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    Shamyra, Moahamed, Giny e altri


     

    Gioia Quattrini

    (NPG 2006-02-8)


    Nello straordinario mosaico che forma l’immagine dell’uomo, anzi dell’Uomo, con la U maiuscola, l’immagine che Dio culla nelle proprie mani quando il dolore del mondo scuote, quella che Dio cerca con gli occhi quando l’Amore si gonfia, quella che Dio sfiora con il pensiero quando sa che è possibile fare di più e meglio, in quello straordinario mosaico – dicevo – ci siamo tutti.
    Più o meno cinque miliardi di uomini compongono con un loro frammento quell’immagine, siamo noi, tutti insieme, l’Uomo ideale, la creatura che tutti dovremmo ripetere, ognuno a suo modo.
    Ogni uomo dovrebbe subito riconoscerla, trovarne le tracce, intuirne il disegno negli occhi degli altri uomini, sotto i turbanti, dietro i burqa, nelle moschee o lungo le acque del Gange, nelle terre arse dell’Africa e in quelle dei mandorli e dei fiori di ciliegio, nelle terre che il ghiaccio soffoca e in quelle che la guerra dilania. Ogni uomo dovrebbe riconoscerla e riconoscersi, allargare le braccia e accogliere quel frammento di visione d’eterno. Predisporsi a capire e valutare le differenze, cercare di sintonizzarsi su una lingua tanto diversa dalla propria, fare spazio nella propria mente per una logica che neanche ci sembra tale e dare respiro a pensieri così lontani da mancare il fiato per rincorrerli. È un’impresa difficile, lo è davvero, un po’ di paura, un po’ di sano egoismo, qualche resistenza a tutela della propria identità. Abbiamo paura di perderla questa identità, invece perdiamo occasioni per arricchirla, per farla bella, per renderla simile all’immagine originaria.

    Shamyra viene dall’Afganisthan. Ha nei capelli i colori del suo paese e nei suoi occhi i riflessi di quella luce, opaca ma sottile, che laggiù solleva sabbia, sabbia e ancora sabbia.
    Porta il velo, con strafottenza e durezza, quasi a sbatterlo in faccia a quanti la guardano e scuotono la testa. Fanatica pensano. Integralista. Qualcuno perfino: selvaggia. Incivile. Cammina impettita per i corridoi dell’università. Rigida con lo sguardo dritto a ferire, a farsi spazio per forza dove le sembra che vorrebbero chiuderla all’angolo. All’improvviso sorride, si intenerisce e l’andatura diventa più dolce: sta arrivando Monica, bionda capelli al vento, braccia e gambe scoperte, andatura sinuosa, trucco leggero ma sapiente. Guarda quanti la incrociano per sedurre, con ingenuità e loro sorridono, girando la testa per seguirla con lo sguardo. Carina pensano. Emancipata. Qualcuno perfino: facile. Sicuro che ci sta.
    Si corricchiano un po’ incontro, Shamyra e Monica e quando si raggiungono si abbracciano con le braccia e con il sorriso. Si abbracciano strette e senza lasciarsi, subito immerse in una conversazione fitta fitta, si avviano verso l’Aula Magna dove le aspetta la lezione di Diritto internazionale. All’uscita ci sono io e mi diverto, tutte e tre intorno al tavolo della mensa, a sentirle parlare più che a domandare. Difficilmente riesco ad arginare il flusso ininterrotto delle loro parole e a porre la domanda successiva poi mi rilasso e mi lascio andare a seguire la loro conversazione. Fanno tutto da sole: domande e risposte. E penso che avvenga spesso.
    Shamyra. Porto il mio velo, semplicemente, e basta. Sono gli sguardi degli altri, curiosi o beffardi, pieni di disapprovazione o di fastidio, che fanno sembrare che porti un anello al naso invece che un semplice velo. Porto un velo perché la mia religione mi invita a questo e io la osservo come fa ognuno che crede in una dottrina. Non capisco come in un mondo senza più confini, nell’era del villaggio globale, un velo faccia tanto chiasso.
    Monica. Dai, Shamyra, sai che non è così facile. Quel velo è vissuto da tanti come un’imposizione. Nascondere i capelli perché oggetto del desiderio e quindi in qualche modo mortificare le donne come se fossero ancora inviate del demonio per tentare e perdere i poveri uomini sempre sottoposti a dure prove con queste alleate del nemico sempre al fianco. Non è il velo quindi ma quello che significa, la cultura di disprezzo che si nasconde dietro l’apparenza.
    Shamyra. Già! Invece la cultura occidentale che anche per fare pubblicità al mangime per canarini usa come testimonial modelle nude, non ha proprio l’aria di essere così piena di rispetto per il sesso femminile. Quella occidentale non mi sembra proprio un cultura che possa dare lezione a qualcuno.
    Monica. Allora spostiamo il problema sul concetto di libertà. Shamyra in Italia può portare il velo. Monica in Afganisthan deve portare il velo e non posso quindi comportarmi come la mia cultura mi chiede ma sono obbligata ad assecondare quella del paese che mi ospita. Ecco perché la gente poi comincia a pensare in termini di fanatismo e integralismo. Come è possibile non comprendere una esigenza che invece quando vi trovate in paesi stranieri rivendicate per voi stessi, dico giustamente?
    Shamyra. In ogni paese c’è gente progressista e gente conservatrice: solo che fa molta più notizia la seconda che la prima. È per questo che a volte capita che io stessa finisca per difendere con foga anche quello che non dovrei. Sentendosi sempre sotto accusa, ci si arrocca su posizioni che siano di difesa.
    Monica. Questo lo capisco, Shamyra. Il discorso, però, non è tra progressisti e laici ma del pericolo che può causare la religione al potere. Shamyra sarai d’accordo con me che una delle più grandi conquiste del mondo civile è comprendere che religione e istituzioni sono cose diverse e importanti e che uno Stato deve dirsi, per sua stessa sicurezza e tutela, laico.
    Shamyra. Ma davvero tu pensi che in stati poveri come il nostro, dove non c’è denaro neanche per mangiare, un regime qualunque possa tenersi in piedi da solo?
    Le lascio alla loro conversazione, a quel confronto onesto e continuo che smaschera pregiudizi e paure e che garantendo entrambe le identità fa in modo che accogliersi e cercare di comprendersi apra le porte alla civiltà di domani, la civiltà di tutti, di tutti noi.

