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    Pastorale giovanile e catechesi


     

    Intervista a Emilio Alberich

    a cura di Giancarlo De Nicolò

    (NPG 2006-03-4)


    Due ambiti della teologia pratica o pastorale

    Domanda. Anche senza rifarci alla statuto epistemologico delle due discipline (discorsi preziosi per gli esperti, un po’ meno «intriganti» per gli operatori), come si autocomprendono catechesi e pastorale all’interno della missione evangelizzatrice della chiesa? E come sono sentite, vissute, praticate all’interno delle comunità ecclesiali?
    È possibile tracciare un veloce cammino storico per comprendere l’attuale situazione?
    Esiste un motivo per cui le due discipline per tempo si sono guardate in cagnesco, o per cui – anche a livello strutturale di «uffici diocesani» – si ignorano?

    Risposta. Anche senza scomodare l’epistemologia, penso che per avviare un discorso chiarificatore sia necessario anzitutto far riferimento alla disciplina che domina e congloba tutte e due le realtà in gioco, vale a dire, la teologia pastorale o «pratica». Difatti, sia la pastorale giovanile che la catechetica vi appartengono come parti essenziali. Ambedue rappresentano settori o parti di questa disciplina che regola e riflette sull’azione della Chiesa.
    Per ciò che riguarda la catechetica, la sua nascita come disciplina accademica si fa risalire generalmente all’anno 1774 allorché, in occasione della riforma dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, è stata introdotta nelle scuole di teologia dell’impero austro-ungarico. Da allora ha percorso un lento cammino di strutturazione, anche se solo nel secolo scorso si può dire che abbia assunto l’aspetto di una vera e propria disciplina. Essa infatti comincerà a svilupparsi con una certa ampiezza e autonomia verso la fine del secolo XIX, con la nascita e consolidamento del cosiddetto «movimento catechistico», vale a dire di quel vasto movimento di idee, ricerche e innovazioni che ha voluto rinnovare la teoria e la prassi della catechesi sotto l’influsso di nuove correnti culturali, specialmente di ordine pedagogico e psicologico.
    Per conto suo, la pastorale giovanile, intesa come riflessione sistematica sull’azione pastorale con i giovani e per i giovani, ha una storia molto più recente, e più che costituire una disciplina a sé stante è da considerare come parte integrante e rilevante della teologia pratica (come avviene, per esempio, con altri settori operativi quali la pastorale familiare, la pastorale sociale, la pastorale dei migranti, ecc.). Certamente nel periodo postconciliare ha assunto una rilevanza del tutto nuova nella storia della Chiesa.
    In realtà, anche a prescindere dalla diversità di vicende storiche, siamo certamente di fronte a due settori di riflessione e di prassi appartenenti all’ambito e all’oggetto della teologia pastorale o pratica. La catechetica come studio e riflessione su una attività, la catechesi, di lunga tradizione ed essenzialità nella missione della Chiesa. La pastorale giovanile, da parte sua, come studio e riflessione sistematica su questo non meno importante settore dell’azione della Chiesa, vale a dire, sull’azione della comunità ecclesiale per i giovani e con i giovani.
    Le ragioni di una certa ignoranza reciproca («si guardano in cagnesco») non sono probabilmente univoche, ma piuttosto svariate e complesse. Con tutta probabilità vi gioca anzitutto il fatto che, nonostante le dichiarazioni del magistero e tutto il rinnovamento catechetico postconciliare, si continua ad avere della catechesi un’idea infantilizzante e «scolastica», come istruzione religiosa dottrinale rivolta quasi soltanto ai fanciulli. È una concezione ancora dominante, presente anche in tanti catechisti/e e in tanti operatori della pastorale giovanile, che porta inevitabilmente a una separazione e ignoranza reciproca: moltissimi catechisti non si sentono per niente coinvolti né interessati alla pastorale giovanile, mentre molti animatori di giovani non si sognano di includere tra le loro preoccupazioni l’esercizio di un’attività settoriale ben nota che si fa in parrocchia, ad opera di persone specificamente a ciò deputate (i catechisti) e indirizzata per lo più a bambini e fanciulli che si preparano alla prima comunione o alla cresima.
    Si aggiunga anche un’altra ragione: come capita in tante attività di ordine pastorale, c’è da lamentare in proposito una tradizionale mancanza di progettazione e di coordinamento operativo. Nella maggior parte dei casi, la pastorale va avanti senza una pianificazione seria e meditata, sospinta dall’inerzia e dalle circostanze puntuali, senza coordinamento né serio sforzo metodologico di organizzazione. Di qui il fatto «normale» di settori di attività pastorale che camminano per conto proprio, per vie parallele: ufficio liturgico, ufficio catechistico, pastorale familiare, pastorale giovanile (se veramente esiste come tale!), ecc.
    Più in profondità possiamo dire che alla radice c’è la poca stima e riconoscimento di cui gode (o meglio, non gode) la teologia pratica come scienza e come competenza. Essa occupa un luogo del tutto marginale e di poca importanza nell’insieme della formazione, sia dei seminaristi che dei preti e degli operatori pastorali.

