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    Lo SCAYM, Scalabrini Youth Movement



    Una proposta per una PG interculturale

    Antonio Grasso


    (NPG 2006-05-41)

    A differenza dei nostri gruppi tradizionali di PG (chiamiamolo I° modello di PG monoculturale) e dell’esperienza del gruppo Piedi a Colori, che si presenta valida per gruppi con giovani italiani e giovani immigrati di prima generazione (chiamiamola II° modello interculturale), la seguente proposta vuole essere un modello per una realtà di pastorale giovanile interculturale ma con la differenza che tutti i giovani sono nati e cresciuti nello stesso territorio (III° modello di PG interculturale). È questo, in fondo, lo scenario che avremo davanti nei prossimi anni.

    Una premessa

    Col passare degli anni i bambini figli di stranieri nati in Italia diventeranno adolescenti e poi giovani. Questo prospetto non sembra essere molto lontano negli anni, visti i dati del Dossier Statistico 2005. Facciamo qualche proiezione.
    I minori stranieri nati in Italia nel 1994 sono stati 8.028 (oggi hanno 12 anni e rientrano già nella fascia adolescenziale); dal ’94 in poi le cifre sono aumentate sempre di più. Erano 9.061 nel 1995; 25.000 nel 2000 e, per finire, 48.384 nuovi nati nel 2004.
    Man mano che questi ragazzi diventeranno adolescenti e poi giovani ed entreranno sempre più non solo negli ambienti socio-culturali italiani, ma anche religiosi (per quelli di fede cattolica), che tipo di pastorale giovanile possiamo pensare per loro? Non possiamo riproporre il modello del gruppo «Piedi a Colori». Questi giovani figli di stranieri sono nati in Italia, hanno studiato nelle scuole italiane, conoscono bene la lingua (e i dialetti), hanno assorbito la cultura giovanile italiana... insomma, sono italiani.
    Anche se non hanno una cittadinanza italiana, e dunque non sono riconosciuti a pieno titolo come «italiani», cosa li rende meno «italiani» dei giovani nati da genitori italiani? Qui le riflessioni (e le polemiche) potrebbero estendersi. Sono forse più italiani i figli degli emigrati italiani in Argentina che ottengono la cittadinanza per essere «discendenti» di italiani o questi ragazzi che da 15 o 18 anni vivono nel nostro paese, studiando, lavorando, apprendendone la cultura, gli usi e i costumi? Allora la questione si sposta sul concetto di «italianità». Chi è l’italiano? Cosa definisce la nostra italianità? Un pezzo di carta? Un legame di sangue? O forse una presenza continuata su un territorio, un’appartenenza per lingua, cultura, usi e costumi?

    Le prospettive

    Abbiamo davanti due diversi contesti: quella dei gruppi formali (parrocchie, oratori) e quella dei gruppi informali (pub, università, piazze).
    Entrambi saranno caratterizzati dalla multietnicità ed entrambi richiedono educatori preparati che possano dialogare con questi nuovi giovani, aiutarli nella realizzazione di sé, nella scoperta del progetto di Dio, nella costruzione di una società fondata su relazioni forti e positive, in cui vengono valorizzate le diversità e in cui lo scontro non viene negato ma gestito, verso una comunione vera.

    Gruppi formali

    Tra non molti anni avremmo nelle nostre parrocchie non più bambini ma adolescenti e giovani «italiani» figli di stranieri. Che proposta di pastorale giovanile abbiamo per loro? Il cammino intrapreso dallo ScaYM (Scalabrini Youth Movement) può essere una proposta a cui ispirarsi per una PG interculturale nei luoghi formali.
    Pur collocandosi in un contesto europeo, il cammino dello ScaYM è applicabile in realtà locali, quali la parrocchia, gli oratori, le associazioni.

