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    Parrocchie e oratori: quale rapporto con l’ente pubblico?


     

    Franco Dalla Mura

    (NPG 2006-05-72)

    Per tentare di realizzare una corretta partecipazione alla vita di un territorio, il quadro dei ruoli e delle funzioni può essere così semplificato:
    - Ruolo istituzionale: peculiare, in questa accezione, è quello del Comune, ma vengono considerate anche tutte le altre istituzioni territoriali.
    - Ruolo sociale: con tale accezione si intendono tutti quei referenti, singoli od associati, capaci di proposta, pressione, partecipazione, di rappresentanza credibile rispetto alla problematica sociali e d educative.
    Il volontariato, il settore non profit e le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (quindi anche le parrocchie) sono partner irrinunciabili nella progettazione, nella realizzazione, nella gestione e nella valutazione del sistema integrato degli interventi e dei servizi in ambito sociale di un territorio.
    Le parole chiave che si possono estrapolare dalla legge quadro 328/2000 (legge di riferimento per un nuovo welfare) e che si devono tenere in debita considerazione sono: partecipazione, coinvolgimento, coprogettazione, cooperazione, condivisione, integrazione, rete dei servizi.
    Sono le parole chiave contenute nella legge con l’intento di creare una «nuova cultura dell’intervento sociale», inteso come promozione del benessere di persone e famiglie, come passaggio da una situazione di intervento riparatorio ad una situazione di promozione del miglioramento della qualità della vita.
    Questi compiti essenziali e riconosciuti possono a volte essere complessi, carichi di responsabilità. Il rischio è che il dover «regolamentare» tutto ciò ci spaventi e ci allontani. È qualcosa a cui non siamo abituati; anche lo stesso linguaggio ci sembra spesso tecnico e freddo; siamo andati avanti per tanti anni con il solo buon senso oppure con il sistema dei rapporti individuali.
    Linguaggi e temi non facili, ma oggi fondamentali, anche perché ci permettono di:
    - essere riconosciuti nel nostro operare, ponendoci nell’ottica di verificare anche la qualità delle nostre proposte educative e dei nostri spazi di aggregazione;
    - partecipare, offrendo la nostra disponibilità e collaborazione attiva entro le regole che tutti devono accettare (educazione alla legalità);
    - dare continuità alla nostra presenza, non legando le scelte solamente alle persone che oggi ci sono, ma alle istituzioni civili e religiose (vedi protocolli d’intesa);
    - dare trasparenza ai nostri rapporti, evitando qualsiasi dubbio di legami poco chiari tra apparati politici e istituzioni ecclesiali.
    L’intervento dell’Avvocato Franco Dalla Mura ci aiuta ad entrare con grande profondità in questo discorso.

    d.pier codazzi
    (referente per l’ODL rapporti con la regione lombarda)
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    CONVENZIONI E PROTOCOLLI D’INTESA CON L’ENTE PUBBLICO