    Le somiglianze, le differenze

    D. Tra pastorale giovanile e catechesi, è possibile esplicitare le loro similarità, le loro differenze?

    R. Nel contesto teologico-pastorale che fa loro da cornice è possibile vedere la loro collocazione e le loro differenze nell’insieme della missione evangelizzatrice della Chiesa.
    Se facciamo riferimento al quadro generale dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, io sono solito distinguervi quattro momenti o funzioni essenziali, quattro «segni evangelizzatori» o forme concrete di compiere nel mondo la missione evangelizzatrice di annuncio e testimonianza del Vangelo del Regno: il segno dell’annuncio-testimonianza (segno profetico della «martyria» o ministero della parola: primo annuncio, predicazione, catechesi, omiletica, ecc.); il momento celebrativo-rituale (segno della «liturgia») in tutte le sue svariate forme: eucaristia, sacramenti, anno liturgico, feste, riti, devozioni, ecc.; la testimonianza dell’amore-servizio (segno della «diaconia»), che comprende la vasta gamma di esercizio della carità ecclesiale (amore, servizio, promozione, educazione, aiuto, opere di misericordia, impegno sociale e politico, ecc.); e finalmente la vita di comunione-fraternità (segno della «koinonia»), dove troviamo le molteplici manifestazioni della fraternità vissuta: riconciliazione, amore fraterno, comunicazione, vita comunitaria, convivialità, dialogo, impegno ecumenico, ecc.
    Orbene, sullo sfondo di questo quadro possiamo vedere chiaramente la diversa collocazione della catechesi e della pastorale giovanile, sia come prassi che come riflessione sistematica su di essa: la catechesi, come annuncio della parola per l’educazione della fede, si trova all’interno della funzione profetica dell’annuncio-testimonianza o «martyria» (è una delle forme classiche del ministero della parola), mentre la pastorale giovanile interessa tutte e quattro le funzioni ecclesiali, in quanto riferite ai giovani come destinatari o come soggetti. E qui appaiono già alcune chiare differenze: la catechesi da una parte si presenta più ristretta della pastorale giovanile, in quanto «rinchiusa» nel segno della martyria: ma anche più estesa, perché non riguarda soltanto il mondo giovanile, ma anche quello dei fanciulli e, soprattutto oggi, il vasto mondo degli adulti e della comunità cristiana nella sua globalità. La pastorale giovanile da parte sua appare in principio più «ristretta» della catechesi, perché rivolta soltanto alla fascia dei giovani, ma anche più larga, dal momento che interessa e coinvolge tutte le espressioni dell’azione ecclesiale.
    Un altro criterio di distinzione è dato dalla struttura dinamica delle tradizionali tappe del processo dell’evangelizzazione (cf DGC 49), che tradizionalmente dovrebbe includere i seguenti momenti: l’azione missionaria, come annuncio del Vangelo in vista della conversione (presenza, servizio, dialogo, testimonianza, primo annuncio); l’azione catecumenale, per quanti si interessano alla fede e vogliono diventare o ri-diventare cristiani (accoglienza, accompagnamento, catechesi d’iniziazione, riti e sacramenti iniziatici, mistagogia); l’azione «pastorale» all’interno della comunità cristiana, con le ben note attività tradizionali del culto, celebrazioni, sacramenti, predicazione, catechesi, vita comunitaria, impegno caritativo e promozionale, ecc.; e la presenza e azione dei cristiani nel mondo, come testimonianza cristiana nella società: promozione umana, azione sociale e politica, azione educativa e culturale, promozione della pace e della giustizia, impegno ecologico, ecc.
    Anche in riferimento a questo processo organico possiamo segnalare affinità e differenze tra catechesi e pastorale giovanile. La catechesi trova la sua collocazione propria nei due momenti dell’azione catecumenale (come catechesi di iniziazione) e nell’azione «pastorale» ad intra (come catechesi nel senso tradizionale, per i già battezzati, e come educazione permanente della fede, soprattutto con i giovani e gli adulti). E in questo senso è allo stesso tempo più limitata ma anche più estesa della pastorale giovanile, perché non ristretta alla fascia giovanile. Quest’ultima, per conto suo, appare anche qui più limitata, in quanto rivolta soltanto ai giovani, ma allo stesso tempo più vasta, perché presente in tutte le tappe del processo.
    Possiamo dunque dire che catechesi e pastorale giovanile si trovano ben identificate nel contesto della missione evangelizzatrice della Chiesa e che hanno molteplici punti di convergenza ma anche significative differenze, ognuna nel suo rispettivo ambito di azione.

