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    Educare il corpo /5

    Pierangelo Barone

    (NPG 2007-08-55)


    Una delle dimensioni imprescindibili di cui rendere conto quando tematizziamo il corpo nella riflessione pedagogica è il tempo. Corpo e tempo si implicano in una relazione di reciprocità che permette di cogliere il flusso esperienziale del movimento dell’esistenza dal passato al futuro attraverso il presente; è in questa relazione giocata nella materialità esistenziale di un corpo che porta su di sé i segni delle trasformazioni del soggetto, che scorgiamo il significato dell’educazione come progettualità complessiva.
    È di un certo interesse per il nostro discorso provare a indicare in che termini, oggi, va modificandosi quella relazione, a partire dalla necessità di riconsiderare la categoria della temporalità attraverso i cambiamenti di quest’epoca, se è vero, come sostiene Marc Augé, che oggi viviamo nel tempo della surmodernità.[1] Si tratta di una nozione di tempo in cui appare enormemente dilatata la percezione del presente, in virtù di una sovrabbondanza di informazioni e stimoli che annullano e depotenziano gli elementi che hanno preceduto o che seguiranno l’esperienza individuale.
    Ne risulta un vissuto di «presente perpetuo»,[2] come se «l’adesso» e «l’oggi» divenissero gli operatori temporali assoluti rispetto ai quali dare significato alle nostre azioni e alle nostre decisioni. Un’enfatizzazione del tempo presente che non corrisponde alla valorizzazione del «quotidiano», da intendersi anche come attenzione micrologica agli eventi e alle cose che in termini spaziali e temporali contribuiscono alla costruzione identitaria dei soggetti, quanto semmai tendente ad evidenziare l’eccedenza di «attualità» esemplarmente raffigurata nei messaggi della pubblicità e nei notiziari, sempre più frequenti e ripetuti, che producono un effetto di oblio rispetto alle informazioni e ai contenuti precocemente invecchiati. È l’esperienza di un presente perpetuo, che pur conservando il principio della ripetizione che contrassegna la dimensione del «quotidiano» e il suo significato rassicurante, si definisce come esperienza di consumo che nega qualsiasi valore di storicità e di memoria soggettiva. In questo «presente dell’attualità», per usare le parole di Augè, «in definitiva tutto accade come se lo spazio fosse raggiunto dal tempo, come se non ci fosse altra storia che le notizie del giorno o della vigilia, come se ogni storia individuale attingesse i suoi motivi, le sue parole e le sue immagini dalla riserva inesauribile di una inesauribile storia al presente».[3]
    Sul piano percettivo ciascuno di noi può ritrovare facilmente il significato del concetto formulato da Augè nella propria esperienza quotidiana: si pensi ad esempio al vissuto di lontananza sbiadita suscitato dai manifesti pubblicitari, ormai «invecchiati» di qualche settimana, che incontriamo al ritorno in città dalle vacanze estive, in cui si parla di straordinarie aperture e promozioni che dovrebbero compensare i poveri «sfortunati» che sono rimasti a casa, verso cui facilmente avvertiamo un senso di distanziamento e di scadimento di gran lunga superiore alla distanza temporale che ci separa dal periodo a cui fa riferimento la pubblicità stessa. In questo spazio raggiunto dal tempo, anche i nostri sensi acuiscono la percezione di quel presente perpetuo che segna indelebilmente l’esperienza della surmodernità.
    In una storia che si risolve al presente non vi è neppure spazio per una progettualità che guarda oltre questo presente; la spinta compulsiva alla realizzazione di ciò che seduttivamente ci richiama oggi, qui e ora, a godere dell’ultimo prodotto, dell’occasione del momento, a seguire la tendenza, a possedere gli oggetti che simbolicamente sanciscono lo status sociale, è inscritta nell’ideologia dell’«essere per il presente», che azzera ogni relazione con la memoria e con la progettualità. In questa prospettiva, il corpo stesso, rimosso per la propria qualità di soggetto, si dispone nella sua condizione di oggetto a testimoniare una presenza fisica ed emotiva che si attesta sul principio del consumo forzato: quanto più questo corpo diventa l’orpello delle merci che lo rivestono, lo foggiano, lo abbelliscono, quanto più diviene il punto di applicazione delle pratiche di modellamento fisico e chirurgico, tanto più assurge ad icona di un benessere misurato a colpi di acquisti, desautorandolo del proprio ruolo di mediatore esistenziale in rapporto alla dimensione spazio-temporale. Sotto l’aspetto pedagogico è per l’appunto del rischio di questa perdita che siamo testimoni; rispetto alla quale occorre riaffermare la centralità di un corpo che nella sua materialità di «corpo presenza» costituisce il perno fondamentale del flusso esperienziale che abbiamo definito come movimento dell’esistenza.
    Nel momento in cui l’esperienza coincide quasi unicamente con la dimensione del consumo, in quanto estrema attualizzazione dei vissuti che accompagnano prima il desiderio della merce e poi l’emozione del possesso, il suo terreno si riduce a comprenderne esclusivamente la forma alienata e omologante dettata dalle leggi di mercato. Compito irrinunciabile dell’educazione torna ad essere, dunque, l’allargamento del campo di esperienza in funzione della sua elaborazione e trasformazione; il corpo allora è investito della funzione-ponte per mezzo della quale i progetti esistenziali messi in relazione con la storia personale di ognuno prendono forma. Educare il corpo rimanda, quindi, al rapporto tra il consumo e la memoria dove il tempo, in qualità di tempo dell’esperienza, si oppone ad un «tempo del consumo» ridotto e dilatato al solo presente; attraverso l’educare il corpo scorgiamo la possibilità di riguadagnare un tempo e uno spazio dell’esperienza, in cui il corpo agisce da marcatore fisico e materiale di una storia individuale il cui processo muove il soggetto dall’elaborazione del passato verso una progettualità in prospettiva futura.
    Il corpo, in tal senso, si fa nel contempo memoria fisica e luogo simbolico della storia biografica del soggetto, dimensione basilare del radicamento esistenziale che fissa la costruzione identitaria di ogni essere umano. Riguadagnare il significato esistenziale dell’esperienza, attraverso la possibilità del vivere, del fare, dell’elaborare e del rammemorare insieme ad altri, oggi sembra costituire il compito prioritario del mandato pedagogico verso gli adolescenti. Uno dei possibili antidoti all’istigazione al consumo come comportamento sociale acquisito è ad esempio rappresentato dalla sobrietà di un’esperienza come la condivisione fisica, materiale e spirituale di spazi e tempi sottratti alla «legge» del presente dell’attualità, in cui poter fare memoria delle esperienze attraversate e in cui abbozzare progetti esistenziali anche per mezzo del sognare ad occhi aperti. Sta in questa tramatura attenta, dal punto di vista educativo, che costantemente riconnette il corpo con le dimensioni spazio-temporali nel movimento storico e progettuale del soggetto lungo il proprio arco esistenziale, l’opportunità di offrire alle nostre nuove generazioni il terreno più favorevole per la costruzione di sé. Un sé maggiormente integrato all’identità corporea, che appare capace di un movimento di radicamento in profondità che si oppone al rischio di superficialità di un’esistenza improntata a quello che Augè ha definito come il «presente perpetuo» dell’epoca della surmodernità.


    NOTE

    [1]Cf M.Augé, Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano 1993.

    [2] Ivi, p. 96.

    [3] Ivi, pp. 95-96.


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