    Lo scenario e gli attori

    Lo scopo che si prefiggono queste brevi pagine è quello di pro porre alcune riflessioni circa gli strumenti giuridici attraverso cui gli Oratori possono accordarsi con gli enti pubblici della zona di riferimento al fine di meglio adempiere alla propria missione, che impone la loro presenza attiva nel territorio attraverso una rete viva di rapporti con gli altri soggetti istituzionali e non istituzionali.
    Invero, circa la necessità appena rappresentata nessuno può nutrire dubbi, e delle problematiche ed opportunità ad essa legate molto si è detto e scritto.
    Non sfugge nemmeno che i veri problemi non sono legati alla forma ma alla sostanza; la reciproca disponibilità, la voglia di fare, la sincerità nel dichiarare le proprie intenzioni, il superamento degli interessi (non necessariamente economici) legati al proprio «orticello», la capacità di comunicare e di comprendere, ecc. sono di certo i temi fondamentali su cui riflettere.
    Ma sarebbe un grave errore non riconoscere che fra i tanti «angoli di osservazione» da cui è necessario studiare i problemi e le prospettive della presenza degli Oratori nella «rete» vi è anche quello della forma giuridica dei rapporti: una «rete», infatti, non può che essere definita nella sua struttura e disciplinata nel suo funzionamento da regole che impegnino i gangli vitali che la compongono e che si relazionano tra loro. Da questa constatazione ne discende un’altra: se di impegno si parla, allora tra le molte relazioni possibili nella rete vi sono anche relazioni giuridicamente rilevanti, obblighi reciproci, regole previste dalla legge e regole concordate pattiziamente di cui occorre tener conto. Un atteggiamento disattento o addirittura sprezzante nei confronti di queste problematiche finirebbe col far perdere o dequalificare molte delle opportunità faticosamente costruite, con il convincere che il rapporto con l’Ente pubblico è per propria natura difficile e addirittura snervante.
    Così facendo si imboccherebbe una strada decisamente sbagliata e si contribuirebbe all’opera di affossamento del senso più profondo delle recenti riforme (legge n. 328/2000 e nuovo articolo 118 della Costituzione) che - affermando laicamente il tema della sussidiarietà che pervade la dottrina sociale della Chiesa cattolica ed è stato ben espresso nella «Rerum Novarum» e ripreso dalla «Quadragesimo Anno» - propongono un nuovo modello di Comunità solidale e responsabile.
    È forse una sfida impari: in un momento in cui le contraddizioni del consumismo e della povertà crescente, dello sviluppo produttivo e del degrado dell’ambiente, della matura consapevolezza di taluni e della gretta superficialità di altri esprimono con chiarezza la maturazione di una profonda crisi per lungo tempo colpevolmente coltivata, può sembrare particolarmente utopistico proporre la realizzazione di vere forme di partecipazione che, come affermato dall’UNICEF in un documento di qualche anno fa, consiste in un «processo di appropriazione di potere, nello sviluppo delle capacità individuali e collettive della gente di migliorare la propria esistenza e di conquistare un sempre maggiore controllo sul proprio destino». Ma, come ha detto Eduardo Galeano a proposito dell’utopia, «mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare».
    Qual è, dunque, il senso profondo del concetto di sussidiarietà? Non può sfuggire l’importanza di questa domanda; dalla risposta dipendono, infatti, la diversa declinazione della sua applicazione e, in definitiva, l’assetto dei rapporti fra istituzioni e società civile.
    Ad una visione che riduce la sussidiarietà ad un mero «alleggerimento» della presenza (sia come soggetto regolatore che come soggetto direttamente o indirettamente produttore) delle Istituzioni nella produzione di beni e servizi se ne contrappone, almeno in parte, un’altra che pensa allo spazio lasciato libero dalla presenza del potere istituzionale «tradizionale» come ad uno spazio «intermedio» fra potere istituzionale e libertà private; uno spazio in cui le formazioni sociali possano porre in essere quel processo di «appropriazione del potere» di cui parla l’UNICEF, quella assunzione di responsabilità pubbliche di cui parlano le Encicliche papali, attraverso lo «svolgimento di attività di interesse generale» di cui parla - a proposito del principio di sussidiarietà - l’articolo 118 della Costituzione. Non si tratta, dunque, di disimpegno pubblico, ma di un modo nuovo di concepire le funzioni pubbliche, il cui esercizio non è necessariamente riservato alle Istituzioni ma che, anzi, va per quanto possibile riconosciuto in capo alle formazioni sociali. Ciò comporta l’attribuzione alle Istituzioni di una «nuova», duplice funzione, trasversale, per così dire, rispetto alle altre: quella di assicurare la risposta ai bisogni e lo sviluppo libero ed armonico della comunità e di «favorire» l’assunzione di pubbliche responsabilità da parte delle formazioni sociali.
    Poiché gli Oratori, quali strumenti delle Parrocchie, vanno certamente compresi tra le «formazioni sociali» di cui parta l’articolo 118 (oltre che fra i «corpi sociali intermedi» di cui parlano le Encicliche sopra ricordate) si pongono inevitabilmente due domande: quali rapporti di sussidiarietà sono possibili fra gli Oratori e le Istituzioni? quali sono le forme giuridiche appropriate per stipulare, nell’ambito di tali rapporti, «patti» adeguati a disciplinarli?

    Quale sussidiarietà?

