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    Una provocazione di Ilvo Diamanti

    (NPG 2006-02-5)


    È cresciuta l’immigrazione, negli ultimi dieci anni. Quasi all’improvviso. E abbiamo faticato, noi italiani, ad accettarla. Preferendo, come ci capita spesso, la via dell’adattamento informale. Così l’abbiamo affrontata per sanatoria «mentale», oltre che «legale». Anche da ciò nascono le nostre reazioni.
    La nostra xenofobia (letteralmente: paura dello straniero. Che noi concepiamo, impropriamente, in modo intransitivo; come se solo noi avessimo paura di loro, e non viceversa). Dal fatto che abbiamo «subìto» i processi migratori, facendo – a lungo – finta di niente. Fino a che sono divenuti tanto estesi quanto innegabili. E allora abbiamo reagito in modo diverso e opposto: in modo caritatevole, utilitarista, oppure rigido e chiuso. Abbiamo riconosciuto nello straniero, volta a volta, il povero da aiutare, l’altro da cui difendersi, oppure la risorsa (il lavoro, le braccia) da utilizzare. Atteggiamenti che riflettono la nostra difficoltà di proporre un’identità, un modello di valori e di regole, capaci di comunicare agli stranieri «chi siamo». In grado di «integrare», in base a una prospettiva di integrazione.
    Allo stesso modo, rischiamo di farci spiazzare dall’evolvere del fenomeno. È sempre più difficile trattare gli immigrati come un’entità distinta ed esterna. Stranieri. Non solo perché ormai costituiscono oltre il 2% della popolazione e in alcune aree del Centro-Nord superano il 4%. Ma perché hanno caratteristiche e biografie diverse, che si intrecciano sempre più con le nostre.
    È difficile considerare «altri da noi» coloro che vivono accanto a noi e insieme a noi. Da dieci e più anni. Quando spesso si sono radicati, sono stati raggiunti dalla loro famiglia.
    Talora si sono sposati da noi, magari con italiani. E hanno figli, cresciuti in Italia; in casi sempre più numerosi, nati in Italia. I figli degli immigrati: le «seconde generazioni», analizzate da un recente volume curato da Maurizio Ambrosini e Stefano Molina per la Fondazione Agnelli, comprendono un numero ampio e crescente di giovani e di giovanissimi.
    Sono circa 400mila, oggi. Diverranno un milione, fra poco più di dieci anni. E, d’altra parte, il tasso di nascite, tra gli immigrati, è del 2%. Il doppio rispetto a quel che si rileva fra gli italiani. E sono il 3% i figli di «stranieri» iscritti nelle nostre scuole. I figli di «stranieri». Oppure gli «immigrati di seconda generazione». Le nostre ambigue definizioni segnalano il disagio e la difficoltà di percepirli, di «spiegarli». Perché sono nati in Italia, o comunque ci sono arrivati giovanissimi; hanno svolto il loro percorso di formazione e di socializzazione in Italia. Hanno studiato e spesso studiano ancora in Italia.
    Lavorano in Italia. Chi sono? Il fatto è che spesso non hanno la nostra cittadinanza, perché l’Italia presenta una legge fra le più rigide e restrittive, in materia di nazionalità. Talora non hanno neppure quella dei genitori. Quasi degli apolidi.
    Nazli, 17 anni, intervistato nell’ambito di una ricerca de la Polis dell’Università di Urbino (curata da Terenzio Fava), al proposito, si interroga in modo esplicito: «Io non ho la cittadinanza iraniana, e neppure quella italiana. Quindi, cosa sono?».
    Eppure, se li incontri, scopri che, in gran parte, hanno cerchie di amici italiani. Pensano a un futuro italiano (anche se non sempre e non solo). Si sentono «italiani». Almeno al 60%. A volte di più (come «quantificano», esplicitamente, molti intervistati nella ricerca la Polis). In questa «quota», essi comprendono i sentimenti, la sensibilità alle mode, al gusto (la cucina, la musica, l’abbigliamento), che hanno appreso a contatto con il nostro sistema educativo, con le cerchie degli amici, con il mondo della vita quotidiana. Ciò che rimane (il 30%-40%) riassume le tradizioni, i valori, i riferimenti religiosi trasmessi dai genitori, che richiamano altre culture, altre storie, altre provenienze.
    Questo mix ne fa degli italiani speciali. Non degli italiani a metà, o al 60%. Ma al 130%. Degli «extraitaliani». Extra: perché la loro personalità attinge da competenze ed esperienze attinte «oltre» confine. Extra: perché cumulano più elementi culturali, più conoscenze sociali e comunicative (parlano, quasi sempre, più lingue). Extra: perché proiettano la loro visione oltre i limiti del nostro mondo.
