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    (Jacques Prévert)

    La strofa della poesia di Prévert con la quale apriamo questa riflessione sulla preghiera come forma privilegiata di ascolto dell’anima potrebbe forse scandalizzare qualcuno; ma crediamo fermamente che non ci sia preghiera possibile se non si attua un confronto onesto e schietto con chi non vuole pregare, con l’ateo e l’atea, con l’agnostico e l’agnostica. «Una preghiera che non sappia prendere sul serio il dubbio circa la fede non è un movimento dell’anima ma altra cosa, troppo commerciale e abusata perché possa interessarci».[1] È proprio nel testo biblico, del resto, che troviamo i più sconcertanti ed elevati segni di dubbio sull’esistenza di Dio o perlomeno sull’interesse che egli nutre per i destini dell’uomo: «Svegliati, Signore, perché dormi? / Destati, non ci respingere per sempre. / Perché nascondi il tuo volto / dimentichi la nostra miseria e oppressione?» (Sal 44,24-25); in questo salmo è l’intero popolo di Israele ad invocare Dio, perché mostri finalmente il suo volto e salvi il suo popolo dalle secche dell’incredulità; e del resto è sempre nel Salterio che troviamo il giusto perseguitato che, incitato come Giobbe a non credere a un Dio che lo lascia nel dolore ingiusto, prova la tentazione di cedere: «per l’insulto dei miei avversari / sono infrante le mie ossa / essi dicono a me tutto il giorno ‘Dov’è il tuo Dio?’» (Sal 42,11).
    Forse non si riflette abbastanza sul fatto che nella liturgia domenicale il sacerdote introduce la preghiera più conosciuta, il «Padre Nostro» che dall’ebraico «abbà» sarebbe stato più corretto tradurre con «O nostro papà», con le parole: «Osiamo dire». Non perché ci si spaventi della potenza di Dio e della possibilità di offenderlo con le nostre preghiere e le nostre richieste (non è stato forse Gesù a insegnarci a pregare così?), ma perché sappiamo che la preghiera è di per sé un osare: osare la ricerca di un senso in un mondo insensato, osare strappare al dolore e alla sofferenza qualche brandello di significato, osare negarsi a ogni uso ricattatorio, consolatorio o didascalico di quello che è forse il più misterioso dei codici dell’anima, ovvero il dialogo sottile e accennato con Dio.
    Pregare un Dio rivelato ha senso perché sottintende la fede in un Dio comprensibile e che ci comprende: la rivelazione ha aperto un canale linguistico tra l’uomo e la donna da un lato e Dio dall’altro, un canale che rende la preghiera un atto plurilinguistico: Dio non si vincola solamente al linguaggio orale anche se in alcune religioni (quelle del Libro) sembra prediligerlo, ma tiene aperti tutti gli altri canali comunicativi; così si prega anche con la danza, con la pittura e con il silenzio della meditazione. In altre culture la preghiera è invece al Dio sconosciuto: viene abbandonata come messaggio precario, come foglietto in una bottiglia e non si sa se il deus absconditus abbia voglia o possibilità di comprenderla. C’è un senso del tragico nelle preghiere che si rivolgono a un Dio che non si è (del tutto) rivelato all’uomo e alla donna: sono preghiere che vivono della loro precarietà e che non sono mai garantite nel loro effetto. Chissà se il Dio dei mistici o dei misteri avrà mai voglia di aprire la bottiglia ed estrarne il messaggio; chissà se vorrà leggere quanto abbiamo vergato a matita sul foglio. La religione rivelata non deve esibire la propria arrogante certezza di fronte alle timide incertezze delle religioni misteriche; la differenza che essa porta con sé non è la sicumera di una preghiera certamente ascoltata ed esaudita, ma semmai la speranza in un Dio personale che forse potrebbe cogliere, comprendere ed esaudire il nostro messaggio.