    Se nella «sussidiarietà» va riconosciuto alle formazioni sociali l’esercizio di pubbliche funzioni, è necessario pensare a quali possano essere gli ipotetici rischi che gli Oratori possono correre nell’aderire a tali responsabilità. A tale proposito, non può sfuggire che un tratto fondamentale che contraddistingue le funzioni pubbliche è dato dalla loro doverosità: le Istituzioni cui la legge attribuisce l’esercizio di determinate funzioni non possono sottrarsi all’imperativo della norma e ad essa devono conformarsi. L’impegno degli Oratori nella presenza nella rete dei servizi e degli interventi sociali prefigurata dalla legge n. 328/2000 e da numerose leggi regionali, nasconde, quindi, la trappola di un asservimento alle Istituzioni?
    La risposta non può che essere negativa e la definizione delle modalità di rapporto coerente con questa risposta.
    Innanzitutto, va evidenziato come il nuovo articolo 118 della Costituzione non condizioni, in via generale, il dovere istituzionale di «favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà» e nessun atto di formale riconoscimento e a nessuna forma di soggezione: si tratta di una mera constatazione della corrispondenza all’interesse generale della Comunità e da questa semplice constatazione deriva il dovere istituzionale di «favorire», cioè di spianare la strada, di valorizzare, di integrare con le iniziative pubbliche, di facilitare… quelle che la stessa norma costituzionale definisce «autonome» iniziative. Va, quindi, subito colta la previsione costituzionale di una forma per così dire «leggera» di partecipazione all’esercizio di pubbliche funzioni, che, pur in assenza di formali vincoli rappresenta pur sempre espressione di sussidiarietà. Pensiamo alla partecipazione, attraverso contributi di idee e la partecipazione a gruppi informali o assembleari, all’elaborazione di piani e progetti sociali, all’autonoma predisposizione e realizzazione di progetti, ecc. In tali occasioni gli Oratori possono esprimere in totale autonomia la propria missione e, comunque, le Istituzioni hanno un - sia pur generico - dovere di sostegno e promozione.
    Ma, accanto a tali forme «leggere» di sussidiarietà, vanno pensate forme più giuridicamente «strutturate», in cui gli Oratori non si limitino a proporre alle Istituzioni il risultato di iniziative autonome (sia pur sostanzialmente mirate all’efficace perseguimento dei medesimi valori cui le Istituzioni tendono nello svolgimento delle proprie funzioni), ma intendano attuare forme più complete di assunzione di pubbliche funzioni, attraverso rapporti più strutturati e sistematici con i soggetti pubblici titolari delle funzioni stesse.
    Anche in questo caso, non vi è alcun rischio di «asservimento» essendo il contenuto concreto dei patti da stipulare fra Oratori ed Istituzioni lasciato alla libera determinazione delle parti.
    A fronte degli impegni che saranno (liberamente) assunti dagli Oratori nei confronti delle Istituzioni (e che non possono, per propria stessa natura, non costituire vincoli) si pongono però i correlativi impegni che le Istituzioni assumono nei confronti degli Oratori, assicurando così non solo la necessaria chiarezza, ma anche la dovuta dignità al ruolo che gli Oratori vanno ad assumere quali coprotagonisti nella rete locale.
    Il contenuto concreto dei «patti» concretizzerà anche formalmente la presenza degli Oratori in quello che la legge n. 328/2000 chiama «il sistema locale dei servizi e degli interventi sociali» e, più in generale, renderà possibile, in un quadro di tendenziali «certezze», un rapporto sistematicamente dinamico fra gli Oratori e gli altri «gangli» della rete; un rapporto che si svilupperà a partire dalla rilevazione dei bisogni e delle risorse della Comunità e che, attraverso le fasi delle programmazione e della progettazione partecipate, giungerà a concretizzare le risposte secondo modalità anch’esse partecipate.

    Quali patti?

