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    La chiesa e l’accoglienza dei migranti: scuola di cattolicità


    Luigi Sabbarese

    (NPG 2006-02-19)

    Ogni azione pastorale, come quella per i migranti, si colloca nell’ambito della ecclesialità e della missionarietà. Anche la pastorale per i migranti ha la sua scaturigine nel mistero della Chiesa; tale pastorale, proprio per la peculiare condizione di sradicamento e di rischio di disgregazione cui i migranti, che ne sono i destinatari, sono sottoposti, ha bisogno di riferirsi al suo naturale collante che è la comunione.

    Le migrazioni: per una cattolicità in ogni luogo

    Nell’organizzazione specifica che la contraddistingue, tale pastorale si adatta, è provvisoria, e perciò si rinnova, ma non può farlo se non all’interno della comunione, partendo da essa e mirando ad essa. La comunione ecclesiale non si limita ad una comunione umana, ma da essa traspare una comunione superiore con Dio; essa non è inafferrabile, ma ha una norma storica, in analogia alla rivelazione di Cristo «nella carne». Questa comunione è aperta, poiché, pur verificando la sua autenticità con lo sguardo volto all’avvenimento storico di Gesù, tuttavia ha davanti a sé un mondo nuovo da scoprire e «la sua mobilità e varietà non devono farle temere per la sua fedeltà, perché è lo Spirito che la conduce».[1]
    La Chiesa particolare, a contatto con le migrazioni, si configura come una risposta profondamente umano-locale alla comunione con Dio e tra gli uomini, cioè valorizza tutto l’humanum, vivendo la cattolicità come una nota non solo della Chiesa universale, ma incarnata già in se stessa; pertanto, come insegna il Catechismo della Chiesa cattolica, ogni Chiesa particolare è cattolica.
    Secondo la legge dell’Incarnazione, l’iniziativa di Dio, e quindi la risposta dell’uomo, è localizzata, così come lo è la Chiesa particolare-locale, nella quale e a partire dalla quale esiste la sola e unica Chiesa cattolica (LG 22). La dialettica globale-locale, che caratterizza il mondo contemporaneo, è per certi versi analoga alla dinamica universale-particolare che si sviluppa in ambito ecclesiale.
    Se la globalizzazione sembra eliminare l’importanza del locale, in realtà la varietà del locale viene da essa utilizzata come risorsa e possibilità di valorizzare la dimensione locale in quanto nodo del globale; il locale resta il luogo dove i vari processi vengono percepiti e vissuti. Ci si muove qui nella prospettiva del glocalismo.[2]
    Il migrante nella Chiesa particolare può essere considerato in un certo senso come costruttore «glocale» della comunione e della cattolicità della Chiesa, perché rende visibile e manifesto in un luogo particolare l’universale sua cattolicità, e permette di valorizzare, sia attraverso l’accoglienza della Chiesa particolare che con il suo inserimento in essa, la dimensione locale della comunione ecclesiale come nodo della comunione e della cattolicità proprie della Chiesa universale.
    Nella dialettica tra universale e particolare, tra globale e locale si può adeguatamente inserire l’attenzione della Chiesa verso i migranti e l’attuazione di una pastorale specifica che si potrebbe definire «pastorale glocale».

    Dalla diaspora alla ecclesia: le migrazioni anticipazione del Regno

    Il discorso sulle migrazioni diventa teologico nella misura in cui esso è rapportato alla Chiesa e alla sua missione. È interessante considerare in questa luce ecclesiale gli avvenimenti di emigrazione o di diaspora, che hanno caratterizzato la storia della salvezza in una continua dinamica tra cultura e fede: Dio chiama Abramo da una situazione sedentaria a una condizione di nomadismo, da cui deriveranno le Dodici Tribù di cultura monoteistica. In questo evento si succedono due fasi: uno di diaspora e l’altro ecclesiale. Questo processo si ripete anche in seguito con la diaspora degli Ebrei in Egitto, da cui ne usciranno come popolo, comunità nazionale: è la fase ecclesiale; così anche la diaspora in Babilonia e la formazione del Regno di Giuda; fino alla diaspora nel mondo ellenistico e via via nel corso dei secoli, fino a quando non ci sarà il ritorno definitivo con la conversione a Cristo. Le migrazioni entrano a far parte e sono una memoria costante del cammino verso la realizzazione della comunità escatologica del Regno.
    Le migrazioni hanno messo spesso le Chiese particolari nell’occasione di autenticare e rafforzare il loro senso cattolico, giacché «la cattolicità, apparsa in forma luminosa il giorno di Pentecoste, vive misteriosamente nel succedersi delle generazioni cristiane, in attesa di consumarsi in un abbagliante splendore alla fine dei tempi quando ci troveremo tutti associati, «uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione». Così le origini cristiane rimandano al destino ultimo, e la nota della cattolicità della Chiesa si collega dinamicamente con quella escatologica».[3]