    Necessità della loro integrazione

    D. Catechesi e pastorale giovanile si integrano, si contaminano reciprocamente nella vita concreta delle comunità e nei confronti dei ragazzi e dei giovani, o è meglio che conservino loro specificità e ambiti? Dopo lunghi anni di studio e di insegnamento quale è la sua visione e proposta?

    R. Penso sia bene che, nel quadro del compito pastorale e evangelizzatore della Chiesa, ogni funzione e settore conservi la sua identità, senza confusioni né sfasamenti. Questo garantisce completezza e rispetto delle specificità operative. Però va anche osservato che, oggi, molti momenti dell’agire pastorale, che per molto tempo si erano separati e avevano camminato per vie parallele, impoverendosi a vicenda, stanno riscoprendo il reciproco collegamento e il loro comune inserimento nell’alveo dell’agire ecclesiale più globale. Qualcosa di questo genere sta avvenendo, per esempio, nel rapporto tra liturgia e catechesi, o tra azione sociale e catechesi, o nel rapporto tra pastorale giovanile e pastorale globale. Si pensi, per esempio, alla necessità, oggi tanto sentita, di superare ogni forma di «giovanilismo» per inserire tutta la pastorale giovanile nel contesto del mondo degli adulti e con la vita della comunità cristiana.
    Nel nostro tempo si sente fortemente il bisogno di superare gli isolamenti pastorali. Per ciò che concerne la catechesi, per esempio, non è più concepibile il suo esercizio senza collegamento vitale con le altre funzioni ecclesiali: la celebrazione, la vita comunitaria, la testimonianza della carità, ecc. Si arriva addirittura a dire che la catechesi del futuro non potrà essere soltanto catechesi; che la catechesi infantile non potrà chiudersi nel mondo dell’infanzia; che un’azione catechetica non ancorata a tutto un valido progetto pastorale è condannata al fallimento. Si tratta insomma di una visione più organica e globale, che appare anche confermata dall’esperienza: si può dire che le forme più riuscite di catechesi, oggi, non si presentano come attività soltanto catechistiche, ma sono vitalmente inserite in una più vasta esperienza globale di vita cristiana ed ecclesiale.
    Penso che conclusioni simili debbano essere pure applicate alle diverse manifestazioni della pastorale giovanile. Non credo che abbia molto futuro un’azione pastorale che separa i giovani dal collegamento organico con la più vasta comunità cristiana e va avanti in forma quasi autonoma e parallela nei confronti dell’azione pastorale globale.

    Linee per un itinerario di vita cristiana per i giovani

    D. Come può essere impostato un itinerario di educazione alla fede (alla vita cristiana) per giovani, dove i contributi di conoscenza, vita, preghiera possano accogliere, interpretare, rilanciare la loro vita verso la qualità e la pienezza?

    R. Non credo si possa fissare «un itinerario» di educazione alla fede per giovani, perché di itinerari ce ne possono essere e ci sono effettivamente tantissimi. Un punto fermo nella riflessione catechetica odierna è la legittimità di metodologie molto diverse nell’esercizio dell’educazione della fede. E d’altra parte, sappiamo che sono tante e tanto diverse le esigenze e le situazioni dei giovani, che riesce impossibile voler determinare a priori una strategia da seguire. Se mai, si possono suggerire alcune indicazioni, alcune tendenze attualmente più emergenti, delle istanze che si fanno sentire oggi come particolarmente urgenti nell’ambito pastorale e catechetico. È in questo senso che si possono ricavare degli spunti, attingendo a due principali fonti ispiratrici: la riflessione catechetica generale e, più specificatamente, la situazione giovanile in particolare.

