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    Il sogno della bell’età: ciò che manca ai riti iniziatici di oggi



    Adolescenti che sanno star bene /6

    Domenico Cravero

    (NPG 2006-08-47)


    L’età evolutiva è tutta un susseguirsi di sorprese e di conquiste che scandiscono il lungo e difficile percorso del raggiungimento dell’autonomia. Ogni tappa è accompagnata dall’emozione della «prima volta», dai riti d’inizio. E ogni volta, la novità deve essere raccontata, e qualcuno deve ascoltare, riconoscere, commentare ed ammirare. L’azione autonoma è, infatti, un processo molto complesso che ha bisogno di risorse personali e del concorso di tanti. Si diventa autonomi solo gradualmente e attraverso un processo a tappe.

    L’azione autonoma presuppone, innanzi tutto, l’acquisizione di capacità ed abilità nuove, di attitudini che conferiscono la competenza del «saper fare». Le persone, poi, devono essere interessate alle nuove conquiste, le devono desiderare, le devono vivere con piacere. Diversamente il tempo dell’autonomia si protrae senza risultato. Il desiderio diventa, poi, azione, man mano che i ragazzi riconoscono le risorse, ammettono i limiti, imparano a capire fin dove le capacità e le caratteristiche individuali (l’autostima) possono effettivamente spingersi, osare, tentare. L’azione autonoma, che comporta un costo umano mai indolore, è sempre tentata di regredire, di tornare indietro per ritrovare i vantaggi della dipendenza precedente. Per non desistere e proseguire, occorre avere motivazioni valide. Ci vogliono valori (la certezza che crescere sia bello) ed ideali (la percezione che diventare adulti sia importante). Questi sostegni all’autonomia si osservano e si condividono in mezzo agli altri, nella comunità. Alla maturazione fisiologica si affianca il lavoro della mente che deve riconoscere, capire, spiegare. Essenziale è, però, anche il riconoscimento degli altri, perché la crescita più che questione di riuscita individuale è un fatto comunitario: le persone si rispecchiano negli altri.
    Un cambiamento fisico o un tratto psicologico diventano improvvisamente ben visibili, tracciando una vera rottura con il passato e creando una distinzione. L’adolescente acquista un tratto d’identità inconfondibile e prima inesistente. L’identità stabilisce una differenza. La distinzione crea una separazione. La differenza deve emergere in primo piano: si attraversa un guado («limen»), si giunge ad una nuova terra, che riempie di commozione, d’orgoglio e di gioia chi lo compie come chi vi assiste.
    La nuova identità ha bisogno del riconoscimento dei circostanti che confermano e rassicurano: l’adolescente non può più essere trattato come il bambino di prima, è integrato in una nuova appartenenza.