    I «patti» fra gli attori istituzionali (e non istituzionali) e gli Oratori potranno sostanzialmente concretizzarsi ispirandosi a tre modelli fondamentali: patti in cui gli Oratori si limiteranno a mettersi a disposizione quali risorse comunitarie, concordando con gli altri soggetti contenuti e modalità al fine principale di valorizzare al massimo il proprio impegno; patti in cui gli Oratori concorderanno forme di sostegno concreto attraverso cui le Istituzioni potranno favorirne l’impegno (articolo 118 della Costituzione) non solo «spianando la strada» alle loro «autonome iniziative» ma anche concedendo loro risorse economicamente rilevanti, sotto forma di finanziamenti in denaro, beni e servizi; infine, patti in cui Istituzioni ed Oratori si impegnino reciprocamente ad integrare sotto il profilo organizzativo le risorse da impiegare nella programmazione, nella progettazione e, soprattutto, nella realizzazione dei servizi e degli interventi. A quest’ultimo modello pattizio potremmo dare il nome di collaborazione ( o di «partnership», come da tempo invalso nelle espressioni comuni).
    Alcune precisazioni.
    A proposito dei patti di «sostegno», ricordato che l’impegno della P.A. consiste essenzialmente in un «mero concedere» utilità economiche e che tali utilità finiranno con il consistere, nella maggior parte dei casi, in finanziamenti in denaro (ma non è affatto escluso che possano consistere nella concessione di qualsiasi altro tipo di utilità che abbia valore economico, nell’uso o nella proprietà di beni, attrezzature, servizi, informazioni, esenzioni, facilitazioni, ecc.), va con la massima attenzione evidenziato che, per non trasformarsi in corrispettivo (nel qual caso, nonostante il nomen attribuito, la forma negoziale e le intenzioni delle parti, il rapporto configurerebbe, di fatto, un appalto di servizi «sotto mentite spoglie», cioè un rapporto di sostegno solo simulato ed un vero e proprio contratto d’appalto dissimulato, con tutte le conseguenze del caso), il rapporto di sostegno dovrà essere configurato rispettando certe fondamentali caratteristiche, peraltro di semplice individuazione.
    Nel caso del «corrispettivo», l’obbligazione dell’amministrazione di corrispondere una somma di denaro costituisce la controprestazione dell’obbligazione assunta dall’altro soggetto nei confronti dell’amministrazione a «compiere un servizio» (articolo 1655 C.C.). Salvo diversa pattuizione (es.: pagamento anticipato), il diritto di questo soggetto (che finisce col diventare un vero e proprio appaltatore) a ricevere il pagamento della somma, che costituisce il prezzo della controprestazione, diviene attuale nel momento in cui egli abbia adempiuto alla propria obbligazione, cioè abbia reso il servizio nelle caratteristiche di quantità e di qualità previste dal contratto. È, quindi, del tutto irrilevante «come» il soggetto in questione abbia adempiuto alla propria prestazione: se, cioè, da essa abbia conseguito un utile, ovvero se abbia subito una perdita, se i costi sostenuti siano stati quelli previsti al momento dell’offerta, ovvero se si sia riusciti a contenerli, ecc. In sintesi, ciò che conta in un rapporto contrattuale d’appalto è la corrispondenza del prodotto al contratto.
    Ben diverso è il caso del sostegno/finanziamento.
    In questo caso, l’impegno dell’amministrazione a corrispondere la somma di denaro (o le diverse utilità economiche) non costituisce il corrispettivo della speculare obbligazione dell’Oratorio a «compiere il servizio»; esso è la conseguenza di un provvedimento amministrativo (o di un accordo sostitutivo di tale provvedimento) di concessione di un finanziamento pubblico teso a sostenere l’assunzione da parte della Parrocchia, attraverso l’Oratorio, del dovere di realizzare la funzione sociale di cui quel servizio o quell’intervento costituiscono espressione. In questo caso, tutto ciò che non era rilevante nell’ipotesi del rapporto d’appalto e del relativo corrispettivo lo diventa: il progetto esecutivo del servizio/intervento dovrà essere adeguatamente descritto sotto il profilo tecnico ed economico (cioè dei costi e degli eventuali ricavi che l’Oratorio finanziato prevede di sostenere, ed eventualmente, sotto le forme più disparate, dei contributi degli utenti, degli altri finanziamenti pubblici o privati, ecc.) non solo e non tanto in termini di «prestazioni» (com’è nel caso dell’appalto), quanto in termini di obiettivi e di processi. La qualità, dunque non viene descritta in modo «superficiale» e difficilmente verificabile con riferimento solo al prodotto, ma anche con riferimento al processo attraverso cui gli obiettivi descritti nel progetto dovranno essere raggiunti.