    In riferimento alla prima fonte, la riflessione ed esperienza catechetica di oggi, insieme all’intuizione dei più lucidi osservatori del problema, permettono di formulare alcune esigenze fondamentali della comunicazione catechetica nel mondo d’oggi:
    * La necessità di promuovere in tutti, anche nei giovani, una fede personalizzata e libera. Non possiamo fare affidamento su una fede e appartenenza ecclesiale derivate dalla tradizione, dalla famiglia o dall’identità etnica. Non possiamo accontentarci di avere giovani come quello che, nella ricerca sulla esperienza religiosa dei giovani di qualche anno fa, diceva: «io sono cattolico perché sono nato in Italia». Ecco, sarà decisivo che l’assunzione e la crescita nella fede siano legate a una scelta personale e maturata nella libertà. Questo suppone una prospettiva catechetica chiaramente evangelizzatrice, al servizio di una scelta libera, e maturante, in funzione di una fede adulta.
    * La riscoperta dell’iniziazione come processo normale e necessario di accesso alla fede. Come ribadisce con forza il nuovo Direttorio catechetico (DGC 63-67), la catechesi oggi deve essere soprattutto catechesi di iniziazione, inserita quindi in un processo di conversione e di approfondimento dell’opzione di fede. Di qui l’urgenza del primo annuncio e l’importanza almeno di una doppia scelta preferenziale: per il catecumenato, in tutte le sue forme, e per la comunità adulta, che dovrà avere un ruolo di primo ordine anche nel lavoro con i giovani. Sono tutte esigenze che fanno intravedere le profonde trasformazioni a cui è chiamata oggi la catechesi, se vuole rispondere alle sfide di un mondo profondamente cambiato.
    * La cura della significatività del messaggio che vogliamo trasmettere. Più che la verità è importante la significatività: più che l’integrità e l’esattezza delle conoscenze religiose, sarà essenziale garantire il carattere esistenziale e significativo del messaggio catechetico, che deve apparire ad ognuno come risposta e fonte di senso di fronte alle proprie aspirazioni e interrogativi vitali. A questo riguardo non trovo di meglio che riportare l’espressione del n. 52 del documento di base della catechesi italiana, «Il rinnovamento della catechesi», che contiene tutto un programma per affermare l’importanza della significatività. Là si dice che, nella catechesi, «la parola di Dio deve apparire ad ognuno come un’apertura ai propri problemi, una risposta alle proprie domande, un allargamento ai propri valori ed insieme la soddisfazione apportata alle più profonde aspirazioni».
    In questo contesto riveste un’urgenza del tutto particolare lo sforzo per operare una coraggiosa e vera inculturazione della fede cristiana. Sappiamo bene che la separazione tra fede e cultura è il «dramma della nostra epoca» (EN 20) che investe anche fortemente il mondo delle esperienze religiose giovanili. Si impone perciò il compito non facile di un dialogo coraggioso e intelligente tra fede cristiana ed esigenze della cultura moderna. Anche per la comunicazione della fede ai giovani si sente oggi la necessità di una ricomprensione della fede in termini teologicamente aggiornati, esistenzialmente significativi, accettabili culturalmente, coerenti e stimolanti nella prospettiva etica. Per fare alcuni riferimenti più concreti, penso che tra i nuclei tematici più bisognosi di venire riformulati e riscoperti in una nuova luce ci siano questi: l’immagine di Dio, la figura e significato di Gesù Cristo, il concetto di salvezza, l’immagine della Chiesa, il volto rinnovato dell’etica cristiana. Spesso questi temi e questi termini, come tanti altri appartenenti al patrimonio tradizionale della fede, veicolano contenuti che ai giovani appaiono logori, alienanti, senza significato valido per la vita, del tutto inadeguati per gli uomini e donne del nostro tempo.
    * La cura della comunicazione e del linguaggio. Essendo la catechesi un processo essenzialmente comunicativo, diventa essenziale la preoccupazione per garantire, nel lavoro con i giovani, la qualità comunicativa e per rispettare le regole e l’etica della comunicazione. E al centro di questa problematica rimane sempre il tema del linguaggio e dei linguaggi della catechesi, un problema che tocca il cuore della comunicazione catechistica e che rimane ancora ben lontano dall’essere risolto. Tra l’altro è viva oggi la sensibilità per la promozione di una pluralità di linguaggi nella catechesi, superando la tradizionale unilateralità del linguaggio espositivo e dottrinale e valorizzando il ricorso ai linguaggi non verbali: l’immagine, il suono, il rito, il simbolo, l’espressione corporale, ecc.