    «Timore» delle migrazioni, «tremore» delle nostre Chiese?

    La Chiesa è per sua natura una e cattolica, essendo il Corpo di Cristo, che riceve la sua unità dal Capo, Cristo Gesù, il quale attraverso il suo Spirito la tiene saldamente unita, al di là di tutte le differenze culturali. Ogni Chiesa particolare è cattolica, in quanto realizza l’unica Chiesa di Cristo, per cui i migranti nella pratica della loro fede non solo non si sentono stranieri in nessun paese dove vive e opera la Chiesa di Cristo che celebra l’eucarestia, fonte di unità, ma sensibilizzano la Chiesa particolare ad aprirsi verso l’universale e a sperimentare in maniera più visibile la cattolicità nella particolarità.

    Frammentarietà delle migrazioni e permanenza della Chiesa particolare

    La mobilità umana, in quanto oggetto della cura pastorale della Chiesa, investe la questione del rinnovamento stesso della vita ecclesiale, vista alla luce del mistero della Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, che vive ed opera in ogni Chiesa particolare. Non è solo una questione di relazione tra Chiese particolari di partenza e di arrivo, ma è fondamentalmente un problema ecclesiologico.[4]
    Sotto questo profilo, le migrazioni si presentano come un «problema che nasce per effetto di una delle discontinuità sicuramente più rimarchevoli che con la sua stessa presenza il migrante immette nella continuità della Chiesa particolare»;[5] infatti ogni fedele ha un background culturale che è strettamente legato al proprio sentire e vivere la fede e i sacramenti, a livello comunitario e personale.
    Si pone, quindi, per la Chiesa particolare, la necessità della integrazione del migrante anzitutto pastorale e liturgica, che richiede un profondo rispetto per le devozioni personali e comunitarie di tali fedeli, salvaguardandone tutta l’originalità ed evitando la tentazione che questa discontinuità venga assimilata nel continuum dell’ecclesialità particolare.[6]
    La mobilità umana diventa, poi, ancor più problematica quando ci si trova a confrontarsi con culture molto differenti, quando aumenta il numero dei gruppi etnici all’interno di una Chiesa e ancor più quando la differenza nelle tradizioni religiose si manifesta in un rito diverso.

    Identità dei migranti e apertura delle Chiese particolari

    La nota della cattolicità della Chiesa non impedisce le diversificazioni e le caratterizzazioni culturali particolari: «L’identità culturale di una minoranza come quella dei protagonisti delle migrazioni (come del resto anche della eventuale maggioranza indigena) deve essere salvata ad ogni costo»;[7] questa identità non è solo antropologica o linguistica, ma riguarda il modo di vivere e incarnare la fede. È pur vero che il migrante in terra straniera rischia di perdere la sua identità, perché viene a trovarsi in un mondo che gli impone spesso dei tagli netti con il passato; egli porta con sé il suo bagaglio culturale e religioso più come memoria che come attualità sempre dinamica. Voler conservare l’identità che lo caratterizza è una questione di dinamica culturale che vale per tutti i gruppi umani.
    Conservare la propria identità è una responsabilità prima di tutto dello stesso migrante, cosciente di portare con sé un bagaglio di valori culturali e religiosi. Egli vive questa coscienza di portatore di ricchezza quando si apre alle manifestazioni culturali e religiose del paese e della Chiesa dove si trova, e anche verso gli altri gruppi di migranti presenti sul territorio. Le migrazioni devono costantemente sottoporre a giudizio la propria tradizione culturale e religiosa alla luce della fede, per diventare sempre più capaci di una comunione universale. I migranti, inserendosi in una Chiesa particolare e collaborando con essa, lanciano una sfida e sono un richiamo ad uno sviluppo più universale della Chiesa particolare. Il cristiano ovunque emigri si sente membro vivo della Chiesa e con la sua testimonianza di vita apporta valori universali di pace, giustizia e amore che non possono non arricchire il paese e la Chiesa ospitanti.
    Anche la Chiesa particolare, da parte sua, dovrà impegnarsi a salvaguardare l’identità culturale dei migranti, ma non deve limitarsi a questo; la Chiesa stessa fa esperienza della sua unità e cattolicità nella ricchezza delle diversità, prende coscienza, attraverso la diversità del vivere la stessa tradizione cristiana, di se stessa e del suo essere Chiesa-comunione. Una Chiesa che attraverso le migrazioni non riesce a maturare una coscienza più grande dell’unità tra i popoli viene meno alla sua vocazione storica nel mondo moderno.

