Gioia Quattrini
(NPG 2006-04-4)
Giorgio ha l’aria scanzonata, e mentre parliamo spizzica la chitarra tirando fuori strane melodie, varianti di musiche già note, riviste e corrette dall’estro. Estro che spunta ovunque: dalla pettinatura di treccine alla maglia di svariate taglie in più. «Quando penso al domani – mi racconta Giorgio – mi sembra di partecipare al gioco dell’oggetto misterioso. Guardo con attenzione ma senza vedere altro che un geroglifico, nessun capo e nessuna coda, color niente, nel quale sento che dovrei trovare almeno qualcosa di familiare. Allora penso che quella macchia non è altro che la fotografia, assolutamente fedele, di quello che ho nella mente. Un groviglio, un gomitolo con il quale abbia giocato un gatto briccone, mille spunti nessun legame. Almeno così sembra. A volte la testa lavora senza un momento di pausa e disegna, corregge, cancella e riscrive progetti su progetti. La mia mente è come lo studio di un architetto pasticcione, fogli sparsi e appunti disordinati, ma nonostante questo sono lì tutte le mie idee, abbozzate, gettate in due righe ma pronte per fiorire, per fare di un caos un giardino.
Io non mollo. Questo mondo non mi piace ma non voglio passare la mia vita a lamentarmi. Mi darei fastidio da solo. Non potrei sopportarmi e magari scioglierei la società con me stesso. Io lavoro. Studio. Osservo. Mi guardo intorno. Organizzo modifiche e traccio nuovi profili.
Sarebbe davvero impossibile vivere nel mondo dove i bambini, nati per avventura nella parte sbagliata, ti guardano con gli occhi pieni di fame, dove la malvagità è di casa e sembra sempre spuntarla, dove l’uomo guarda oramai l’uomo come se non gli riconoscesse più niente di familiare, se non si possedesse un progetto nel quale si crede davvero. Un progetto che cancellerà la divisione del mondo in due parti: quella fortunata e quella sfortunata. Un mondo dove le cicogne ovunque andranno, andranno bene.
Io credo. Credo in me e negli uomini. Credo nella nostra voglia di respirare liberi e di sorridere al sole, di conservare la natura per potercela godere e soprattutto credo nella nostra voglia di amare, di stringere tra le braccia gli altri per camminare insieme e costruire la nostra casa comune. Invece non credo. Non credo che si possa vivere a lungo nel male senza avere un’intossicazione che tolga colore alla pelle e riduca tutto al grigio. Il male fa avvizzire, rende tristi, prosciuga anche quanti pensano che porti loro potere. Non fa eccezione, contamina chiunque, soprattutto i suoi servi, quelli sciocchi che pensano di essere i padroni. Contamina e rende sterili. Piante secche, senza futuro. Non posso caderci, io. Io adoro il futuro anche se ho un po’ di timore e quando ci penso, a questa meravigliosa impresa che mi è toccata, all’impresa di costruire la mia vita, allora la paura si intreccia con la gioia e l’entusiasmo e la speranza. E mi sale una tale euforia. Una tale voglia. Un tale senso di responsabilità. Non riesco a stare fermo. La speranza. È lei la mia guida, il mio faro nella tempesta. Il mio punto cospicuo, nella navigazione. La speranza. Non mi capita spesso di pensare a Dio. Io adoro gli uomini, le loro imperfezioni e la loro straordinaria capacità di trascenderle, la tendenza all’errore e la sapienza nel farsi perdonare, a volte eroi involontari, senza che nessuno ci creda, neppure loro stessi. Con quelle mani che creano e distruggono. Con la facilità con la quale si perdono e si ritrovano. Fragili davanti alle tentazioni e pieni di vigore davanti alla possibilità di perdere la vita. Miracoli con quelle mani. Sangue e polvere di stelle. Io adoro gli uomini, sono la mia misura e penso che insieme possiamo farcela. Senza bisogno di cercare in cielo una taglia più grande. Non che abbia niente contro l’idea di Dio, soltanto che non lo metto nel conto. In questo mondo, la speranza siamo noi. E se dovessi soffermarmi di più sull’idea del divino: lo vedrei così: con il volto della speranza».
Francesca non guarda nessuno. Capo chino e braccia conserte, a difendersi. Non parla e dondola le gambe. Raramente incrocia lo sguardo di qualcuno degli altri. È in mezzo al gruppo ma è sola. Davvero triste, e quando sono io che la vado a cercare, per strapparla da quella assurda solitudine, dal margine della conversazione, mi guarda ostile e scuote il capo.
«Mi piacerebbe, credimi, mi piacerebbe davvero, ma a differenza di Giorgio, io non riesco a credere. Non credo a niente. A Dio, agli uomini, al domani, alla speranza. Questo mondo è un caos troppo grande perché se ne possa venire a capo. Siamo andati troppo oltre. Abbiamo superato la soglia del non ritorno. Abbiamo varcato i confini della decenza. Ucciso qualunque ideale e polverizzato ogni sorta di valori. Non mi sembra che sia sopravvissuto niente al delirio di onnipotenza che ha invaso troppi di noi. Il nemico è quello che si contende con te l’unico posto libero per parcheggiare dopo ore di giri inutili; il nemico è in fila alla posta per pagare l’ICI e ha aspettato anche lui l’ultimo giorno perché proprio come te non ha più tempo per fare nulla. Ma tu lo detesti lo stesso e non gli concedi nessuna delle attenuanti che concedi invece a te stesso. Il nemico ti schiaccia sull’autobus perché vuole salire per forza e si parcheggia davanti la porta della metropolitana cosicché per scendere tu debba scavalcarlo. Il nemico è ricco e vuole diventarlo sempre di più. Così una volta rubavano i poveri ai ricchi per bisogno. Oggi rubano i ricchi ai poveri, senza bisogno solo per ingordigia. Non esiste più il bene ma soltanto il male minore. Davanti alla morte di vecchi e bambini, ci viene da pensare che non ci sia più regola neanche nella guerra, neppure nella violenza. Che pensiero di consolazione: almeno prima anche gli assassini avevano una loro deontologia professionale. Oggi niente.