    A tutte queste istanze, di per sé comuni a tutte le forme di educazione della fede, possiamo aggiungere alcune che mi sembrano specificamente legate alle esigenze e alla sensibilità della condizione giovanile:
    * Il primato indiscutibile della via esperienziale. La dimensione esperienziale, propria di ogni catechesi, appare essenziale quando si tratta dei ragazzi e dei giovani. E ciò risponde pure a una spiccata caratteristica dei giovani stessi, che considerano credibili le realtà che sono oggetto di esperienza. In termini generali, si può dire che per i giovani di oggi vale ciò che consta per esperienza, ciò che può essere verificato nell’esperienza. Questo comporta certamente anche conseguenze negative, in quanto squalifica in partenza il valore della verità, del ragionamento, il peso della storia, l’argomento di autorità. Ma d’altra parte assicura la credibilità e il valore della fede esperienziale, che nel nostro tempo appare condizione essenziale di un atteggiamento convincente di fede. Oggi non sembra possibile annunciare Cristo come salvatore del mondo se non si vive un’autentica esperienza di salvezza. Non appare credibile un invito alla fede nella Chiesa se non è accompagnato da un’autentica esperienza convincente di Chiesa.
    * Di qui anche l’importanza insostituibile della testimonianza. Lo sappiamo bene: non basta dire o insegnare, non basta ribadire le verità della fede o fornire conoscenze: è molto più importante ciò che viene testimoniato di ciò che viene insegnato. Senza negare l’importanza dell’insegnamento, va sottolineato che nella catechesi si tratta soprattutto di raccontare, di comunicare e far vivere esperienze maturanti di fede. È una catechesi che predilige decisamente il linguaggio narrativo, simbolico e testimoniale, vale a dire, i linguaggi più adatti alla comunicazione e risveglio dell’esperienza religiosa. E questo nel contesto di una pedagogia dove il clima relazionale deve avere il primato sui contenuti stessi che vengono trasmessi.
    * Il gruppo giovanile come spazio educativo. Si sa che i giovani ricordano sempre e rimangono segnati in qualche modo dalle esperienze positive e gratificanti di gruppi vivi, campi-scuola, oratori, associazioni, ecc. Sembra difficile immaginare un’educazione della fede nel mondo d’oggi al di fuori di una forte, positiva e coinvolgente esperienza di gruppo. Solo il gruppo appare in grado di assicurare il coinvolgimento personale razionale-emotivo e i processi di identificazione necessari per l’appropriazione personale di convinzioni, atteggiamenti e comportamenti in senso cristiano.
    * Esperienze forti di condivisione e di solidarietà. Oltre al contributo essenziale del gruppo giovanile, la dinamica pedagogica di un autentico itinerario di educazione alla fede con i giovani richiede anche normalmente la presenza di esperienze forti, coinvolgenti, di condivisione e di solidarietà, possibilmente con la partecipazione di altri giovani. In questi casi il potenziale maturante del gruppo si rinforza grazie alla densità e alla qualità impattante dell’esperienza vissuta insieme. Pensiamo a certe note e forti esperienze, come per esempio: le Giornate Mondiali della Gioventù, i raduni di Taizé, le Pasque giovanili, i pellegrinaggi a Loreto, a Czestochowa, a Santiago de Compostela, ad Assisi, ecc., o anche quelle più consistenti e impegnative del volontariato. Oppure pensiamo a momenti particolari e locali vissuti insieme, come i campi-scuola, le attività oratoriane, il centro giovanile, ecc. Se questi luoghi e attività riescono ad assicurare momenti di intensa condivisione esperienziale, essi possono raggiungere anche la densità e la portata di vere esperienze iniziatiche, capaci di segnare e trasformare, anche in modo duraturo, la vita dei giovani.
    * L’inserimento vitale nella più vasta comunità cristiana. Nelle sue diverse espressioni ecclesiali (parrocchia, associazione, comunità di base, comunità diocesana, ecc.), la comunità è considerata oggi il luogo per eccellenza e necessario della catechesi, là dove diventa possibile un’autentica esperienza di vita cristiana nella fraternità vissuta e nell’approfondimento della fede.
    E in questo contesto penso che sia importante oggi insistere molto sulla necessità di un dialogo serio e di un rapporto educativo efficace tra giovani e adulti, con lo sforzo per superare una situazione allarmante di distanza generazionale, di «silenzio e latitanza educativa» da parte degli adulti, con tante conseguenze deleterie sul versante pedagogico e pastorale. Tra tanti aspetti problematici della situazione non va trascurato il rischio sempre incombente di cadere nel cosiddetto «giovanilismo» e quindi la necessità di stimolare e rendere possibile il dialogo tra giovani e adulti.
    Quando parlo del pericolo del «giovanilismo» intendo riferirmi al rischio che si vive a volte nell’esercizio della pastorale giovanile, quello cioè di diventare praticamente un’attività settoriale che rischia di isolare i giovani dal contesto della vita e dei problemi reali, intrattenendoli in qualche modo con delle esperienze tanto gratificanti quanto problematiche – a volte addirittura alienanti – se viste in rapporto al loro futuro inserimento nella vita professionale e familiare, nella società, nella Chiesa. L’esperienza attesta l’esistenza di tante iniziative interessanti e belle a livello giovanile, che però si dimostrano in fondo carenti in ordine allo sbocco educativo e al futuro dei giovani stessi.
    Sono convinto, oggi più che mai, della necessità del dialogo tra generazioni in chiave di efficacia educativa ed evangelizzatrice, perché i giovani hanno bisogno degli adulti, così come gli adulti hanno bisogno dei giovani. I giovani senza il riferimento al mondo degli adulti rischiano di perdere il senso della realtà e dei problemi veri della vita. Gli adulti, senza un vero dialogo con i giovani, si chiudono inevitabilmente nel proprio recinto generazionale e nella nostalgia di presunti tempi passati migliori, dimostrando di non comprendere né i giovani né il dinamismo trasformatore del mondo attuale.
    E credo che, nonostante le apparenze, sia grande il bisogno che sentono oggi i giovani dell’incontro educativo con gli adulti e il ricordo positivo che hanno di adulti significativi (genitori, sacerdoti, catechisti, insegnanti). L’adulto oggi, è stato detto, non deve più chiedere permesso ai giovani per incontrarli e dialogare con loro. Questo però esige qualità di rapporto e atteggiamenti adeguati da parte degli adulti: non autoritari o impositivi, ma in clima di vero dialogo, come chi si sente in cammino, «disarmato» anche di fronte ai giovani.
    Sono rilievi che sottolineano l’urgenza di ricuperare il coraggio educativo. Sono note le gravi conseguenze di un atteggiamento di rinuncia e di latitanza educativa da parte di tanti adulti. Questa è senza dubbio una della più gravi cause del disorientamento, della mancanza di valori, della crisi di senso di tanti giovani d’oggi. E in questo contesto emerge con chiarezza l’importanza degli ambienti comunitari, il ruolo della famiglia e della scuola, nonché la necessità di un comportamento dialogante e problematizzante nei confronti del vasto e decisivo mondo della società mediatica.