    Nella pastorale per i migranti: la carta vincente della comunione

    Il fenomeno migratorio è, anzitutto, un «problema» ecclesiale, che pone la domanda e la difficoltà di come far vivere a fedeli fuori del loro contesto culturale la propria fede senza appiattimenti o rinnegamenti delle loro peculiarità. Per cui, da un punto di vista pastorale, la mobilità si configura come «un problema di vita cristiana»,[8] che va salvaguardata e difesa.
    Ora la pastorale dei migranti è una pastorale della Chiesa e di ogni Chiesa particolare. Essa, però, prima ancora di esprimersi in formule organizzative, deve diventare uno stile di lavoro, un modo di pensare, tanto che se, per assurdo, in una parrocchia o in una Chiesa particolare non ci fossero immigrati, la comunità ecclesiale dovrebbe ugualmente educarsi a pensare all’altro, ad aprirsi alla comunione. Essa si può considerare come un’azione pastorale che riconoscendo le realtà e le differenze etniche, favorisce momenti e strutture pastorali di incontro, di dialogo e di compartecipazione tra le varie comunità linguistiche. La comunione fa sì che tutti i battezzati, membri della comunità, non siano solo beneficiari di un servizio pubblico, ma contribuiscano, nella loro diversità e con i loro carismi, alla missione della Chiesa. La corresponsabilità verso lo sviluppo universale della Chiesa particolare è di tutti, migranti e autoctoni: si tratta di porre dei gesti che coinvolgano i fedeli, ma soprattutto si tratta di educare i cristiani ad essere Chiesa dappertutto. In altre parole la realtà migratoria è una memoria costante per tutti i cristiani sia della realtà pellegrinante in cui ci si trova, sia della missione propria di ogni credente, di camminare cioè verso l’unità del popolo di Dio, un cammino in cui ogni cristiano è missionario verso altri cristiani.
    Le difficoltà e le resistenze nel cammino di comunione sono inevitabili; infatti «è singolare il fatto che i grandi documenti della Scrittura sulla koinonia ecclesiale siano in un modo o in un altro condizionati da situazioni di tensione, forse anche da conflitti capaci di portare a delle scissioni».[9] Anche le migrazioni rientrano in questa tensione e provocano rotture. Come conciliare tale rottura con le esigenze della comunione? Come giungere alla comunione tramite la tensione delle diversità?
    Una Chiesa particolare riesce a svolgere la sua missione di evangelizzazione nella relazione con i migranti attraverso alcuni punti fondamentali: una pedagogia della cattolicità, l’ospitalità data ai migranti più poveri, l’inserimento della Chiesa particolare e della parrocchia nei luoghi di fratture sociali, di più difficile convivenza, il dialogo interreligioso e la responsabilità pastorale del sacerdote nell’accogliere lo straniero. La comunità cristiana deve maturare una mentalità e acquisire uno stile di rapporto caratterizzati da una conversione del cuore e della mente verso una convivenza più armoniosa e più arricchente, da un dialogo che sottolinei valori umani e cristiani universalmente validi, da una formazione di tutti i cristiani ad una apertura alle diversità, passando «da una solidarietà congiunturale ad una solidarietà strutturale […] da un impegno ‘per’ gli immigrati a un impegno ‘con’ gli immigrati». Questo passaggio qualitativo segna, a mio modo di vedere, la maturità di una comunità verso la sua cattolicità.[10]
    Molto importante è a questo riguardo la formazione dei sacerdoti: sia i documenti del magistero sia il CIC hanno maturato e fatto proprio la consapevolezza che essi sviluppino la sollecitudine non solo per la Chiesa particolare cui vengono incardinati, ma anche per la Chiesa universale. L’appartenenza di un sacerdote ad una Chiesa particolare non deve rinchiudere in una mentalità ristretta e particolaristica, ma aprirlo al servizio di altre Chiese, nelle quali e dalle quali esiste l’unica Chiesa di Cristo, in comunione tra loro. Riprendendo quanto afferma la Pastores dabo vobis n. 74: «Il sacerdote deve maturare, nella coscienza della comunione che sussiste tra le diverse Chiese particolari, una comunione radicata nel loro stesso essere di Chiese che vivono in loco la Chiesa unica e universale di Cristo. Una simile coscienza di comunione interecclesiale favorirà lo scambio di doni, a cominciare dai doni vivi e personali, quali sono gli stessi sacerdoti». Questo significa che, come i migranti devono sentirsi parte della Chiesa in qualsiasi luogo essi siano, così i sacerdoti sono consacrati ministri dell’unica Chiesa di Cristo
    Le Chiese particolari devono interrogarsi sulle loro capacità di accogliere i migranti e sulla testimonianza di comunione che esse danno nella riunificazione di cristiani di culture diverse. Una comunità cristiana non si costituisce in astratto, ma in relazione alle coordinate socioculturali dell’hic et nunc dell’agire ecclesiale. Essendo l’espressione storica della comunione con il mistero di Cristo, in vista di una missione da compiere in mezzo agli uomini, la comunità cristiana deve rinnovare continuamente se stessa secondo la forza inesauribile della comunione e secondo le esigenze sempre nuove della missione. Queste esigenze oggi vengono dall’appello di una società pluralista e globalizzata, che ha però il grande merito di spingere la Chiesa verso quella che è la forma originaria del suo essere, la Chiesa della Pentecoste.