    L’inizio nell’adolescenza

    Da sempre il cambiamento più radicale è stato individuato nell’adolescenza, considerata come una vera rinascita. La pubertà è un inizio importante e rischioso perché alle trasformazioni fisiche si associa l’acquisizione di attitudini non solo fisiologiche ma specificatamente umane: lo sviluppo dell’intelligenza, l’esigenza della libertà, la capacità generativa (non solo biologica), l’identità sociale. Per la prima volta nella storia evolutiva della società si assiste oggi ad un mutamento consistente dello sviluppo dell’azione autonoma. All’acquisizione delle attitudini del nuovo corpo, che per gli straordinari progressi dell’igiene, dell’alimentazione e dell’educazione, assumono una forma dove il vigore, l’agilità, la prontezza mentale raggiungono il massimo sviluppo, non succede una vera separazione ed un’ancor più ridotta integrazione. La società adulta non prevede un vero riconoscimento del corpo trasformato (liminalità) e non sono previste ritualità per dargli il benvenuto.
    Il cambiamento è concepito come un fatto continuo e graduale, senza bisogno di essere iniziati. La separazione non è considerata una conquista, né l’autonomia un obiettivo essenziale; al contrario, indispensabile è ritenuto il supporto costante della famiglia. La psicologia insiste sulla continuità dello sviluppo, sulla relativa continuità dell’idea di sé. Insegna che esiste una molteplicità di Io, ognuno dotato di una relativa autonomia, adatti a svilupparsi in tempi diversi. La rottura e il conflitto con la famiglia sono visti prevalentemente come problemi, indici di malessere.
    La comunicazione sociale, quasi per marcare una distinzione che deve pur esserci, descrive i nuovi ragazzi come trasgressivi e edonisti, «generazione in ecstasy», «età invisibile». La maggioranza degli adolescenti, almeno secondo le ricerche sociologiche, non si riconosce né a disagio né trasgressiva. Sicuramente i nuovi adolescenti sono innovativi e sconvolgono le descrizioni e le prescrizioni tradizionali: affermano, prima di tutto, le relazioni interpersonali non solo amicali ma anche quelle familiari.
    I modelli passati della formazione dell’adolescente, l’apprendistato per il lavoro, la separazione dalla famiglia per la ricerca dell’indipendenza, il fidanzamento in vista del matrimonio, non funzionano più. Gli strumenti offerti dall’educazione e dalla formazione religiosa passata, la meditazione, le prove di resistenza, le pratiche ascetiche, oggi sono irrise, anche se le nuove conoscenze delle neuroscienze confermano come le trasformazioni corporee attivano nuovi circuiti mentali; e quelle pratiche, oggi disprezzate, aiutavano effettivamente i ragazzi a porsi nello stato mentale adatto a ricevere nuove conoscenze capaci di sostituire le precedenti infantili e facilitavano il cambiamento sociale.
    Proprio quest’ultimo è l’aspetto meno considerato dalla società individualista. Il passaggio perde il suo significato d’iniziazione: l’adolescente si autointroduce nella comunità non degli adulti ma dei pari. Suoni e immagini dei media sostituiscono la testimonianza di adulti autorevoli. I nuovi «santi ed eroi» (i Che Guevara, i John Lennon, i Jim Morrison) non hanno misteri da comunicare ed appartengono ai mondi virtuali, avulsi dai loro significati storici ed ideologici.
    Sarebbe impreciso sostenere che non esistono più le ritualità dell’inizio adolescenziale. È possibile, invece, descrivere un ricco prontuario di pratiche di autoiniziazione dalle quali gli adulti sono estranei, con fondate ragioni per sostenere che l’esclusione sia la conseguenza non dell’opposizione degli adolescenti ma del disinteresse dei grandi.
    La prova potrebbe essere individuata nel fatto che le ritualità dell’iniziazione al gruppo dei pari non avvengono solo attraverso il consumo (di oggetti o di esperienze riservate ai giovani) ma anche nella produzione di attività espressive, produzioni scritte, performance musicali, realizzazioni culturali spontanee, eventi che potrebbero diventare comunicazione sociale, ma che, senza gli spazi in cui esprimerle e l’interesse di chi partecipa, rimangono «sottocultura giovanile».
    Quando i ragazzi possono rendere pubbliche le narrazioni della loro adolescenza, gli adulti diventano i testimoni del cambiamento, confermano e si compiacciono dell’avvenuto passaggio. L’adolescenza smetterebbe, così, di presentarsi come «interminabile» e l’integrazione in una società condivisa prenderebbe forma.

    L’iniziazione sportiva

    La società degli adulti, socialmente piuttosto assente nell’aspettare e nell’accogliere gli adolescenti, è invece particolarmente attiva nell’iniziazione sportiva delle nuove generazioni. Gli sport organizzati rimangono forse gli unici ambiti dove ancora si usa esplicitamente il termine «iniziazione» (iniziazione all’arrampicata, alla vela, all’immersione…) e ne realizzano compiutamente il processo. Non si tratta solo di un evento culturale, visto che le ragioni economiche non vi sono estranee. Come prodotto della società adulta, l’iniziazione porta l’impronta di un singolare individualismo.
    Nello sport si celebra principalmente il primato della prestazione individuale o di gruppo. Nei riti di passaggio dell’adolescente campione (nel senso ampio del termine) non si celebra un traguardo dell’età. Il distacco dai genitori è solo simulato: nello sport l’adolescente non prende congedo dalla famiglia, dalla quale dipende in tutto (costi dell’attività, trasporti, gestione del tempo). La separazione dalla famiglia avviene attraverso l’identificazione dell’adolescente con il suo allenatore, vero sostituto dei genitori.
    Uno solo è il cambiamento sociale realizzato: nella prova sportiva (la liminalità) dall’anonimato si passa al gruppo dei campioni. Per il resto si rimane individui soli.
    La competizione (e non l’integrazione) è il risultato finale dell’iniziazione sportiva.
    Il corpo adolescente non vive attraverso le performance dello sport attuale (e meno ancora nei centri fitness) il valore dell’integrazione nell’adultità, come avveniva nei riti antichi. L’adolescente campione può rimanere bambino nel suo statuto interiore; ciò che importa sono i risultati atletici.