    Gli itinerari nella pratica

    D. Dove vede oggi le carenze e i meriti degli itinerari di educazione alla fede dei giovani praticati nelle varie associazioni e movimenti ecclesiali, ed eventualmente nelle proposte ad hoc delle parrocchie?

    R. Meriti e carenze sono tante. In tante comunità ecclesiali si fanno cose pregevoli con i giovani. Molte parrocchie, sensibili e vivaci, sanno promuovere processi formativi di grande efficacia con i giovani. E anche la panoramica delle varie associazioni e movimenti è veramente ricchissima. Non mancano per fortuna esperienze di indubbio valore, nei movimento, nelle parrocchie, da parte dei religiosi, ecc.
    Molte carenze provengono, a mio giudizio, dall’inadeguatezza dell’approccio che si fa, sia al mondo dei giovani che alla vera identità del compito catechetico, troppo spesso legato al paradigma tradizionale oggi non più valido.
    Ma penso anche che sia doveroso fare un appunto critico a proposito di alcuni movimenti e gruppi che, pur avendo al loro attivo tante benemerenze e aspetti positivi, mostrano altresì non pochi «sintomi patologici», segni di inautenticità e ambiguità. Si lamentano spesso tendenze «settarie», mancanza di vero spirito ecclesiale, forme svariate di chiusura o isolamento autosufficiente, di ricerca unilaterale di gratificazioni emotive, espressioni piene di esaltazione acritica e culto della personalità verso i diversi «leader carismatici», ecc. Sono tutti aspetti che impediscono una vera crescita maturante nella fede e nella vita cristiana; essi possono fornire magari soddisfazioni e rispondere all’ansia di sicurezza, ma a prezzo di infantilizzare e bloccare il cammino di maturazione.
    In situazioni come queste ci si trova di fronte a tanti interrogativi e perplessità, per l’esigenza di autenticità e di sanità dei gruppi giovanili e quindi anche di fronte alla possibilità di contraffazioni e di esperienze anti-educative. Qui si impone vigilanza e discernimento, per assicurare all’esperienza di gruppo le modalità e risorse di una vera educazione promozionale verso la maturità.

    Istanze per un autentico cammino di fede dei giovani

    D. Cosa sottolinea oggi la riflessione teologico-pastorale come essenziale e bisognoso di essere ricuperato per il cammino di fede dei giovani? E quali istanze vengono dal mondo giovanile che appellano alla fede, soprattutto oggi che la pratica e l’appartenenza ecclesiale sembrano dappertutto ampiamente in crisi?
    Oggi si parla tantissimo di «primo annuncio». In genere come istanza per la catechesi e gli itinerari di iniziazione cristiana. C’è un «primo annuncio» da ricuperare anche nella pastorale (giovanile), e la PG può comunque essere anche considerata una specie di «primo annuncio»?
    Si parla anche tanto di nuove vie per l’«iniziazione cristiana»: sono oggi praticabili veri cammini di iniziazione cristiana?