    Giulio e Moahamed arrivano con le chitarre a tracolla e il passo dondolante che hanno spesso gli uomini in gioventù. Uno troppo occidentale per quelle treccine rasta che sono una bellezza e l’altro troppo arabo per quello spartito di Zucchero sotto il braccio e forse anche per le treccine. Il gruppo che li attende porta altri strumenti musicali e spartiti di cantautori italiani, i più famosi. A cercar bene di sorprese ce ne sono: la cantante ha occhi a mandorla e struttura minuta, piccolo naso e sempre quel sorriso, viene da un piccolo paese della Cina ma già parla come le sue amiche nate e cresciute nel quartiere.
    Moahamed. Sembra davvero lontano il giorno che sono arrivato in questa città, io così diverso dalla gente che camminava per strada e che spesso si scansava quando passavo. Mi sembrava di dare fastidio a tutti anche solo facendo un gesto. Sempre fuori luogo. La lingua si impara ma si resta influenzati da quel po’ d’inglese che si conosce e così si finisce per dare del tu a tutti senza comprendere che in Italia ci si rivolge spesso usando il Lei. L’impiegato o la persona con la quale si sta parlando finisce spesso per indispettirsi come se tu volessi mancargli di rispetto ma non è così. Vorrei vedere loro ad imparare il dialetto del mio paese. Ci sarebbe da ridere. Poi ho incontrato i ragazzi ed è stato un mutuo scambio di informazioni. Anche la musica, suoniamo Baglioni e poi cerco di introdurli alle melodie del mio paese e facciamo certi cori che mi riempiono di nostalgia.
    Giovanni. Il difficile veramente si presenta dopo ogni attentato. Allora salire in un vagone della metropolitana con uno zainetto sulle spalle diventa per Moahamed un po’ complesso. Così cerchiamo di accompagnarlo come se fossimo la sua garanzia. Forse anche questo non è troppo giusto ma lo spavento davvero genera mostri anche dove non ci sono. La gente fa strane equazioni: arabi uguali terroristi. E così via.
    Cristina. All’inizio anche nelle nostre famiglie c’era un certo imbarazzo perfino ad invitarlo a cena perché avevano paura di sbagliare pietanze e di ferirlo. A volte ci si tiene lontani dal diverso solo per paura di non essere all’altezza non perché si abbia qualcosa contro di lui specificatamente. Adesso invece ce la ridiamo e mia madre mette spesso a disposizione la nostra cucina per fargli preparare i manicaretti che Moahamed ha imparato dalla sua mamma. E lo stesso vale per Giny.
    Giny. Già anche io mi diverto a cucinare vero cibo cinese pure se l’aspetto è davvero meno familiare di quello che trovate nei ristoranti. Il gusto però, quello è ottimo nonostante Cristina dica che sono bravissima a mimetizzare le formiche fritte e i millepiedi alla salsa di limone. Oggi per noi sembra essere diventato più difficile di ieri. Dicono che abbiamo invaso certi quartieri della città e che abbiamo esportato qui la nostra mafia. Dicono che seguiamo strane religioni e che non si vede mai un nostro funerale e chissà che cosa servono i nostri ristoranti. Pensano di noi che siamo i nuovi barbari. Qualcuno dice persino la peste gialla. Siamo un miliardo e chissà che potremmo fare al mondo.
    Marco. Per ora canta le canzoni di Gabriella Ferri o Paolo Conte meglio di noi. In più alla mafia italiana non credo servano lezioni da nessuno. E poi queste accuse somigliano davvero tanto a quelle che facevano agli italiani, nel secolo scorso, in America, in Germania, in Francia dove ci chiamavano «macheronì», dicevano che rubavamo il lavoro e che eravamo tutti delinquenti nati. Mi sorprende che un popolo come quello italiano, un popolo che ha conosciuto le difficoltà e le sofferenze dell’emigrazione, possa commettere lo stesso tipo d’errori che furono commessi contro di lui.
    Giorgia. E non è finita qui. Nel nostro gruppo oltre ad avere una cellula di terrorismo e un bacillo di peste gialla, abbiamo anche Elena, rumena di Romania, bella come il sole e per questo, di certo, regina del porno….
    Elena. È così. Ognuno di noi, di noi extracomunitari, che veniamo da paesi più o meno lontani, per cercare il futuro, ha un’etichetta, imposta dal dire comune. Noi Rumene siamo le regine della prostituzione. Io studio, frequento il corso per infermiera, lungo e serio, difficile perché apre le porte ad un lavoro delicato. Per mantenermi gli studi lavoro come babysitter e cameriera, poi mi ritrovo qui con i miei amici e qui mi sento normale, una ragazza che cerca di costruire qualcosa. Una ragazza e basta. Eppure per molti, soprattutto nel locale dove faccio la cameriera, dietro questa finta occupazione, in realtà vendo me stessa e così molti mi disprezzano ma tutti ci provano.