    Extraitaliani: italiani oltre e di più. Va detto, per non rischiare lo stereotipo dell’antistereotipo, che la condizione degli extraitaliani non è particolarmente facile. Perché il peso della posizione sociale, in Italia, è gravoso.
    I loro genitori sono stati accolti in Italia per svolgere attività faticose e poco qualificate, e dunque poco remunerative. Rifiutate dagli indigeni (per riferirci agli italiani «da molte generazioni»…).
    E poi, perché la xenofobia aleggia. Anche se in genere non se ne lamentano troppo. La mettono in conto. Per cui gli extraitaliani hanno più difficoltà, rispetto ai loro coetanei «indigeni», a instaurare relazioni. E, ancor più, a entrare sul mercato del lavoro; e, soprattutto, a fare carriera. Tuttavia, rispetto agli indigeni, hanno più motivazioni. E più «fame». Non tanto quella reale (la cui memoria genetica, peraltro, incombe su di loro). Ma quella di riuscire. Per se stessi e per il loro ambiente familiare. Perché su di loro investono i genitori, i fratelli.
    Come nel caso di Assou Elbarij, raccontato da Paolo Rumiz. Marocchino, poliomielitico, maggiore di sei fratelli, raggiunge il padre a Trento, insieme alla famiglia, a 16 anni. E studia, studia, con risultati eccellenti. Fino a conseguire una laurea d’eccellenza in economia.
    Assou: insieme a lui è la famiglia a laurearsi, con lode. I suoi fratelli, in particolare, che lavorano il doppio per aiutarlo negli studi. Fanno più fatica ad affrontare il lavoro, gli extraitaliani.
    A maggior ragione le donne, che scontano molteplici condizionamenti incrociati (in quanto donna, in quanto apparentemente straniera; e quindi in quanto donna straniera…).
    E quando emergono, per questo, dimostrano qualità «extra». Perché ci vuole tanta volontà, tanta caparbietà, tante capacità per farsi largo, quando sei donna e provieni da una famiglia straniera, hai un aspetto da straniera.
    Come Kindi Taila che è congolese, nerissima. Ma «parla con accento più modenese di Enzo Ferrari». Resta orfana giovanissima. Si mantiene grazie all’aiuto dell’associazionismo cattolico (lei è cattolica osservante) e alla sua disponibilità al sacrificio. Fa la cameriera, la baby-sitter, e intanto studia. Fino a laurearsi in medicina. Oggi si sta specializzando in ginecologia e lavora in reparto, all’ospedale. Senza rinunciare all’impegno per l’integrazione degli immigrati.
    Le storie raccolte e proposte da Paolo Rumiz in queste pagine sono «eccezionali»; e per questo non sono esemplari. Narrano biografie di successo, che non riflettono la condizione «media» degli extraitaliani. Le cui storie appaiono assai più affaticate e anonime. Ma, per questo, sono utili, significative. Perché sono «reali» e dimostrano che è «realistico» immaginare biografie analoghe, fra gli extraitaliani. Che è possibile pensare, per loro, un futuro di integrazione, fra di noi.
    Servono, peraltro, a spiegarci quanto stiamo cambiando, quanto siamo cambiati anche noi, senza accorgercene. Facendo finta di niente. Anzi, considerando gli immigrati, come fa la nostra legislazione, stranieri di passaggio, che sarebbe meglio fermare alle frontiere, ma vanno accolti per necessità e per utilità. Impedendo loro di coltivare pericolose illusioni, circa il futuro. Immaginiamo che sia possibile erigere un muro – invisibile – fra noi e gli stranieri. Fra noi e gli immigrati.
    Li preferiamo clandestini o provvisori. Destinati a ripartire. Oppure a sparire davanti ai nostri occhi. Gli extraitaliani servono a curare questa malattia sociale, che inquina la nostra mente e offusca la nostra vista.
    Perché non solamente sono tra noi, ma sono dei nostri. Anche se hanno nomi «diversi» («mi chiamo Dzeladini, ma tutti mi chiamano Gianni»), un aspetto «diverso».
    Italiani-extra. Possono aggiungere un po’ di colore. Giovinezza e caparbietà. Voglia di arrivare.
    Capacità di comunicare con il mondo. A noi italiani-indigeni. Demograficamente in declino. Grigi. Invecchiati, e per questo più impauriti. Culturalmente pingui. Lenti. E pigri. In tempi di apertura globale e di flessibilità. Ci conviene, farci raffigurare insieme a loro.
    Il ritratto degli italiani che ne esce è sicuramente migliore. Esteticamente. Ma non solo.

    (Repubblica, 20 marzo 2005)


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