    R. I problemi qui enunciati sono tanti e tanto complessi, e tanti sono anche gli aspetti coinvolti per un tentativo di risposta. Al centro vedo due temi di grande attualità e considerati prioritari in una prospettiva di evangelizzazione. Sono concretamente i due ai quali si accenna nella domanda: l’urgenza del primo annuncio e la revisione coraggiosa del processo di iniziazione cristiana. Il «primo annuncio», perché i processi di socializzazione religiosa si sono inceppati e non è più possibile supporre la fede delle persone nella nostra azione pastorale; la revisione poi dell’«iniziazione cristiana», dal momento che la formula tradizionale non funziona più. Paradossalmente, il processo di iniziazione cristiana è diventato, per la stragrande maggioranza dei ragazzi, processo «di conclusione», che non «inizia» ma appunto «conclude» una serie di pratiche religiose legate alla fanciullezza.
    Alcune delle istanze a cui ho accennato sopra si trovano già nella linea di risposta a questi problemi. Così per esempio: la scelta della via esperienziale, la ricerca di significatività e di nuovi linguaggi della fede, la testimonianza personale e di gruppo, il coinvolgimento comunitario, ecc. Nel lavoro pastorale con i giovani è possibile trovare certamente tante possibilità di primo annuncio e tanti stimoli per un percorso iniziatico efficace. Penso però che sia necessario anche qui, come è stato detto per tutto il lavoro pastorale, una vera «conversione pastorale» degli operatori e delle comunità, affinché tutto venga impostato in chiave di vera evangelizzazione.

    Più concretamente, all’interno di questa prospettiva, vorrei sottolineare due esigenze che mi sembrano particolarmente significative in ordine all’evangelizzazione e all’educazione della fede nel mondo giovanile:
    * La riscoperta dell’esperienza religiosa. In un vero processo iniziatico è essenziale l’impegno per il risveglio e l’apertura all’esperienza religiosa, condizione indispensabile per un discorso significativo di crescita nella fede. In una società che sembra voler impedire qualsiasi sforzo di riflessione e di approfondimento è importante aiutare i ragazzi a riscoprire il senso dello stupore, dell’invocazione, del mistero della vita. Elementi di base su cui puntare sono la ricerca di senso, l’apertura alla trascendenza, la sensibilità verso la serietà e la qualità della vita. Sarà importante in questo senso saper prestare attenzione al «brusio degli angeli» (P. Berger) percepibile nelle pieghe della nostra vita e della nostra società.
    Si intravede qui la difficoltà del compito educativo di fronte alla frequente situazione di tabula rasa religiosa di tanti ragazzi e giovani presenti nei nostri ambienti. Non è facile riuscire a superare e scavalcare alcuni ostacoli tipici della mentalità postmoderna: la frammentazione, il presentismo, la provvisorietà, la superficialità, la cultura del «divertimento». Tante sono le difficoltà che condizionano e impediscono il riconoscimento della trascendenza e l’apertura al senso del religioso.
    Sappiamo anche che, come reazione alle ristrettezze della razionalità, la cultura postmoderna spinge i giovani al culto del sentimento, della dimensione vitale e emotiva, al desiderio di sentire e di sperimentare piuttosto che di ragionare. Di qui la necessità di educare anche a pensare e a riflettere, a saper integrare ragione e sentimento, razionalità e contemplazione. Vanno in questo senso stimolati gli aspetti esperienziali della fede, il significato del silenzio, l’incontro personale con Dio, l’atteggiamento sincero della conversione. I giovani sentono fortemente il bisogno di essere colpiti e mossi da autentiche testimonianze di vita.
    * Annunciare Gesù Cristo ai giovani: il coraggio della proposta. Un’altra istanza riguarda il coraggio della proposta cristiana. Non si deve aver paura di annunciare esplicitamente la buona novella di Gesù Cristo ai giovani del nostro tempo. Non è necessario aspettare sempre che la domanda venga formulata dai giovani stessi per decidere, soltanto dopo, di darvi risposta. In un contesto culturale e sociale di pluralismo e di libertà religiosa deve apparire del tutto normale che la proposta cristiana possa essere offerta alla libera scelta di tutti.
    Certo, l’annuncio cristiano non deve mai presentarsi in forma di imposizione o, meno ancora, di indottrinamento o proselitismo. Va fatto invece nello stile della testimonianza, dell’invito, della proposta: «vieni e vedrai». Ma allo stesso tempo sarà formulato con decisione e chiarezza, come chiave di lettura del senso della vita, segreto di riuscita e di felicità, fonte di speranza.