    Pare di tutta evidenza come lo stretto rapporto, di natura pubblicista, che si instaura fra l’amministrazione che concede il sostegno/finanziamento e l’Oratorio (formalmente: la Parrocchia) il cui progetto viene sostenuto/finanziato, consenta un significativo rapporto anche nel momento della realizzazione. Le modalità di tale rapporto vanno, ovviamente, accuratamente disciplinate nel «patto»; e la «presenza» istituzionale va certo «vista» (anche nella definizione delle relative modalità) in stile vetero-burocratico quale mera espressione di un potere ispettivo e, per così dire, inquisitorio dell’amministrazione, bensì prima di tutto come occasione e strumento per sua una presenza «positiva», finalizzata a garantire e migliorare la qualità, e garantire le condizioni necessarie a permettere un adeguato scambio informativo, a valorizzarne la presenza nella rete, a sfruttare ogni possibile opportunità di sinergia.
    A proposito del «patto di collaborazione», è opportuno chiarire che esiste un modello giuridico di riferimento: gli accordi di collaborazione previsti dall’articolo 119 del testo unico sull’ordinamento degli enti locali (D. Lgs. n. 267/2000, di prossima revisione nell’ambito dei provvedimenti attuativi della riforma del titolo quinto della Costituzione previsti dalla legge «La Loggia»).
    Effettivamente, gli «accordi di collaborazione» previsti dalla legge, e la loro limitazione ai soli soggetti non profit (quali sono gli Oratori) possono a pieno titolo essere considerati un importante modello di riferimento, una tipizzazione prevista dalla legge dei rapporti pattizi di cui ci stiamo occupando.
    Per accordi di «collaborazione» è ragionevole pensare che il legislatore abbia inteso fare riferimento ad accordi fra una pubblica amministrazione e un soggetto privato non profit - tali sono le Parrocchie (indicate al comma quarto dell’articolo 1 della legge n. 328/2000 quali enti delle Confessioni religiose che abbiano stipulato con lo Stato patti, accordi o intese) e gli Oratori - (o fra più soggetti) attraverso i quali i soggetti pubblici e privati si impegnino a «lavorare» in modo integrato («col-laborare») in funzione del raggiungimento di un obiettivo condiviso, mettendo a disposizione, nei limiti previsti dall’accordo, le proprie organizzazioni e i propri mezzi, ed assumendo le responsabilità relative al raggiungimento degli obiettivi.
    Il fine comune (migliore qualità dei «servizi prestati») connota in senso pubblicistico un rapporto che, di conseguenza, non può non assumere valenza lato sensu concessoria. Naturalmente il concetto stesso di «miglioramento di un pubblico servizio», citato nella norma, va inteso nel senso più ampio: non necessariamente dovrà trattarsi del miglioramento di un servizio esistente: ben potrà trattarsi di un nuovo servizio; e, neppure dovrà per forza trattarsi di un «servizio», ben potendo essere oggetto di collaborazione un progetto di intervento, di ricerca, di valutazione, ecc.
    Collaborare, si badi bene, non può limitarsi ad un semplice «dare» (e, men che meno, il rapporto potrà essere costituito da una o più prestazioni e da un corrispettivo): le risorse delle parti dovranno essere organizzativamente integrate fra loro, non essendo peraltro escluso che a tale integrazione organizzativa si aggiunga la corresponsione di somme (ma sempre, si badi bene, non a titolo di corrispettivo bensì di parziale finanziamento, come visto parlando dei rapporti di sostegno) o la mera messa a disposizione o il trasferimento in proprietà di beni e di altre «utilità economiche». Ciò che conta è che tali finanziamenti o attribuzioni economicamente rilevanti non vengano date a titolo di corrispettivo e non assumano rilevanza prevalente rispetto alle azioni collaborative; se ciò fosse, non si potrebbe più parlare di un vero e proprio rapporto di collaborazione ma di un rapporto di sostegno (ad esempio, di sostegno finanziario) pubblico di una iniziativa dell’Oratorio attraverso apposito patto, come già visto.
    Possiamo concludere che la collaborazione rappresenta per gli Oratori il modello di rapporto pattizio più importante e versatile nel sistema dei servizi e degli interventi sociali: attraverso di essa è possibile pensare a realizzazioni di estremo interesse, coinvolgendo una molteplicità di soggetti pubblici e privati e promuovendo il concorso di risorse e responsabilità su obiettivi condivisi. L’uso dello strumento in questione si presta ottimamente a ricomporre in modo integrato servizi in parte gestiti direttamente dall’ente pubblico (quanto meno per la parte professionale, gestita dagli Assistenti Sociali) con altri ora parcellizzati in capo ad una molteplicità di altri soggetti.
    Le occasioni per gli Oratori (oltre che, ovviamente, per le amministrazioni) per instaurare rapporti pattizi di collaborazione sul tipo di quello appena descritto non vanno, quindi, ricercate dando per scontata l’attuale organizzazione dei servizi e degli interventi: se così si facesse le occasioni sarebbero abbastanza limitate; le scelte tecnico-organizzative devono precedere quelle relative alla natura giuridica dei rapporti. L’esperienza quotidiana mostra invece una prassi capovolta e si pretende di verificare la praticabilità delle nuove forme di rapporto sui vecchi modelli organizzativi dei servizi.