    Punti fermi con qualche interrogativo: per andare oltre

    La Chiesa particolare, senza dover andare altrove, coglie nelle migrazioni il luogo privilegiato dove poter vivere, verificare e fare la prova della sua cattolicità.
    È possibile affermare questa cattolicità locale, intesa come apertura alle differenze armonizzate non mediante livellamenti, ma attraverso una crescita e una maturità di esse nell’armonia universale, solo attraverso la piena comprensione della Chiesa particolare in quanto segno e luogo nel quale l’universalità della Chiesa agisce ed è presente in pienezza. È impossibile, cioè, parlare dell’azione della Chiesa con i migranti, se non matura la consapevolezza, negli operatori pastorali e in tutti i fedeli, che alla Chiesa particolare si addice in primo luogo il titolo di soggetto della missione e dell’evangelizzazione. Per questo essa va considerata nel suo rapportarsi con la comunione verso tutte le altre Chiese e con la universalità della Chiesa.
    Esattamente in questo contesto si colloca la sfida che i migranti lanciano alla Chiesa particolare; essi costituiscono, con la loro presenza, il segno dell’immanenza reciproca fra Chiesa universale e particolare.
    La sfida lanciata dalle migrazioni a una comunità locale è proprio quella di aprirsi a una comunione universale. La presenza dei migranti nella Chiesa particolare mira a far maturare sempre più quella immanenza reciproca tra Chiesa universale e Chiesa particolare; i migranti, intesi come cristiani appartenenti ad altre culture e nazionalità, non costituiscono un problema quanto alla loro appartenenza alla Chiesa universale; allo stesso modo, se ogni Chiesa particolare porta in sé tutto il mistero della Chiesa universale, allora il migrante avrà diritto di appartenere, per il solo fatto di essere cristiano, a ogni Chiesa particolare nella quale è ascritto per il battesimo, o nella quale si trova a vivere in ragione del domicilio o del quasi-domicilio.
    A fondamento di ciò si pone la comprensione della natura della Chiesa come mistero di comunione, che nasce dalla unità e diversità della Trinità e manifesta visibilmente la sua identità: è in questa visione che si può giustificare e capire la presenza del migrante nella Chiesa particolare non come un problema da risolvere, ma come una ricchezza, quasi come una necessità che contribuisce a far sì che la Chiesa particolare si senta più cattolica, sia un luogo di dialogo e di incontro, nel quale ha spazio l’altro, nella sua originalità, diversità e complementarietà, sia una Chiesa-comunità, nella quale i singoli, autoctoni o stranieri, i vari gruppi, movimenti, associazioni siano a servizio del dinamismo più ampio che fa della Chiesa particolare il popolo di Dio.
    L’acquisizione della realtà cattolica di ogni Chiesa particolare non è automatica: ha bisogno di una maturazione e di un cammino costante di riflessione. Se è vero che le migrazioni provocano per la Chiesa particolare una «messa in moto» di dinamismi nuovi e possono aiutare la società e la Chiesa a superare una visione univoca della cattolicità, intesa come espansione geografica di un solo modello culturale di Chiesa, è anche vero che ci troviamo di fronte ad un cammino culturale tutto da costruire e, sostanzialmente, in salita; inoltre ogni Chiesa particolare ha vissuto e vive costantemente la tentazione del localismo culturale, etnico, linguistico e nazionale: se è vero che il battesimo ci fa membri della Chiesa, tuttavia ciascuno rischia di sentire prioritaria la sua appartenenza etnica e culturale e come secondaria l’appartenenza ecclesiale.