    L’iniziazione nel gruppo

    In assenza della società adulta il grande protagonista dei riti d’inizio dell’adolescenza è il gruppo dei pari. Nella frequentazione adolescente i tempi dell’iniziazione si compiono interamente e il loro risultato è eminentemente sociale, se pur limitato all’appartenenza del gruppo.

    Distinguersi dai genitori

    I riti d’iniziazione avevano il benefico effetto di riconoscere davanti a tutti che la famiglia, pur così importante, non è il tutto del vita, e d’impegnare coloro che non erano più riconosciuti come bambini ad imparare ad avere relazioni diverse da quelle che s’instaurano con i genitori.
    Presto i figli iniziano a porsi il problema non solo di comportarsi bene con papà e mamma, ma anche di essere accettati fuori della propria famiglia, di appartenere ad una comunità più ampia di quella di casa propria. Nella prima adolescenza questo apprendimento avviene in primo luogo nella frequentazione dei pari. Non è certo un dato di novità, il gruppo dei pari. Esiste, però, un’innovazione intelligente, compiuta dagli attuali adolescenti, secondo la quale, per acquisire il nuovo, non è necessario perdere quello che si ha. Per distinguersi dai genitori non è necessario separarsi da loro. La ricerca sociale sembra dare loro ragione (pur osservando l’ambivalenza della soluzione realizzata dagli attuali adolescenti). Si può dimostrare che il benessere del figlio è tanto più efficace quanto più la qualità e la soddisfazione del rapporto con gli amici si combina con la sicurezza dell’affetto famigliare. Nella vicenda familiare è possibile constatare un fecondo paradosso: più l’affetto e il legame con i figli si sono radicati, maggiormente si sono consolidate le basi per distinguersi dai genitori. L’autonomia non significa indifferente indipendenza dalla famiglia; il legame che continua e inventa nuove forme di interdipendenza è, piuttosto, una garanzia d’autonomia. I genitori non hanno, in genere, nulla da temere di questa nuova (e transitoria) condizione. La possono considerare con un certo distacco e giusto senso dell’humour e, nello stesso tempo, con rispetto e riguardo. Possono permettere che le nuove grandi ritualità del corpo trasformato (il primo bacio, i primi approcci affettivi, la travolgente e travagliata passione adolescente, il perturbante linguaggio della sessualità) siano celebrate prevalentemente nel gruppo dei pari, senza sentirsi, per questo, esclusi. Rovistare nei diari personali, curiosare nella messaggeria dei telefonini sarebbe solo un’inutile e dannosa intrusione: i genitori non devono trattenere per sé ciò che è destinato ad altri. Negli amici dei figli i genitori devono individuare qualcosa di «sacro», per questo non devono mai criticare le persone degli amici. Toccare gli amici è come toccare il padre o la madre, che in quei pari in realtà sono come rappresentati, come «oggetti transizionali», come intermediari per spiccare il volo.