    La natura giuridica dei «patti»

    Si è già accennato indirettamente alla natura pubblicistica dei «patti» di cui ci occupiamo. Essi possono certamente essere ricondotti agli «accordi» previsti dalla legge n. 241/1990 (recentemente, da ultimo, modificata dalla legge n. 15/2005) che con l’articolo 11 ha introdotto nel nostro ordinamento il principio di consensualità nell’azione amministrativa; ciò che prima costituiva l’eccezione è ora diventato la regola e, in presenza dei presupposti di legge, non è l’applicazione del principio di consensualità che le amministrazioni pubbliche devono motivare, bensì la sua mancata applicazione.
    Gli accordi di cui ci occupiamo, pur dando vita a rapporti cui «si applicano, ove non diversamente previsto, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili», sono pur sempre caratterizzati dalla natura pubblicistica del loro oggetto e dalla permanenza della titolarità pubblica della funzione cui si riferiscono; per questo la legge prevede che «Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l’amministrazione recede unilateralmente dall’accordo, salvo l’obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato».
    Questo particolare, visto nell’ottica della valorizzazione dell’elemento autoritativo, porta a concludere che con l’accordo il «potere» dell’amministrazione viene solo condizionatamente messo da parte al momento dell’accordo e che al verificarsi della condizione data dal mutamento del pubblico interesse che aveva motivato la conclusione dell’accordo, l’amministrazione può e deve riprendere l’esercizio di tale potere e, attraverso di esso, ricondurre l’accordo nell’alveo del pubblico interesse, ovvero giungere sino al recesso unilaterale dall’accordo.
    Questa peculiarità che caratterizza gli accordi di cui all’articolo 11 della legge n. 241/1990 va vista non solo e non tanto nella prospettiva «autoritativa», bensì in quella di mantenere nel tempo un rapporto sinergico fra i soggetti pubblici e privati parti nell’accordo; essa si presta a realizzare una sorta di interessante «coprogettazione permanente» fra gli Oratori, le Istituzioni e gli altri soggetti coinvolti, dei servizi e degli interventi sociali che costituiscono l’oggetto dell’accordo. Poiché, proprio attraverso questi accordi, l’Oratorio è reso partecipe della funzione pubblica, la natura pubblicistica dell’accordo non deve essere fonte di timori: la natura della sua posizione giuridica è analoga a quella della posizione dell’amministrazione: si tratta di un «potere», che nel rapporto, si confronta con quello istituzionale.
    Gli accordi previsti dall’articolo 11 della legge n. 241/1990 sono, dunque, i «mattoni» con cui è possibile costruire diversi tipi di «edificio» (cioè diversi modelli di rapporto), tutti accomunati da identica natura pubblicistica: i rapporti di collaborazione e quelli di sostegno di cui ci siamo occupati ne sono solo esempi.
    Quanto, infine, alle procedure, esse non potranno che essere caratterizzate dal tentativo di sostituire la sinergia e la collaborazione alla competizione e il complesso «processo» di costruzione e manutenzione del Piano di Zona costituirà il contenitore ideale in cui tali procedure potranno svilupparsi in piena trasparenza, anche sotto il profilo amministrativo.


    T e r z a
    p a g i n A


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