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    La giovinezza senza i giovani


     

    Ilvo Diamanti

    (NPG 2006-03-62)


    I concerti che hanno riproposto l’esperienza del mitico Live Aid, vent’anni dopo, hanno suscitato grande mobilitazione, grande emozione. Ma a noi (a me) hanno fatto tristezza. Come quelle feste a tema, in cui si rivivono i «favolosi anni passati». E, per animare la manifestazione, si invitano gli artisti di allora. Con la differenza (rispetto alle rievocazioni stile «Anima mia», la trasmissione televisiva di successo condotta, circa dieci anni fa, da Fabio Fazio), che questi concerti non guardano al passato, ma al presente.
    Non si propongono di curare il vizio della nostalgia, ma i mali del mondo attuale. E i protagonisti dell’evento non si propongono da testimoni del tempo andato. Ma da interpreti del «nostro» tempo, costruttori del futuro. Perché il messaggio inespresso e implicito, in una manifestazione come quella accennata, è che i «giovani» protagonisti della nostra epoca non sono cambiati. Vent’anni dopo, sono gli stessi. Le stesse facce, le stesse voci. Vent’anni dopo. McCartney, i Pink Floyd, Elton John, gli Who (che, peraltro, si esibivano anche 30 o 40 anni fa), poi gli U2, Sting. E, in Italia, De Gregori, Zucchero, Baglioni, Renato Zero. Hanno quarant’anni, talora cinquanta. Alcuni di più.
    Vent’anni dopo: il centro della scena culturale e musicale non sembra essersi spostato di molto. I giovani e gli adulti: ad ascoltare gli stessi musicisti. Che hanno l’età dei genitori. Quasi che le generazioni più giovani non fossero più in grado di imporre tendenze, gusti, protagonisti. Espropriate, per questo, del diritto a trasgredire e a innovare. Che è specifico della giovinezza. D’altronde, la gioventù, oggi, sembra essersi allungata fino a quaranta-cinquant’anni. Visto che molti cinquantenni, per non dire dei quarantenni, vestono come i figli, magari come i nipoti (anche se con difficoltà, per via dei pantaloni a vita bassa). Ascoltano la loro musica. Anzi, la fanno e la interpretano. E la impongono – o si illudono di imporla – a tutti. Come «consumo giovanile».
    In altri termini: si tende ad affermare l’eterna giovinezza al prezzo di abolire i giovani. In Italia, questo processo appare particolarmente chiaro. Dal punto di vista demografico, vista la caduta del tasso di natalità degli ultimi vent’anni. Tanto che la lieve ripresa registrata nell’ultimo anno (grazie al contributo determinante degli immigrati) ha fatto gridare al miracolo. Ma ha suscitato anche un po’ di inquietudine. Tanti bimbi, in un condominio abitato da anziani, potrebbero disturbare, fra qualche anno. Tuttavia, i giovani e i giovanissimi, nel nostro paese, vivono una vita sospesa, fra dipendenza, protezione e incertezza. L’abbiamo scritto tante volte: studiano fino a oltre venticinque anni, poi lavorano, passando da un co. co. co. a un contratto di formazione a progetto, a uno stage in azienda o in qualche ente... Magari all’estero. Flessibili per necessità e, progressivamente, per abitudine e per esperienza. Si sposano, o vanno a convivere, tardi. Dopo i trent’anni. Ancor più tardi hanno il primo (spesso unico) figlio. Per questo, comprensibilmente, restano legati alla famiglia e ai genitori molto a lungo. Risiedono con loro, nella grande maggioranza, fino oltre trent’anni. Il che non significa che siano davvero stanziali; che coabitino con i genitori in modo permanente. No. Vanno e vengono. Fra uno stage e un corso universitario. Un viaggio di studio e un’esperienza di lavoro lontano dalla città. Poi tornano. E ripartono. La famiglia di provenienza, fa da porto, salvagente. Garantisce loro il soccorso nei momenti di necessità. Permette loro questa vita spericolata. E loro, i giovani, accettano di buon grado questa «dipendenza» dai genitori. Anche quando non sono più giovani. Anche quando si sposano e hanno figli (come farebbero, senza i nonni?). Un po’ non possono fare altrimenti, i giovani. Un po’ fa loro comodo. E li tollerano, li guardano con affetto, questi anziani, che non ne vogliono sapere di invecchiare. Ma soprattutto pretendono di essere giovani come loro. Accanto a loro. Fratelli maggiori, non genitori. In grado, ancora, di battersi per le cause più giuste, marciare con loro contro la guerra. E di promuovere megaconcerti per aiutare i poveri del terzo mondo. Oggi come venti o trent’anni fa. Il problema è che, in questo modo, i giovani veri, quelli che hanno 20-30 anni (e anche meno), restano segregati, quasi sospesi. E non riescono a scalare le gerarchie professionali, sociali, politiche, senza il nostro aiuto. Senza di noi. D’altronde, basta frequentare i piani alti – e medi – dei palazzi della politica, delle professioni, dell’impresa, della finanza, dei media, dell’università, per incontrare giovani dai cognomi noti, spesso famosi. «Figli e nipoti di». Magari – non si discute – all’altezza dei genitori e dei nonni. Ma che, senza di loro, difficilmente avrebbero avuto l’opportunità di accostare – se non di raggiungere – le posizioni che occupano. Non sorprende, allora, che solo due persone su dieci, in Italia, oggi ritengano che i giovani avranno, in futuro, una posizione economica e sociale migliore dei loro genitori. Questo atteggiamento riflette, certo, la difficoltà di superare il livello di benessere raggiunto dalla società, dal dopoguerra ad oggi. Al tempo stesso, risente del senso di incertezza che pervade la realtà globale e locale. Sconta la crescente inquietudine per il futuro. Ma riassume, indubbiamente, anche la chiusura intergenerazionale, che rende immobile la nostra società. Giangiacomo Nardozzi, sul Sole 24ore, ha parlato, a questo proposito di una «gioventù sprecata»: a causa dei genitori che assecondano la «pigrizia» dei figli, inducendoli a restare a lungo con loro; a causa delle politiche localiste che ispirano scuola e università, e inducono, ulteriormente, i giovani a non allontanarsi troppo di casa. Filippo Andreatta e Salvatore Vassallo parlano, anch’essi, di una «generazione sprecata», perché le rendite dei genitori condannano i giovani «a invecchiare prima di diventare adulti». Anche perché i loro genitori – gli adulti – rifiutano di invecchiare. Così i giovani (veri) crescono in un recinto invisibile. Dove hanno ampia possibilità di movimento, ma restano attaccati, con fili sottili e resistenti, ad alcuni ganci solidissimi. La casa, la famiglia, i genitori, il lavoro (precario) avviato sotto il loro sguardo vigile. Le ricerche sull’argomento, peraltro, suggeriscono che questa situazione non susciti in loro senso di angoscia. Tutt’altro. Proprio loro, i giovani, soprattutto quelli con meno di 25 anni, guardano con maggiore ottimismo al futuro personale, ma anche alle prospettive economiche del paese; sono più fiduciosi negli altri, più soddisfatti della vita. Non hanno nostalgia del passato. Il che, in fondo, è prevedibile. Visto che la nostalgia è un vizio coltivato da chi ha una biografia più lunga. Visto che il futuro intristisce di meno chi ce l’ha davanti, invece che dietro alle spalle. E per gli adulti, per gli anziani, per quanto si illudano di non essere tali, il passato pesa molto più del futuro. Tuttavia, colpisce questa condizione di felice insicurezza, in cui versano i figli. Controllati da genitori occhiuti, che ne proteggono il percorso. E in questo modo proteggono anche se stessi. Colpisce, questa generazione a responsabilità limitata e in libertà vigilata. Dall’identità incerta. Che non può dirsi giovane perché gli adulti non accettano (e non si accorgono) di invecchiare. Che non può dirsi adulta, perché non le è permesso di crescere e maturare. Questa società sterile, che pretende di cambiare e di innovare. Per via tecnologica, ma non biologica. D’altronde, come è possibile cambiare, innovare, se i padri «non» invecchiano, le mamme «non» imbiancano e i figli «non» crescono?

    (La Repubblica, 3 luglio 2005)


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