    Identificarsi nella frequentazione

    L’identificazione attraverso i pari si costruisce nell’esperienza di differenza di valore che si viene a creare tra un gruppo di appartenenza (i propri amici, le proprie compagnie) e i gruppi di confronti (il resto del mondo). Il gruppo dei pari inizia ad esistere e a creare le condizioni della frequentazione, quando combina insieme due condizioni contrapposte: l’intimità della comunicazione e la superficialità dei rapporti. Gran parte delle caratteristiche dei gruppi dei pari derivano dalle infinite varianti delle diverse combinazioni dell’intensità dell’amicizia con l’estensione dei rapporti e della comunicazione. Un’amicizia troppo intima (come nella coppia amorosa) o una frequentazione troppo estesa, senza confidenza (come un oratorio anonimo), produce crisi nel gruppo che minaccia di sciogliersi. In questo caso intensità ed estensione si separano. La strana intimità dei gruppi adolescenziali, sempre instabile e minacciata, foriera di infinite discussioni, di pianti sconsolati, di pettegolezzi continui, è un espediente provvisorio per conservare la memoria dell’intimità familiare che si trasforma e per diluire nella superficialità il possibile dolore che ogni attaccamento produce quando minaccia di perdersi (sono precisamente i sensi di colpa e il disagio che la separazione dai genitori sta arrecando).
    Sentirsi appartenere ad un gruppo è quindi un’esperienza fondamentale per lasciare le sicurezze familiari e affrontare l’inserimento in una società complessa, vasta e competitiva. Il gruppo costituisce un’opportuna area di passaggio, un mondo interpersonale, vicino, vivibile, pari e fraterno, che bene si presta a «sostituire» la famiglia.
    Slegarsi dall’affetto genitoriale è molto difficile particolarmente quando ci si sente «tanto amati» (soprattutto se di un amore possessivo). Una strategia che l’adolescente inventa allo scopo consiste nel considerare i genitori più dal punto di vista del loro ruolo che del valore della loro persona. In questo modo è più facile attaccarli e svincolarsi da loro. Gli adolescenti si specializzano, così, nel dare il meno possibile «soddisfazioni» e riconoscimenti ai loro genitori, i quali, tuttavia, sbaglierebbero ad interpretare l’intrattabilità dei figli come mancanza d’amore. Per un adolescente, mettersi in antagonismo con i genitori è un modo per dimostrare di essere un individuo che sa pensare con la sua testa e per verificare fino a che punto è in grado di sostenere le proprie idee. Ogni pretesto è valido, quindi, per mantenere la conflittualità.
    L’intensità della relazione familiare è riversata sul gruppo. La frequentazione, anche quando appare superficiale e disimpegnata, è sempre un’esperienza impegnativa: è il primo esporsi, fuori famiglia, di una persona (autonoma) in mezzo ad altre persone.
    I riti popolari d’inizio rendevano il passaggio più semplice, abbreviavano la fatica e il dolore, risolvevano più facilmente il compito della ricerca dell’identità.

    Divertirsi

    Il passo importante verso l’autonomia personale, per dissolvere le tensioni e prevenire le delusioni, è assunto in termini «leggeri». L’intensità della comunicazione è quindi abbinata al divertimento. L’evasione sembra la regola della frequentazione ma è sempre densa di significati interpersonali. Divertirsi non è mai cosa facile. Non si è automaticamente accettati in una compagnia; occorre esibire alcune competenze personali per esserne ammessi: la simpatia, la disponibilità al divertimento, la sincerità, il rispetto della parola data, la fedeltà al gruppo (i sottogruppi generano spesso feroci polemiche). Sono in gioco impegni etici non indifferenti. In ogni caso la comunicazione è sempre orientata alla persona, colta nella sua originalità ed unicità, prima ancora che per le sue caratteristiche. Decisamente meno importanti sono gli altri moventi dell’aggregazione, come i generi musicali, o anche le mode e i luoghi dell’incontro. Il primo e vero divertimento degli adolescenti è sentirsi bene come persona in mezzo a chi lo riconosce come persone (libere, autonome, singole, originali)
    Gli adolescenti di oggi sono molto aperti alla diversità e tollerano a fatica il conflitto.
    Partecipare ad un gruppo, frequentare una compagnia stabilisce una differenza (tra il proprio gruppo e il resto del mondo) che crea un’identità, un «Noi» che si distingue dal «Loro». Il gruppo adolescente è quindi potenzialmente conflittuale. Tuttavia, se la situazione non degenera nell’isolamento silente od ostile, è possibile notare una tendenza a disincentivare le rivalità e a ridurre i conflitti. La situazione problematica che sembra, se mai, oggi prevalere è l’indifferenza: farsi i fatti propri, non parlare più in casa, attuare solo ciò che piace, ostentare provocatoriamente il disinteresse e la noncuranza.

