, diciamo che oggi il comportamento rischioso può essere la ricerca di una risposta solitaria del ragazzo o della ragazza sulla propria competenza a crescere, a divenire un adulto che possa rispecchiare il più possibile l’immagine che egli o ella porta dentro, ma soprattutto l’immagine di un’adultità che intorno gli è stata proiettata. È proprio questo lo scarto decisivo che ci sembra di cogliere nella relazione tra l’esperienza del rischio e l’esperienza iniziatica: è il fatto che in quest’ultima possiamo ancora riconoscere una presenza sociale di un mondo adulto che si predispone, attraverso un «gesto istituente», al riconoscimento del giovane nel proprio decisivo compito sociale e psichico. L’esperienza iniziatica, per questa ragione, è intrisa di una valenza pedagogica essenziale; senza rinunciare all’importanza del rischio che è sotteso alla prova necessaria per suggellare un passaggio, un cambiamento, una trasformazione, lo inserisce in un contesto dove l’adulto diventa testimone riconosciuto e richiesto dall’adolescente: colui che potrà senz’altro dichiarare «si è vero, ce l’hai fatta, hai dimostrato di valere».
    L’esperienza rischiosa fine a se stessa, come suggerisce Le Breton, può temporaneamente offrire quella sensazione di potenza che satura soltanto l’inquietudine dell’insicurezza, per poi lasciare riaffiorare quel bisogno di risposta al senso dell’esistenza che i ragazzi in solitudine difficilmente trovano. La posta del rischio si fa così ogni volta più elevata, perché il grande giudice con il quale è simbolicamente esperito il limite attraverso il comportamento rischioso è la morte stessa;[3] se per l’esperienza iniziatica il rapporto con la morte è sostanzialmente di tipo simbolico, mediato dai numerosi elementi che strutturano il setting della rappresentazione nel quale avviene il rituale, nell’esperienza rischiosa la morte si presentifica costantemente in quanto possibilità reale. Ed è proprio su questo livello che registriamo un decisivo scarto tra ciò che rappresenta, in senso pedagogico, l’esperienza iniziatica rispetto all’esperienza rischiosa: nel primo caso possiamo parlare di un tipo di esperienza che per il suo valore sia materiale che simbolico è finzionale, nel senso che costruisce il proprio rapporto con i significati più profondi dell’esistenza del soggetto all’interno di una vera e propria «messa in scena» capace di produrre concreti effetti educativi; nel secondo caso parliamo di un tipo di esperienza in cui non vi è alcun setting, dove il rapporto con gli interrogativi esistenziali si gioca direttamente sul piano dell’azione individuale, e seppure vi si scorge una debole valenza formativa se ne perde rapidamente il senso per l’impossibilità di elaborarne il significato all’interno di una relazione.[4]
    Mettere in gioco il corpo e confrontarsi con il rischio costituisce al di là di tutto una dimensione importante in adolescenza, e in questo senso chiede agli educatori e ai pedagogisti di non eludere la domanda di senso che ne è sottesa. Proprio per questo, senza volerla intendere come un anacronistico, improbabile e nostalgico desiderio di ritornare ai rituali iniziatici di un tempo, la dimensione pedagogica dell’iniziazione costituisce un oggetto di costante attenzione nella progettualità educativa complessiva.
    Con essa si sottolinea un pericolo e una necessità: il pericolo di un abbandono dei ragazzi al destino del loro tempo, segnato dagli isolamenti e dalla lotta per la sopravvivenza come criterio sociale di riferimento; la necessità di una presenza comunitaria che sia capace di non sostituirsi ai ragazzi nella sperimentazione di ciò che fa crescere, ma altrettanto capace di favorire la realizzazione di uno spazio finzionale (e dunque educativo) che permetta davvero di correre il rischio di crescere.

     
    NOTE

    [1] Cf D. Le Breton, Passione del rischio, EGA, Torino 1995.

    [2] Ivi, p. 106.

    [3] Pensiamo ai molti giochi pericolosi di adolescenti di cui abbiamo sentito parlare, purtroppo molto spesso nelle cronache nere, in questi anni, di cui quelli legati alla velocità sono forse i più diffusi ma non gli unici. Nei comportamenti a rischio, per altro, la pedagogia sanitaria fa rientrare anche le patologie legate all’alimentazione, oppure il consumo di sostanze psicotrope, per citare i più eclatanti.

    [4] Cf P. Barone (a cura di), Traiettorie impercettibili. Rappresentazioni dell’adolescenza e itinerari di prevenzione, Guerini e Associati, Milano 2005.


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