    Ma è proprio lo spostamento del fuoco della preghiera dall’atto comunicativo (un dialogo con Dio) all’effetto (la richiesta di qualcosa) a farle perdere la sua dimensione profondamente rituale: la preghiera in questo caso passa da rituale collettivo di dialogo con Dio che ristruttura la comunità e la collettività, a colloquio privato che il più delle volte si riduce a richiesta di cose e di beni: in questa preghiera egoistica e desolidarizzante le cose diventano, da pre-testi per sacralizzare il quotidiano, meri oggetti di richiesta, poste in palio in quella che più che una comunicazione con il divino sembra assumere le forme di una contrattazione («se mi farai la grazia di... io farò..., versione ereticale del contratto di commercio [2]). Allora veramente si prega da soli, così come da soli si legge la Scrittura (un gesto che scandalizzò Agostino): dopo Lutero leggere la Bibbia in casa propria ha una duplice valenza: certo riconosce al fedele il diritto alla libera interpretazione del testo e dunque rende meno presente la mediazione istituzionale della Chiesa, ma al contempo allinea il Testo Sacro sullo scaffale sul quale il mercante tiene i libri contabili e spesso lo rende uguale ad essi. Il tempo della preghiera è allora sottratto a stento ai tempi frenetici del commercio e della transazione e soprattutto ne è fortemente contaminato. «Aspetta, solo 5 minuti per pregare, che devo chiedere fortuna per il prossimo contratto». Non che la preghiera non debba anche essere un momento di dialogo privato e unico con Dio, ma in questo dialogo, se è autentico, traluce l’intera società dei credenti e dei non credenti, altrimenti si tratta di un gesto egoistico anche se fatto insieme ad altri: nella preghiera deritualizzata e banalizzata la parola di Dio e degli uomini e delle donne diventa mera formula da ripetere perché la collettività non è più luogo teologico della manifestazione del divino. Questo tipo di preghiera assomiglia sinistramente a quella del deportato compagno di Primo Levi che ringrazia Dio di non essere stato selezionato per la camera a gas: «Se fossi Dio sputerei a terra la preghiera di Kuhn».[3] In questo senso è compito delle religioni educare i propri fedeli a una preghiera radicale e collettiva ma soprattutto a una preghiera inquieta e inquietante. Così prima della preghiera c’è la rivelazione, che non si dà nella quietezza e nella tranquillità: è inquietudine e rottura esistenziale, è roveto ardente, tomba vuota, Egira. Fuga, esilio e difficoltoso ritorno a se stessi. «La preghiera non è il primo atto che l’uomo compie. Prima dell’orazione c’è uno shock esistenziale Solo allora, come conseguenza, sorge la preghiera».[4] I laici sono chiamati al profondo rispetto per questo shock e per la risposta che esso provoca, perché anche e soprattutto per gli agnostici e i non credenti la preghiera dei credenti è una delle più profonde esperienze spirituali che possano essere intraprese. Non tutti vogliono pregare e non tutti sanno farlo: il rispetto per chi non crede in un Dio personale, in un Dio da pregare è dovuto da parte di ogni fedele, così come la critica a chi intende la preghiera come mera richiesta personale di beni. Forse è vero che «la lettura del giornale ha sostituito la preghiera del mattino» come recita una frase erroneamente attribuita a Hegel; forse è vero che la desacralizzazione e il disincantamento del mondo relega la preghiera tra le comunicazioni «inefficaci» o «poco economiche». Ma non sono tali anche le frasi «Ti amo», «Che bello!», «Aiuto!»? La parola della preghiera, parola ascoltata prima ancora che pronunciata, si colloca per fortuna in un terreno che è ben altro da quello della contabilità delle parole e dei loro risultati. Per questo motivo un confronto interculturale che insegni a pregare e a rispettare le preghiere altrui potrebbe essere il primo passo per un’educazione alla pace e al dialogo.

     

    NOTE

    [1] Ernst Bloch, Il Principio Speranza, Milano, Garzanti, 2005, pag. 605.
    [2] In una divertente striscia disegnata da Charles Schulz, Charlie Brown sta pregando nella sua stanza e dice alla sorella Sally di fare lo stesso nella propria camera: Sally obietta «Ma se chiamo adesso trovo occupato!».
    [3]  Primo Levi, Se questo è un uomo, in Opere, Torino, Einaudi, 1997, vol. I pag. 126.
    [4] Leonardo Boff, Padre Nostro. Preghiera della liberazione integrale, Assisi, Cittadella, 1989, pag. 19.


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