    Evolvere, oltrepassare

    Il gruppo adolescente sembra fatto a bella posta per evolvere, per oltrepassarsi. Tanto è assoluto nelle priorità che impone e nell’appagamento dei sentimenti che procura, tanto è fragile e provvisorio nella sua evoluzione. Sempre sulla bocca dei suoi aderenti, sempre sull’orlo di una crisi senza scampo. È un «rito di passaggio»!
    Il gruppo va in crisi quando le comunicazioni non sono più orientate alla frequentazione; quando, cioè, o si perde la dimensione dell’intensità (si svelano segreti, si diventa ipocriti…) o si contrae l’estensione (prevalgono i sottogruppi, si parla dietro, non si ha più fiducia, qualcuno si ritira…). Il gruppo va in crisi quando stare insieme non è più fine a se stesso, quando le persone non valgono più per se stesse.
    Il primo effetto della crisi consiste nell’esasperazione del divertimento. La frequentazione si riduce ad un copione simulato e il divertimento è minacciato dalla noia: non ci si diverte più «a fare niente», diventa imperativo «agire» (teppismo e bullismo si radicano in questo atteggiamento). L’accento è posto sul come ci si diverte. L’intimità della comunicazione e l’orientamento all’unicità della persona (la confidenza, la fiducia, il bisogno dell’altro...) diventano via via secondari. Si stabilizza dapprima una forma di differenziazione interna, con l’imporsi fastidioso e assillante delle relazioni conflittuali: le critiche aspre, i giudizi senza appello, le ripicche, i rancori... In un primo momento (ma solo provvisoriamente) l’insistenza sulla distinzione del «Noi» (l’ingroup) pare una difesa per cimentare ulteriormente l’identità, in sostituzione della comunicazione orientata alla persona, vera base per il divertimento.
    L’appello all’unità può solo essere sostenuto dalla frequentazione; se questa fallisce (quando non è più la comunicazione spontanea a divertire), se viene meno anche il supporto della chiusura di gruppo (la distinzione Noi/Voi), rimangono solo i surrogati non comunicativi: le bande e le loro attività violente o la «piazza» dei tossicodipendenti. Il gruppo ha ormai imboccato una pericolosa china di degrado, rinforzata dallo stigma sociale. La prevenzione della crisi dei gruppi è molto importante nell’accompagnamento degli adolescenti, perché la frequentazione è il vero antidoto per prevenire la degenerazione della violenza, l’abuso delle droghe e le dipendenze relazionali. Il gruppo, per molti adolescenti, è l’unico rito d’inizio di cui possa godere i vantaggi

    I genitori e gli educatori come iniziatori

    Oggi non solo vengono meno i riti per l’accoglienza dei giovani, ma sono rari anche gli adulti (genitori, insegnanti, datori di lavoro) autorevoli, capaci ad introdurre e a comunicare il senso profondo della vita, proprio in un momento evolutivo e in un tempo storico in cui questo vuoto è particolarmente avvertito. Non rimane che cavarsela da sé, cercare nei pari e nel gruppo, nelle imprese personali il necessario riconoscimento.
    Le direzioni efficaci del sostegno ai gruppi degli adolescenti sono due: la promozione della frequentazione e la disincentivazione della chiusura nel gruppo. La prima rende possibile una sana iniziazione non troppo condizionata dalla pressione assordante della commercializzazione; la seconda aiuta il gruppo ad evolvere, a lasciare non troppo tardivamente la forma adolescenziale per assumere quella giovanile che non è più solo frequentazione e divertimento ma anche responsabilità ed azione.
    Agli educatori (e ai genitori) che non si danno per vinti, è richiesto uno sforzo di comprensione dei pesanti condizionamenti dell’ambiente culturale e un’organizzazione concreta per difendere e sostenere la propria missione. Ciò che rende passivi e demotivati è fondamentalmente il conformismo alle pressioni sociali, in un’età in cui le possibilità di critica o di autonomia sono ancora in formazione. L’intervento degli adulti (e anche degli educatori non pari) non può essere diretto: possono solo facilitare, permettere, promuovere. Il rito può solo essere compiuto dai protagonisti e da protagonisti. Nei riti d’inizio gli adulti sono però indispensabili: senza la loro ammirazione e il consenso manifestato non avviene nulla. La risposta non può, però, essere solo l’iniziazione sportiva. Lo sport appartiene al dominio dei mezzi; isolato dai fini e dai processi della crescita può rivelarsi di scarsa efficacia (in qualche caso, dannoso).
    Il problema più grande degli adolescenti è l’identità. Capita sovente che i ragazzi non si accettino così come sono e manifestino un buon grado di insicurezza.
    I riti d’inizio sono il supporto più efficace che la cultura abbia inventato per facilitare il passaggio. È crudele l’assenza di riti, perché abbandona il giovane al suo destino.
    Nella frequentazione e nel divertimento adolescente è contenuto un grande sogno: essere persone, venire riconosciuto come unici, scoprire di avere una vocazione e non solo un ruolo.
    L’accompagnamento educativo è fondamentalmente il riconoscimento del sogno della bell’età, un sostegno alla speranza, dimensione essenziale dell’adolescenza.
    La pastorale della prima adolescenza è chiamata in causa per inventare, sperimentare e proporre nuove pratiche, nuovi linguaggi, nuovi riti per chiamare i ragazzi, accoglierli e celebrare con loro il debutto nella società, con il sostegno di tutta la comunità.

    NB. Ho approfondito questa tematica in D. Cravero, Ragazzi che ce la fanno, Effatà, 2006.


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