    Nascita dello ScaYM

    L’idea di costituire un Movimento Giovanile all’interno dell’area Europea dei Missionari Scalabriniani è di qualche anno fa. Dal 1999, dopo la creazione e lo sviluppo di gruppi giovanili a livello locale e il consolidarsi delle relazioni tra i giovani grazie ai campi estivi e invernali, si è sentita l’esigenza di pensare ad una realtà superiore ai cammini locali.
    Nell’aprile del 2005, in occasione del Centenario della morte di Mons. Giovanni Battista Scalabrini, fondatore della Congregazione Scalabriniana, si è realizzata a Piacenza una Convocazione Giovanile che ha radunato giovani provenienti dalle diverse missioni scalabriniane d’Europa e da Cape Town (Sud Africa).
    A questo primo evento ha fatto seguito la GMG a Colonia, in occasione della quale è stato organizzato un momento «in famiglia» tra i giovani scalabriniani provenienti da tutte le parti del mondo.
    Due grossi eventi che hanno segnato il cammino verso una coscienza che occorre mettersi in rete, che c’è un sentire comune e una spiritualità comune, l’amore per il migrante, che unisce questi giovani e che è espressa in forme e modalità differenti.
    Dopo questi due momenti un gruppo di giovani rappresentanti dei vari gruppi scalabriniani dell’area Europea si è costituito come équipe dello ScaYM. È un gruppo di circa trenta elementi, con giovani di varie nazionalità (italiani, italo-tedeschi, peruviani, portoghesi, brasiliani, ecc.) provenienti da diversi paesi europei.
    Quest’équipe ha lo scopo di essere il «motore», il cuore del Movimento Giovanile, facendo rete tra le varie realtà giovanili d’Europa e animando tutti i gruppi in un cammino d’insieme, pur nel rispetto di ogni realtà locale.

    Il contesto locale

    Collochiamoci ora in una realtà ecclesiale locale e immaginiamo di avere un gruppo giovanile composto da giovani di varie culture. Anche se le aggregazioni giovanili parrocchiali sono in forte calo, finché ci sarà questo schema di formazione e di «trasmissione della fede» ci saranno sempre gruppi che avranno bisogno di un minimo di struttura e di organizzazione.
    L’équipe dello ScaYM sta facendo un cammino di formazione basato su tre filoni tematici: la spiritualità scalabriniana; gli aspetti socio-culturali dell’emigrazione; il nostro cammino di fede.
    Queste tre tematiche possono essere sviluppate all’interno di un gruppo tipo III° modello proponendo un cammino che valorizza sia l’essere parte di una realtà locale (formazione ecclesiale), sia una vita di fede e una spiritualità individuale (formazione spirituale), sia la valorizzazione delle culture presenti nel gruppo (formazione socio-culturale).
    Naturalmente come ogni gruppo all’inizio del cammino occorre dare il giusto spazio perché i membri crescano nella loro identità di gruppo, e nel loro senso di appartenenza. Successivamente verranno sviluppate tutte quelle tematiche collaterali.
    La nuova identità del gruppo (compresenza di varie culture) è quella attorno alla quale questi giovani cresceranno e nella quale dovranno ritrovare se stessi.
    È una realtà multiculturale e interculturale, è l’immagine di una Chiesa sempre più multiculturale, dove nessuno è straniero, dove ognuno si sente «in casa sua». È l’esperienza della «cattolicità» della Chiesa intesa nel suo vero significato di «universalità». «Si realizza così nella Chiesa locale l’unità nella pluralità, cioè quell’unità che non è uniformità, ma armonia nella quale tutte le legittime diversità sono assunte nella comune tensione unitaria» (CMU 19).
    La cattolicità della Chiesa è perciò un processo mai terminato; è una cattolicità dinamica. Come la cultura in tutte le sue espressioni è in continuo divenire in quanto parte dell’essere umano, così la cattolicità, in quanto legata all’uomo particolare è sempre in divenire.
    La formazione e le esperienze di questi giovani ruotano attorno ad una sempre maggiore coscienza di un mondo globalizzato, dove il piccolo gruppo ripropone nel locale ciò che la società vive nel globale. È quella dialettica tra globale e locale che solo fondendosi ed entrando in contatto potrà portare a vivere nel locale ma con la testa nel globale (appunto, una realtà «glocalizzata») [1].
    La proposta è di formare il più possibile alla mondialità. Anche questo concetto non è parallelo ad altri, ma è trasversale. Possiamo leggere con uno sguardo aperto sul mondo la Bibbia, la storia, i fenomeni socio-culturali che ci circondano, insomma, tutta la nostra vita nelle sue diverse sfaccettature.