    L’azione pastorale della Chiesa è stata spesso contrassegnata dalla identificazione, per cui il luogo, come ad esempio la parrocchia territoriale, era vista come una patria dove il credente si identificava, si sentiva protetto e sviluppava tutta la sua vita. Anche per i migranti la Chiesa ha cercato di organizzare strutture di identificazione, come per esempio la missio cum cura animarum. Ma sembra che il criterio dell’identificazione porti all’isolamento, alla non comunicazione, allo sviluppo di strutture e realtà parallele, che convivono le une accanto alle altre con pochi contatti. La fine della societas christiana ha messo in crisi la cultura dell’identificazione. Ora, davanti a questa crisi e a una realtà globalizzata e multiculturale, e con il contributo dei migranti, è necessario trovare un cammino nuovo, che sblocchi la situazione: al principio di identificazione bisogna sostituire quello di comunione.
    La difficoltà a considerare i migranti nel contesto locale della Chiesa potrebbe sorgere, e di fatto si verifica, perché il migrante immette una forte discontinuità nella continuità della Chiesa particolare, giacché ogni fedele fonda nel proprio retroterra culturale il suo modo di sentire e di vivere la dimensione della fede. È necessario che la Chiesa particolare veda proprio in questa discontinuità la maniera più genuina per vivere la sua universalità e la sua apertura al mondo intero, a cui per sua natura è mandata e che di fatto ha già dentro di sé. Le migrazioni, avendo fatto confluire il «mondo» in «ogni luogo», obbligano le Chiese particolari a fare i conti con la pluralità delle culture, delle lingue, delle razze e delle etnie e delle religioni, senza identificarsi con una di esse.
    La Chiesa in ogni luogo deve «diventare» sempre più cattolica, aperta, cioè, al mondo che è già dentro di lei, capace di riconoscere le diversità, di valorizzarle e di metterle in comunione tra di loro. Per la Chiesa, infatti, la nota della cattolicità è sempre da rincorrere, da perseguire e da acquisire. Pensare e vedere la cattolicità come qualcosa di fisso, stabile e già raggiunto significa bloccare e chiudere la missionarietà della Chiesa. La missionarietà cattolica della Chiesa esiste proprio in senso dinamico, cioè in quanto si ricostruisce e si reinventa continuamente.
    Alla luce del concetto di comunione cattolica, ci si può chiedere: le attuali strutture pastorali riescono a non far sentire il migrante straniero alla Chiesa particolare? Queste strutture sono capaci di educare il migrante ad essere non solo destinatario dell’azione pastorale, ma anche collaboratore egli stesso nell’azione pastorale? Quest’ultimo interrogativo richiede, evidentemente, un salto di qualità: dalla missio ad migrantes alla missio migrantium.
    Un altro aspetto concerne il rischio delle cosiddette strutture parallele, che, anziché aprire alla comunione, chiudono.[11]
    In questo senso, si può approfondire la riflessione sul criterio territoriale e personale dell’organizzazione ecclesiastica, per poter costruire modelli pastorali che valorizzino sia il territorio, visto come prossimità e apertura della Chiesa che accoglie in un luogo, sia la dimensione personale, che, più che essere un ostacolo al principio di unità di una Chiesa, rappresentato dal Vescovo, è il modo per risaltare la diversità propria della Chiesa di Pentecoste.
    Nel più ampio contesto dei criteri di pastorale specifica, quale potrà essere l’equilibrio tra il principio della specializzazione pastorale e l’inserimento in una pastorale di insieme (diocesana, parrocchiale…)? Quale relazione tra criterio di organizzazione territoriale e criterio personale? E quale la relazione tra il principio di disponibilità ministeriale e l’incardinazione, tra il principio di specificità ministerale e l’universalità del ministero sacerdotale?
    Infine, nel contesto della funzione di insegnare e di santificare che investe primariamente l’esercizio del ministero da parte dei ministri sacri e di quanti li coadiuvano, ci si può chiedere: quale catechesi nel contesto specifico della mobilità? Quali criteri seguire nell’inculturazione della liturgia e nella celebrazione dei sacramenti? Come garantire l’unità della liturgia che celebra il mistero di Cristo nella pluralità delle forme celebrative? Quale creatività adottare per assicurare la liceità e la validità delle celebrazioni, l’efficacia spirituale per i fedeli, senza scadere in sterili arbitrarietà e improvvisazioni?