    Il gruppo ride mentre si allontana portando con sé la propria straordinaria verità. Sono loro la cosa più vicina all’immagine che ricordavo all’inizio, quella dell’Uomo con la U maiuscola, l’immagine dove tutti, Giny, Moahamed, Shamyra e Elena insieme a Marco e Giovanni e Cristina e Giorgia, trovano il loro posto, un posto dove mai nessuno potrà sostituirli. L’immagine bella che nasce direttamente nel cuore di Dio, comunque lo chiami ciascuno di loro.
    Questa umanità meravigliosa che porta il sorriso e i colori di tutti noi può nascere soltanto dalla convivenza d’amore, dall’accogliere l’altro nel proprio spazio, nello spazio del proprio cuore, con pensiero pulito, pronti ad assaggiare millepiedi alla salsa di limone – come diceva scherzando Giny.
    Chi guarda Elena e non vede altro che la prostituta, rinuncia a rintracciare quel frammento di infinito che lega Elena al suo stesso osservatore e rinuncia a compiere quell’unico miracolo che possa trasformarli entrambi in un progetto meraviglioso. Un progetto che parla ogni lingua, che ha gli occhi di mille colori e i sorrisi dalle mille sonorità.
    L’amore spunta ogni lama e disinnesca ogni arma, fa tacere le bombe e spoglia della propria forza ogni ideologia assoluta, di quelle che cercano di cancellare l’immagine umana dalla mente di quanti cadono nelle loro spire.
    Solo l’amore.


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