    Gruppi informali

    Per concludere, non ci resta che fare una ulteriore provocazione per quella che può essere una futura PG nei luoghi informali, sempre caratterizzati dalla diversità culturale.
    Con la crisi delle strutture e degli spazi formali di aggregazione giovanile (punti di ritrovo tradizionali come la parrocchia o l’oratorio), aumenta il numero di giovani che non ha un legame ben definito con il territorio (spiritualità, affetti, impegno socio-culturale, tutto viene gestito secondo la modalità del «self service»: ognuno va alla ricerca di ciò di cui ha bisogno al di là degli spazi di appartenenza o di provenienza) [2].
    Ciò che questi giovani hanno in comune sono gli interessi. Non sono tenuti insieme da fattori esterni, quasi imposti, ma da una scelta personale. La diversità culturale che esiste tra di essi non è più un problema, in quanto sono cresciuti a stretto contatto gli uni con gli altri. Per questi giovani potrebbe essere utile una proposta di PG che miri a creare relazioni, che li valorizzi per la loro diversità culturale e che ne esalti gli aspetti comuni.
    Possiamo proporre un cammino di formazione e di accompagnamento per alcuni operatori che saranno chiamati ad agire in contesti informali di gioventù interculturale? Possiamo formare educatori interculturali di strada inseriti in un contesto giovanile? Un’esperienza che proviene dagli ambienti scalabriniani è quella della formazione di «educatori di Pastorale Giovanile interculturale».
    Sono giovani educatori che creano rete tra le varie agenzie educative a cui i giovani fanno riferimento, dialogano con le associazioni etniche e di volontariato, vanno nei luoghi dove i giovani si ritrovano e vivono (scuole, piazze, pub, associazioni, comunità etniche) e, attraverso attività pratiche (incontri etnici, cene multietniche, concerti) creano un nuovo territorio di pastorale giovanile interculturale. Naturalmente non ci sono più i luoghi «formali», ben strutturati, con la sicurezza di un programma stabilito all’inizio dell’anno, con degli orari, con delle strutture. Ora le strutture sono informali, vengono stabilite dagli stessi giovani e dai diversi luoghi dove si incontrano. L’educatore non è da considerare pari a un animatore di strada. Non è solo questione terminologica! L’educatore interculturale di strada dev’essere formato alla mondialità, all’incontro con l’altro, all’accettazione della diversità come ricchezza. Ha sia le competenze nel settore giovanile che quelle nel campo interculturale, il tutto «impastato» dalla fede, che dà senso e diversifica l’azione educatrice del modello di PG rispetto all’azione sociale che può compiere un animatore di strada tradizionale.

    Le metodologie

    È difficile parlare di metodologie senza contestualizzare l’intervento. Esse varieranno a seconda della tipologia dei giovani con cui ci si rapporta: età, cultura, ambiente socio-culturale in cui vivono, ecc. Ciò che è importante sono tre pilastri su cui si basa questa proposta: la dimensione giovanile (che ingloba la lettura attenta e aggiornata dell’evoluzione del mondo giovanile, l’essere «esperti in umanità», la formazione ai luoghi informali e il coraggio di esporsi uscendo dal centro e dirigendosi verso una periferia, cioè là dove i giovani vivono e si realizzano); la dimensione interculturale (esperti in comunicazione interculturale, conoscenza dei fenomeni migratori e delle dinamiche socio-culturali, attenzione all’altro in tutta la sua unicità, vivere la dimensione dell’alterità come modello che trova nella Trinità la sua ispirazione); e la dimensione spirituale (percorsi di fede, aiutando i giovani a vivere l’incarnazione, cioè il grande atto d’amore di un Dio che si preoccupa di me, che ha qualcosa da dire alla mia quotidianità, che è ancora parte di me). Questi tre fondamenti non possono venir meno.
    Questa ulteriore prospettiva è una provocazione per tutti, sia per il mondo scalabriniano che per le chiese locali. Dobbiamo avere il coraggio di «uscire dalle sagrestie», come diceva Mons. Scalabrini ai suoi missionari: un invito, questo, quanto mai attuale ed estendibile non solo ai preti, ma soprattutto ai laici, dai quali dipende il futuro della pastorale giovanile.

    NOTE

    [1] Questo termine è stato coniato da R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Asterios, Trieste, 1999. È stato usato soprattutto in riferimento a questioni di marketing, ma esprime bene i continui tentativi di mettere in contatto il globale con il locale.
    [2] È il concetto di «deterritorializzazione», inteso come distaccamento da un concetto di località fissa; J. Tomlinson, Sentirsi a casa nel mondo, Feltrinelli, Milano, 2001.


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