Quando penso al mio domani, penso se riuscirò ad avere sempre la forza di sopravvivere comunque. Di nuotare in questo gorgo scuro e puzzolente. E tremo all’idea della vecchiaia dalla quale non potrò fuggire perché questo è un mondo che va a tremila e non rallenta per nessun motivo. È un mondo che lascia indietro tutti quelli che non riescono a mettersi alla sua velocità. Non scatta il semaforo che già qualcuno suona. Alla cassa del supermercato, mentre con un’ansia da cavallo, cerco di infilare di corsa tutto il possibile a caso nelle buste, il cliente dopo di me già manda fulmini con lo sguardo. Se una persona anziana esita, se un uomo ha un’incertezza, se vuoi mantenere il tuo ritmo, senza farti venire l’affanno, saranno in mille a ricordarti che vali meno, che andare lentamente significa avere il pensiero lento. Il nostro è un mondo fatto solo per i perfetti. Non sopporta i deboli, non prova misericordia per i malati, trascura i poveri e incolpa gli infelici della loro infelicità. Ma andiamo, che mondo è?
Non importa quanto tu possa valere, quanti sacrifici tu possa aver fatto nel tentativo di raggiungere un obiettivo, il lavoro va a chi ha le carte migliori in mano, a chi ha le conoscenze giuste, a chi ha saputo vendere meglio quello che non ha. La società dell’apparenza preferisce pessimi interpreti senza decoro al posto di autenticità piene di dignità e onore. E allora a quale scopo ogni progetto, ogni sforzo, ogni fatica? Ovunque si cantano inni di lode alla furbizia, all’intraprendenza, all’audacia, ma nessuno fa il conto dei costi, dei prezzi da pagare. Il mito della velina che sposa il calciatore, il desiderio di essere protagonista ventiquattr’ore su ventiquattro, sotto l’occhio fisso di una telecamera, che ti guarda anche mentre ti lavi i denti, metti i pantaloni o bevi un bicchiere di acqua. Ecco la speranza dove è andata a finire: la speranza di un matrimonio di successo. La speranza di apparire su uno schermo fosse anche come oca giuliva. Denaro, successo, fama senza troppo sudore. La speranza di vincere una nomination».
Mohamad è un ragazzone da paura. Per scherzo i suoi amici lo chiamano Momy e lui ne ride con fragore. Nulla di diverso: un abbigliamento originale e personalizzato; capelli vattelapesca; modi e parole sulla stessa lunghezza d’onda degli altri. Occhini e sorrisone, manone e gambe lunghissime. Mohamad è davvero un ragazzone. Un ragazzone musulmano nel mezzo di una masnada di amici, diciamo, cristiani.
Allora questa speranza… E lui si intimidisce un po’. «Il nostro gruppo, la nostra combriccola di amici è il più bel messaggio di speranza. Vedi quando sussurro questa parola, speranza, subito mi viene da pensare alla pace. Un mondo dove le diversità possano convivere senza essere nemiche o avversarie, senza che una voglia per forza prendere il sopravvento sull’altra. Senza che ci sia per forza qualcuno che abbia ragione e qualcuno torto. Senza che ci sia per forza qualcuno che abbia meriti e qualcuno che abbia colpe. Qualcuno più civile e qualcuno meno civile. Guardaci, siamo noi il segno di questa speranza. La voglia di pace che diventa pace. La voglia di comprendersi e rispettarsi. La voglia di conoscersi e sostenersi. Occhi negli occhi, nessuno più alto di nessuno.
E poi, non ultimo, senso dell’humour e sapienza nel non prendersi troppo sul serio. Bisogna saper ridere di se stessi e delle proprie cose, è un atteggiamento che non mette in questione la serietà e l’importanza dei propri credo ma li rende più simpatici alle orecchie di chi non li conosce. Non si deve incutere paura nel prossimo, sbattendogli in faccia con forza le proprie particolarità. Siamo tanti e diversi: questa è la meraviglia del genere umano e chi lo ha creato lo voleva così. Non importa il nome che ognuno di noi dà al proprio Dio, l’importante è non cadere nel tranello di ritenere la propria l’unica verità. Siamo giovani, abbiamo tanto da fare e mille ragioni per nutrire speranza e per portarla ovunque con le nostre opere, con il nostro esempio. È un compito difficile e pericoloso ma è il senso più nobile che la vita possa avere: sperare e farsi portatori di speranza. Se portassimo questo vento fresco in ogni cosa che affrontiamo, probabilmente tutto ci sembrerebbe più possibile.
Avere fede, poi, affidare il proprio cuore ad una religione della quale si decide di abbracciare le speranze, è un valore aggiunto. Chi ama Dio non può non amare gli uomini. Non può non soffrire per le ingiustizie e le violenze che sottomettono gli umili.
Al centro della vita sociale il denaro litiga con la fama per il primo posto. Finiamola e facciamo tornare l’uomo al posto che merita, una società che sia misurata sulla persona, che guardi al dolore, ai disagi, alle paure degli uomini e li sostenga non facendoli sentire soli.
Noi siamo la speranza. Gialla, nera, bianca, nelle mani di Cristo, di Allah, di Javhè. Noi siamo la speranza, nessuno può tirarsi indietro».