    Il futuro della pastorale giovanile

    D. Ancora una domanda: di fronte al fenomeno della disaffezione dei giovani nei confronti della Chiesa e della fede, c’è un futuro per la pastorale giovanile? Ci sono delle opzioni radicali da assumere?

    R. Rispondo con un’ultima considerazione. Sono convinto della necessità, nella situazione attuale, di una profonda «conversione pastorale» della nostre Chiese e, come uno dei suoi aspetti qualificanti, dell’urgenza della ricerca di una nuova identità cristiana ed ecclesiale.
    Alla base di queste istanze c’è la convinzione, o almeno il sospetto, che l’attuale crisi della fede cristiana sia soprattutto di ordine culturale, nel senso che chi è in crisi non sia tanto il cristianesimo in sé quanto «questo cristianesimo», vale a dire, questa sua cristallizzazione storica, culturalmente condizionata e quindi modificabile. E penso che questo pesante condizionamento culturale costituisca oggi un freno tremendo all’accettazione della fede da parte dei giovani.
    Scendendo più al concreto, direi che per un ripensamento dell’esperienza cristiana in termini culturalmente accettabili oggi sia importante impegnarsi nella ricerca di un nuovo modello di cristiano, di un nuovo tipo di comunità cristiana e di un nuovo progetto di Chiesa.
    Anzitutto nella ricerca di un nuovo modello di cristiano. Alcuni preferiscono parlare di ricerca di una nuova identità, di bisogno di una nuova spiritualità cristiana, della necessità che il cristiano del futuro sia un «mistico», secondo la nota espressione fatta sua da Karl Rahner. Alla base di tutto c’è la constatazione che è in crisi il modello tradizionale di cristiano, il modo abituale di vivere il cristianesimo, che è diventato per tanti uomini e donne di oggi, e più ancora per tanti giovani, insopportabile, o almeno privo di senso, in-significante. Il cristiano ipotizzato come modello convincente dovrà avere un nuovo rapporto con la fede, con la Chiesa, con la cultura, con la società. Per usare una formula riassuntiva a me cara, direi che si deve presentare soprattutto come «credente impegnato», là dove prima appariva prevalentemente come «fedele praticante».
    Si è inoltre alla ricerca di un nuovo tipo di comunità cristiana, spazio di fraternità vissuta e di parola liberata, a misura umana, capace di rapporti umani veri. Di qui l’anelito verso una ricomposizione del tessuto comunitario della Chiesa, generalmente nella forma di comunità piccole, comunità dal volto umano. Si parla di parrocchie e di diocesi come «comunità di comunità». Ma siamo lontani dall’aver trovato le soluzioni giuste: nel pullulare attuale di molti gruppi e movimenti comunitari sono frequenti le tendenze «settarie», le tensioni e lacerazioni dell’unità.
    Si impone poi la promozione di un nuovo progetto di Chiesa. Di fronte alla generale crisi di credibilità dell’istituzione ecclesiale e alla disaffezione nei confronti della Chiesa, si chiede con insistenza una riforma in profondità dell’istituzione e l’assunzione coraggiosa della prospettiva ecclesiologica del Vaticano II. Il volto della Chiesa auspicata presenta alcuni tratti caratteristici: primato della fraternità e della comunione, atteggiamento disinteressato di servizio del Regno nel mondo, opzione preferenziale per i poveri, coraggiosa riforma istituzionale e superamento della pesantezza clericale, riconoscimento delle chiese particolari e dei carismi laicali, superamento delle discriminazioni intraecclesiali, specialmente nei confronti dei laici e delle donne, ecc.
    È in questa linea che, penso, bisogna anche nel lavoro con i giovani delineare bene l’orizzonte ecclesiologico verso il quale si è orientati, con la scelta consapevole di un progetto di Chiesa stimolante e convincente per i cristiani di oggi. Perché se è vero che ogni processo di educazione della fede deve promuovere la fedeltà alla Chiesa, non si deve dimenticare che questa fedeltà non riguarda soltanto la Chiesa del passato e del presente (la Chiesa cioè così come è stata e così come oggi è), ma anche la Chiesa del futuro, vale a dire, come deve essere, come può essere desiderata e sognata da quanti vi appartengono e la vogliono più vicina all’ideale evangelico.


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