     
    NOTE

    [1] S. Dianich, La Chiesa mistero di comunione, Genova 19875, pp. 56-57.

    [2] Neologismo coniato da R. Robertson, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Trieste 1999.

    [3] Commissione ecclesiale per le migrazioni della CEI, Ero forestiero e mi avete ospitato. Orientamenti pastorali per l’immigrazione, 4 ottobre 1993, n. 41, in Fondazione Migrantes della Conferenza Episcopale Italiana, Enchiridion della Chiesa per le migrazioni. Documenti magisteriali ed ecumenici sulla pastorale della mobilità umana (1887-2000), a cura di Giovanni Graziano Tassello, con la collaborazione di Luisa Deponti e Mariella Guidotti, Bologna 2001, 3194 [ECM/3194].

    [4] J. Beyer, Fondamento ecclesiale della pastorale dell’emigrazione, in J. Beyer-M. Semeraro (a cura di), Migrazioni. Studi interdisciplinari, Vol. II, Roma 1985, p. 9.

    [5] P.A. Bonnet, Comunione ecclesiale, migranti e diritti fondamentali, in Aa.Vv., Migrazioni e diritto ecclesiale. La pastorale della mobilità umana nel nuovo Codice di Diritto Canonico, Padova 1992, p. 35.

    [6] Cf. Ibidem, p. 36.

    [7] E. Corecco, Chiesa locale e partecipazione nelle migrazioni, in La Chiesa di fronte al problema delle migrazioni. Raccolta di scritti ecclesiologici di Eugenio Corecco, Supplemento redazionale di «Servizio Migranti», II (1995), p. X.

    [8] L’espressione è di J. Beyer, Fondamento ecclesiale della pastorale dell’emigrazione, in J. Beyer-M. Semeraro, Migrazioni. Studi interdisciplinari, Vol. II, Centro Studi Emigrazione, Roma 1985, p. 19.

    [9] J.M. Tillard, Chiesa di Chiese. L’ecclesiologia di comunione, Brescia 1989, p. 45.

    [10] Commissione ecclesiale per le migrazioni della CEI, Ero forestiero e mi avete ospitato, n. 21c, in ECM/3159.

    [11] Limitatamente all’esperienza italiana, si può segnalare il dibattito suscitato con la pubblicazione di due articoli: Il rischio delle cappellanie etniche, in “Vita pastorale”, VI-VII (2003), e Il coraggio di aprirsi alle cappellanie etniche, in “Vita pastorale”, X (2003).


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